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La via dell’integrazione

24 ottobre 2003

«Molti di noi, compresi sette bambini, sono morti durante la traversata. All’inizio gettavamo i loro corpi in mare. Poi abbiamo cominciato a nasconderci sotto i cadaveri per ripararci dal freddo.» È il racconto terribile di Mouhane, ventidue anni, uno dei superstiti dell’ennesima tragedia del Mediterraneo, ricoverato all’ospedale civico di Palermo. È lui, nella notte di una triste domenica di ottobre del 2003, a ricostruire l’odissea di un gruppo di somali, fuggiti dal loro Paese per morire di stenti su un vecchio barcone di una dozzina di metri alla deriva nel canale di Sicilia. La nave della marina militare che ha prestato i soccorsi ha un nome che ora suona beffardo, si chiama Chimera. Ha tratto in salvo i vivi, ha recuperato i cadaveri rimasti a bordo, si è messa in cerca dei dispersi in mare, che sono tanti. Perché a partire, secondo le testimonianze, sono stati almeno in cento. Per i tredici morti accertati, a Lampedusa più di una messa non si può fare. Nel piccolo cimitero dell’isola non c’è più posto.

Quando vengo a conoscenza di questo, penso che sia un dovere del nostro Paese garantire rispetto e dignità alle povere persone morte nelle nostre acque per inseguire il sogno di una vita migliore. E che spetti alla Capitale organizzare per loro una cerimonia laica, da ospitare nella piazza più significativa della città, quella del Campidoglio.

Il pomeriggio del 24 ottobre è qui, su un tappeto rosso ai piedi della scalinata di fronte al Marco Aurelio, che vengono adagiate le bare appena arrivate dall’aeroporto di Ciampino sui carri funebri messi a disposizione dal Comune. Tredici bare che diventano il simbolo di tutte le persone che hanno perso la vita nei viaggi della speranza verso l’Italia. Tredici bare avvolte dalla bandiera somala, e tanti sono gli esponenti di questa comunità che si raccolgono per un ultimo saluto ai loro connazionali. «Non so nemmeno chi fossero queste persone» mi dice una donna commossa che tiene in braccio il suo bambino di otto mesi, «ma al loro posto potevo esserci io, poteva esserci mio marito.» Altri sicuramente pensano lo stesso o temono che dentro una di quelle casse di legno ci sia un parente. Una ragazza ne è convinta, dice che si tratta di suo fratello, Laahi Maracadde. Ha venticinque anni, non lo vede da sei. Sa solo che aveva deciso di provare la traversata del Mediterraneo partendo dalla Libia e che è in una lista di dispersi accertati, con il numero diciotto. Anche lei, come gli altri, chiede di poter avere delle fotografie dei cadaveri, almeno per mettere un nome sulle tombe del cimitero di Prima Porta, dopo la cerimonia religiosa che appena terminato qui si svolgerà alla Moschea di Monte Antenne. Nel frattempo, piange tutte le salme allo stesso modo e con la stessa tristezza.

Con lei, con la comunità somala, su questa piazza c’è Roma. A rendere omaggio a persone che oggi sentiamo nostri concittadini. La loro storia è una storia di dolore. Un dolore che inizia da una terra da troppo tempo dimenticata, martoriata da una guerra civile dalla quale oggi, con fatica, cerca di uscire. È la storia di chi ha lasciato tutto e tutto ha perso dentro il mare, persino il proprio nome, così che in questo momento non possiamo neppure ricordarne con precisione l’identità. È la storia di sopravvissuti che hanno cercato riparo sotto i corpi senza vita dei compagni. Di chi ha lottato contro il freddo, il vento e la fame, cercando respiro e speranza. La loro è la storia eterna del cammino che da secoli i dannati della Terra sono costretti a intraprendere per scappare dalla miseria, dalla guerra, dalla disperazione. Su quella barca hanno portato con sé le immagini, i nomi, i ricordi più cari, lasciati per un sogno che non si è realizzato. Con sé, nelle tasche, nelle borse, avevano le fotografie che raccontano un’esistenza. Immagini di famiglia. I genitori, i figli, la casa. Quelle stesse fotografie che i nostri nonni, a migliaia, portavano al di là dell’oceano in altre traversate piene di speranza e di disperazione. Oggi le possiamo vedere sui muri di Ellis Island, l’approdo a un passo dall’America, dove spesso per settimane attendevano che un visto di entrata desse ragione a quel viaggio. È lo stesso sogno dunque, lo stesso cammino di speranza che ce li fa sentire fratelli, che ci unisce in un unico dolore.

