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Una firma storica

29 ottobre 2004

Una gigantesca gru con un braccio lungo più di ottanta metri sulla piazza del Campidoglio, tra il Marco Aurelio e Palazzo Senatorio, occupata a tirare giù dalla cima della torre campanaria una pesante statua di quasi tre metri, è destinata ad attirare l’attenzione, anche se è una calda mattina dell’ultimo giorno di agosto. E infatti non ci vuole molto perché si formi una piccola folla di turisti e curiosi, desiderosi di capire cosa succede. I vigili che sono lì per controllare le operazioni rispondono pazientemente alle loro domande e spiegano che la statua deve essere spostata ai Musei Capitolini per essere restaurata. Si potrebbe anche aggiungere che, a giudicare dal peplo in cui è avvolta, risale molto probabilmente alla seconda metà del IV secolo avanti Cristo, che fu ritrovata nel corso di uno scavo del 1875 nel quartiere Esquilino e che originariamente rappresentava Minerva, ma le persone che la osservano mentre viene portata a terra forse non chiedono tanto. Chiedono, semmai, il perché di tutti quei lavori, considerando che, se si guardano attorno, tra la pavimentazione delle strade, le facciate dei diversi edifici e i giardini, è tutto il colle che da qualche settimana sta assumendo una luce nuova, ancora più bella del solito. «Ma come, non lo sa?» dice un vigile a una signora venuta a Roma con il marito per festeggiare le nozze d’oro. «A fine ottobre arrivano qui i presidenti di tutta Europa a firmare la nuova Costituzione, e il Campidoglio si sta tirando a lucido.»

Già, è quello che sta succedendo. Pochi mesi fa il Consiglio europeo ha raggiunto l’accordo sul testo del nuovo Trattato costituzionale che dovrà garantire all’Unione la prosecuzione del cammino di integrazione. Io il 20 giugno ho scritto al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, sottolineando che se la firma, come pare, avverrà davvero in Italia e a Roma, la sede più giusta e «naturale» non può che essere il Campidoglio, non può che essere la stessa Sala degli Orazi e Curiazi dove tutto iniziò, il 25 marzo 1957, con la storica sigla dei Trattati istitutivi della Comunità europea. La risposta di Berlusconi è arrivata dopo otto giorni, per ringraziare della disponibilità e per accettarla. La decisione di Bruxelles si è fatta attendere un po’ di più, ma il 9 luglio abbiamo finalmente saputo che sì, il 29 ottobre Roma sarà di nuovo il centro, il cuore pulsante, del disegno europeo.

La corsa contro il tempo è partita in quel momento. L’immagine che la Capitale offrirà ai capi di Stato e di governo che la raggiungeranno da tutt’Europa sarà quella dell’Italia, motivo per cui non possono esistere differenze di colore politico e la collaborazione deve essere totale. Cosa, questa, che peraltro viene resa ancora una volta più facile dall’azione di Gianni Letta, con il quale ci mettiamo al lavoro per fare ciò che diceva il vigile: tirare a lucido il Campidoglio, renderlo una splendida cornice per un evento così importante e permettere, in uno stretto e corretto rapporto con la Protezione civile capeggiata da Guido Bertolaso, che l’organizzazione e la sicurezza siano garantite ai massimi livelli e senza la minima sbavatura.

Il pomeriggio del 26 ottobre, quando ormai ci siamo, perché mancano solo tre giorni, Berlusconi viene a fare un sopralluogo finale. Chissà se preferisce che effettivamente tutto sia a posto oppure se non gli dispiacerebbe trovare qualcosa che non va per poter fare delle critiche, per muovere qualche appunto. Propendo per la prima ipotesi, perché comunque, dicevamo, è l’immagine del nostro Paese a essere in gioco. E a ogni modo, anche se così non fosse, non gli forniamo alcun argomento, perché tutto è perfetto. Lo aspetto all’ingresso dei Musei Capitolini e in pratica facciamo a ritroso il percorso che faranno gli ospiti. Cominciamo dalla Sala degli Orazi e Curiazi, maestosa, dove sono tornate a risplendere le due statue monumentali di papa Urbano VIII Barberini, opera del Bernini, e di papa Innocenzo X Pamphilj, di Alessandro Algardi. Passiamo dalla Protomoteca per arrivare nell’Aula Giulio Cesare, dove si terranno i discorsi ufficiali prima della firma, e quindi nella Sala delle Bandiere, dove riceverò le delegazioni dopo che Berlusconi le avrà accolte sulla piazza. Ultima tappa il mio studio, dove condurrò presidenti e premier per un momento meno formale e dove anche con il presidente del Consiglio possiamo almeno per un attimo abbassare la guardia e alleggerire i toni. Quando si siede alla mia scrivania per vedere che effetto fa essere sindaco di Roma gli chiedo scherzando se mi vuole rubare il posto, e un po’ meno per scherzo gli dico che, per far funzionare come si deve la Capitale, il governo dovrebbe impegnarsi a metterci un po’ più di soldi. «Non li avrai» mi risponde lui, «altrimenti questo posto già incantevole diventa unico al mondo.»