Troppe volte non sembra ci si renda conto che la nostra è una «comunità di destino», che il dramma del Sud del mondo, della povertà, della fame, riguarda tutti noi. Anche i ricchi, persino i più cinici ed egoisti. Non c’è nulla di più realista del capire questo. La povertà, oltre che moralmente inaccettabile, significa instabilità, tensione, conflitti. E le crisi saranno sempre più drammatiche se la comunità internazionale non sarà capace di agire insieme, prendendo misure condivise, coordinate. In molti Paesi africani la vita media dura la metà di quella di chi ha avuto in sorte di nascere in Occidente. Sono qui le radici dell’immigrazione. Chiunque di noi, sapendo di poter raddoppiare così il tempo della vita del proprio figlio, salirebbe su una barca, cercherebbe qualsiasi mezzo per approdare a una tale speranza. La via, allora, non può che essere quella della lotta alla povertà, della riduzione degli enormi squilibri che spezzano in due il pianeta. È la via della cooperazione, dell’integrazione. Del riconoscimento dei diritti, e insieme dei doveri, di chi vive e lavora nella città in cui è arrivato per costruire il futuro dei propri figli e dove è giusto abbia visibilità, voce e rappresentanza.

È per questo che nell’Aula Giulio Cesare siederanno i rappresentanti delle comunità straniere di Roma. Lo abbiamo deciso proprio due settimane prima, insieme alla mia delegata alle Politiche della multietnicità, Franca Eckert Coen, approvando il regolamento per l’elezione di quattro «consiglieri aggiunti» in consiglio comunale – uno per continente, comprendendo l’Oceania nell’Asia – e di un consigliere in ogni Municipio. Avranno diritto di parola su ogni argomento, non solo sui problemi degli immigrati. Potranno presentare interrogazioni, interpellanze, question time e intervenire nelle commissioni consiliari. Non avranno diritto di voto, ma porteranno in Campidoglio la voce e le richieste della loro gente. E i primi trenta dei non eletti faranno parte della consulta cittadina per la rappresentanza delle comunità straniere.

Roma è la prima città italiana a compiere un passo del genere. È una scelta che abbiamo fatto con grande determinazione, perché siamo convinti che sia una questione di civiltà, perché crediamo sia un segno importante di apertura e di attenzione verso un futuro che sarà sempre più multietnico, perché anche di qui passano la crescita della coesione sociale e la stessa lotta al terrorismo, prosciugando i bacini d’odio ai quali attinge. Più integrazione significa più giustizia e anche più sicurezza.

Roma, peraltro, ha come sua caratteristica distintiva la mancanza di quei ghetti etnici che sono presenti in altre realtà metropolitane e che costituiscono una vera e propria barriera dal punto di vista sociale. Nella nostra città in questo momento ci sono circa 270.000 immigrati, la loro forza lavoro è stimata attorno alle 120.000 persone e le richieste di regolarizzazione sono state 104.000, pari a circa il 15 per cento del totale nazionale. Ma anche lasciando stare le cifre, come si fa a non vedere che negli asili nido e quasi in ogni classe delle scuole elementari è ormai consueta la presenza di bambini di origine asiatica, africana, sudamericana? Sono bambini nati e cresciuti qui, che con ogni probabilità saranno i futuri professionisti, operai, artigiani e commercianti di Roma. Nel mio studio, sulla scrivania, ho una foto che mostro spesso agli ospiti e che dice più di molte parole: c’è un bimbetto nero, di origine africana, che mostra orgogliosissimo la sua maglietta della Roma. Non ho proprio dubbi: è non solo un dovere, ma una cosa «naturale», rendere al più presto cittadini italiani, a tutti gli effetti, questi bambini. Noi, intanto, cominciamo col dare un adeguato riscontro istituzionale agli immigrati che vivono e lavorano qui. Così facendo, la città si apre e gli stranieri si responsabilizzano, con una crescita complessiva in termini sia di serenità sia di sicurezza.

Una volta approvato il regolamento, il passo successivo è far partire la campagna di iscrizione al voto. Il risultato, calcolando che è la prima volta che si sperimenta una cosa del genere, è molto buono: le richieste alla fine sono trentatremila, pari a oltre il 22 per cento del bacino potenziale. Può sembrare una partecipazione non travolgente, ma in realtà non è troppo distante da quella registrata in molti referendum italiani o alle ultime elezioni europee in Gran Bretagna e Olanda. Ed è anche significativo che quasi la metà delle iscrizioni, oltre quindicimila, siano di donne.

Il 28 marzo 2004 è il giorno del voto. I seggi sono trentasei, dislocati in tutta la città. Ovunque si vedono le stesse scene: persone col «santino» del candidato in mano, con i figli sulle spalle e un largo sorriso sul volto, felici di votare e di iniziare a contare. Io, insieme a Mariella Gramaglia, visito il seggio di via Petroselli e trovo una piccola folla festosa, tra candidati in giacca e cravatta compresi nel ruolo e donne con abiti tipici del loro Paese. Un ragazzone con lunghi capelli rasta mi viene incontro per stringermi la mano, scusandosi per i calli da suonatore di djembe, il tamburo a forma di calice originario dell’Africa occidentale. Un altro, un ragazzo del Camerun, mi propone di considerare per la prossima volta la possibilità di fare delle primarie per i rappresentanti di ciascun continente, così da selezionare in modo più efficace i candidati. «Oggi nasce una speranza» mi dice una giovane eritrea, «Roma ci sta dicendo che possiamo essere cittadini anche noi.» È davvero una bella prova di democrazia, è una gran giornata. E speriamo ce ne possa essere presto un’altra in tutta Italia, con il voto per gli immigrati alle elezioni amministrative.

A ogni modo la nostra strada è tracciata. Nel giugno del 2005 inauguriamo anche, in via Assisi, il primo Centro cittadino per le migrazioni, l’asilo e l’integrazione sociale, che potrà ospitare fino a centocinquanta richiedenti asilo, offrendo loro la possibilità di frequentare corsi di formazione e orientamento al lavoro. Al tempo stesso, pochi mesi dopo, nel marzo del 2006, senza che avvenga il minimo incidente sgomberiamo le prime palazzine del residence Roma, in via di Bravetta, sistemando altrove le centoventiquattro famiglie che hanno diritto all’assistenza alloggiativa e predisponendo la riqualificazione del complesso, che era occupato da qualche tempo da gruppi di immigrati, prevalentemente di origine senegalese, ed era diventato un luogo degradato e insicuro. La stessa cosa abbiamo fatto un paio di anni prima, nell’agosto del 2004, con il cosiddetto «Hotel Africa», un capannone fatiscente di seimila metri quadri nei pressi della stazione Tiburtina che ospitava circa seicento persone provenienti da diversi Paesi africani. Anche in questo caso abbiamo individuato in anticipo alloggi e centri di accoglienza, e così abbiamo risolto nella calma più assoluta e in sicurezza una situazione che poteva essere potenzialmente esplosiva. Ci siamo riusciti mettendo in pratica uno dei principi che danno vita a quello che comincia a essere definito il «modello romano». È il principio della concertazione: le decisioni vanno prese, anche quelle difficili, anche quelle dolorose, ma in un dialogo continuo con le ragioni di tutti. Nulla va imposto se non si è convinto o, almeno, non si è dato il massimo nel confronto tra le idee e gli interessi. Soltanto così le soluzioni sono vere e alla lunga funzionano. Il dialogo con i rappresentanti dei rifugiati e con le associazioni che hanno partecipato a questa esperienza è stato lungo e talvolta complicato, alla fine però la sintesi l’abbiamo trovata. Siamo stati disposti ad ascoltare fino al giorno prima, quando un gruppo di sudanesi ha manifestato perplessità sulla soluzione prospettata per loro e ne abbiamo individuata un’altra. Nessuno ha lasciato la sua vecchia sistemazione senza essere convinto di trovarne una migliore. E noi abbiamo liberato l’area, così come era necessario fare.

Roma è una città che accoglie e che allo stesso modo è severa nel chiedere il rispetto delle regole. Diritti e doveri insieme, come per tutti i cittadini. Integrazione, partecipazione, responsabilità e sicurezza. Questa è la via da seguire.