L’importante, adesso, è che tutto sia pronto per il 29, e così è. La mattina tanto attesa, infatti, tutto va come deve andare. Piove, questo sì. Ma d’altra parte pioveva anche quel giorno del 1957, può essere un buon auspicio. Per il resto ci sono delle differenze, ovvio. Intanto in piazza, dove allora c’era una folla festante a salutare la firma accompagnata dai rintocchi della Patarina, la campana del Campidoglio, ora non c’è nessuno, per motivi di sicurezza una volta nemmeno lontanamente immaginabili. E poi, se prima le bandiere esposte erano sei, quelle dei Paesi fondatori, ora sono diventate venticinque, il numero degli Stati membri dell’Unione Europea.

Tutti i leader rimangono colpiti dalla bellezza del luogo che li ospita e, in particolare, quando li invito a turno ad affacciarsi dal balconcino della mia stanza che dà sui Fori Imperiali, davvero cade ogni tipo di formalismo, con buona pace del responsabile del cerimoniale Sebastiano La Spina Della Cimarra, che come sempre ha curato tutto nei minimi dettagli: da Schröder a Zapatero, da Blair a Barroso, è tutto un susseguirsi di sorrisi e di esclamazioni, di «meraviglioso» e «spettacolare». Chirac mi prende sottobraccio e mi dice che «Roma è una città impeccabile».

E in effetti sì, lo è, lo siamo. Abbiamo fatto attenzione a ogni particolare. Addirittura, quando al termine della cerimonia, che si conclude con la nuova storica firma della Costituzione europea, tutti scendono per una foto di gruppo nel cortile dei Musei Capitolini, davanti alla statua «Roma Cesi», definita sempre come una «Roma sedente fra i barbari» perché ai suoi lati ci sono le statue di due re barbari prigionieri, preferiamo glissare sulla seconda parte della definizione, presentandola solo come «sedente», per non rischiare minimamente di urtare la sensibilità dei nostri ospiti.

A proposito di Musei Capitolini: quando tutto è terminato decidiamo di aprirli gratuitamente per qualche giorno, fino al 9 novembre, così da consentire a chiunque ne abbia voglia di visitare il luogo dove si è appena vissuto un momento tanto importante. È un piccolo ringraziamento nei confronti dei cittadini romani e in particolare degli abitanti della zona, che ancora una volta hanno sopportato con grande pazienza gli inevitabili disagi che si sono venuti a creare. Ma in fondo è anche un modo per ribadire che il sogno dei padri fondatori potrà rimanere vivo solo se le istituzioni europee non si chiuderanno in se stesse fino ad apparire un’entità burocratica, attente esclusivamente alle grandi questioni economiche e finanziarie, lontane dalla vita quotidiana delle persone e dai loro problemi.

Uno di quei padri fondatori, il nostro Alcide De Gasperi, sapeva che l’Europa unita, al di là della sua architettura istituzionale, avrebbe avuto bisogno di mantenere innanzitutto «un’anima». «La costruzione degli strumenti e dei mezzi tecnici, le soluzioni amministrative» scriveva De Gasperi «sono senza dubbio necessarie. Queste costruzioni formano l’armatura: rappresentano ciò che lo scheletro rappresenta per il corpo umano.» Ma, aggiungeva, si sarebbe corso il rischio di una loro decomposizione, se non vi fosse penetrato un «soffio vitale».

Di questo, davvero, c’è bisogno: di un’Europa ricca delle sue diversità culturali e forte della sua unità politica. Ne hanno bisogno le nostre comunità, perché in un’Europa debole e divisa nessuno Stato nazionale, grande o piccolo che sia, può riuscire ad assicurare ai suoi cittadini sicurezza e prosperità. La nuova Europa avrà un’anima se saprà rispondere a tutte quelle domande poste in forme e lingue differenti ma figlie delle stesse sensazioni, delle stesse ansie: quali tutele ci accompagneranno in un mercato del lavoro che continuerà a darci più opportunità ma certo anche più precarietà; quali misure di sicurezza ci renderanno meno esposti alla minaccia del terrorismo internazionale se viviamo in una grande città; quali regole faranno sì che l’immigrazione sia una risorsa economica e culturale e non qualcosa da guardare con timore; quali controlli faranno sì che nelle mense scolastiche dei nostri figli arrivino cibi non nocivi; quali decisioni ci permetteranno di non vergognarci perché avremo lasciato a chi verrà dopo di noi un ambiente sempre più deteriorato, un clima sempre più stravolto, una qualità della vita più scadente, un futuro più incerto.

Quel «soffio vitale» di cui parlava De Gasperi prenderà a spirare, ad attraversare il nostro continente, a rassicurare e a unire i cittadini, se la costruzione europea saprà fare quel che è indispensabile a ogni impresa umana, e cioè essere «popolare», coinvolgere e convincere le persone, per primi i giovani.