La cosa da decidere, quando vi mettete a scrivere un pezzo di musica classica, è la sua velocità. Non è un caso che il primo segno al quale andranno incontro gli occhi dei vostri interpreti sarà un’espressione, in italiano, che serve a indicarla: le parole Largo, Adagio, Andante, Moderato, Allegro, Presto e così via, che da secoli compaiono in alto a sinistra sulle partitura, hanno questo scopo. Perché la velocità stabilirà il carattere del brano, il modo nel quale entrerà in contatto con le orecchie e con il cuore, per certi versi il suo senso. E peraltro, una volta deciso se il vostro pezzo sarà lento o veloce, saprete come sfruttare al meglio gli strumenti per i quali state componendo: per capirci, è inutile scrivere dozzine di note brevissime che risultano poi impossibili da suonare in un tempo veloce; ed è altrettanto vano scrivere note lunghissime, se il tempo è molto lento, visto che a un certo punto un flauto o una tromba dovranno comunque prendere fiato, il suono di un pianoforte andrà a estinguersi, un violino o un violoncello saranno obbligati a cambiare la direzione dell’arco, spezzando la nota, così che ciò che avevate previsto si rivelerà tecnicamente infattibile.
Sappiate però che la velocità del vostro brano cambierà, da esecuzione a esecuzione, da sala a sala, da interprete a interprete. E voi stessi, durante i mesi che impiegherete per comporre – raramente si cava qualcosa di buono in poche settimane – avrete opinioni diverse. Probabilmente partirete con le idee molto chiare, cercherete sul metronomo il valore numerico perfetto, il suo toc toc sarà del tutto uguale alla pulsazione che desiderate per la partitura. Ma poi, a tradimento, una mattina vi ritroverete a pensare che il brano vada suonato più in fretta; e certe sere lo sentirete invece terribilmente ansiogeno, tanto da chiedervi come mai abbiate fissato un metronomo così rapido.
Non spaventatevi: fa parte del gioco. Quella della velocità è la variazione più frequente nella musica, sin dalla costruzione della partitura; e, quando poi il pezzo sarà finito e comincerà a circolare, la sua impercettibile variazione, per tutto il brano o per alcune sezioni, sarà un elemento importante nel rendere ogni interpretazione potenzialmente unica.
Stabilita la velocità, con il suo meraviglioso ambito di sfumature – quello della musica classica è un linguaggio raffinato e complesso, non dimenticatelo – considerate che la musica attraversa il cervello, certo, e gli regala idee, suggestioni, pensieri; ma si trasmette anche al resto del corpo. Tanto da generare reazioni fisiche nei nostri arti che la buona educazione ci impedisce di esplicitare in sala da concerto ma che, davanti a un’orchestra, se fossimo soli, o molto disinibiti, probabilmente lasceremmo scatenare.
Certo, non è solo la velocità a ordinarci come reagire. Il ritmo, come leggerete tra un paio di pagine, gioca la sua parte. Ma intanto, scegliendo quanto premere sul vostro acceleratore, sappiate che potete ottenere effetti molto diversi.
Viaggiando a velocità elevata potete ad esempio indurre il corpo a correre. Magari in modo scatenato come fa John Adams (*1947) nel finale della sua Chamber Symphony, intitolato Roadrunner: è il nome dell’uccello dei cartoni animati Warner che in Italia chiamiamo Beep Beep, perennemente in fuga davanti al coyote che lo insegue. Adams ha raccontato che stava studiando la serissima Kammersymphonie op. 9 di Schönberg mentre, nella stanza accanto, suo figlio guardava la tv; e nella sua testa tutto si è mescolato, suggerendogli l’idea di questa pagina vorticosa, molto virtuosistica per gli interpreti, che è difficile ascoltare senza aver voglia di muoversi.
Oppure, al contrario, potete comporre un pezzo che dica al nostro corpo di rallentare, di calmarsi. L’Ave Verum Corpus di Mozart, nonostante la bellezza conturbante della sua melodia, la tensione delle armonie, l’empatia richiamata dalle voci del coro, ha una lentezza tale che il tutto arriva alle orecchie, e al cuore, quasi al rallentatore, e l’emozione ci raggiunge con il contagocce. Quella stessa musica, più rapida, sarebbe davvero altra cosa. Cambierebbe di significato.
La prima lezione, dunque, è: prendetevi il tempo per farlo, ma ragionate con cura sulla velocità del vostro brano. Ne vale la pena.
Avete fatto i vostri esperimenti con la velocità, giocando con l’acceleratore e spingendo gli ascoltatori a correre o a rallentare. Ora è il momento di andare più a fondo e imparare a gestire il ritmo della vostra partitura, il suo cuore, il suo pulsare.
Perché la musica organizza il tempo, dividendolo in parti, come fa un orologio – su questo non ci sono dubbi. Ma è il modo nel quale lo divide, lo separa in pezzetti, a fare la differenza. Un orologio scandisce minuti e secondi in parti uguali; la musica no. Meglio: presuppone che sotto scorra un tempo costante, e però con questa costanza gioca, e talora la asseconda, talaltra la inganna. Per voi costruire un ritmo significherà scegliere una collocazione nel tempo e una durata per ogni nota, per ogni pausa che scriverete sul pentagramma – arriveranno all’inizio della battuta, o a metà, o poco prima, o poco più in là, e saranno lunghe un trentaduesimo, un ottavo, un quarto, un mezzo e così via; per le orecchie lo specifico ritmo che andrete a costruire si rivelerà il motore, la spinta, la scossa con la quale ogni istante di musica giungerà a destinazione.
Prendete ad esempio il Preludio n. 1 dal Primo Libro del Clavicembalo ben temperato di Bach. È una pagina incredibilmente regolare, come un metronomo. Potrebbe quasi fare toc toc, tanto il ritmo, la scansione delle note, sono squadrati, perfetti, imperturbabili. Eppure, badate, è musica molto lontana dall’assomigliare a un orologio. Perché mentre scorre il ritmo piccolo, rapido, delle singole note, tara tara tara tara, Bach gioca con l’armonia, con gli accordi, che una volta per battuta aprono e chiudono, si complicano e si semplificano, domandano e rispondono. Lo fanno con un loro ritmo ulteriore, più lento, perché si tratta di armonie che rimangono ferme per molte note, e questa stratificazione, questa sovrapposizione di un ritmo lento sopra uno veloce, nella sua semplicità risulta efficacissima, e meravigliosa.
Se da Bach potete imparare come fare mosse elementari, e dare vita a pagine eccitanti con pochi gesti, da György Ligeti (1923-2006) vi deve arrivare la lezione opposta: far muovere sedici voci, ognuna per conto proprio, in modo accuratamente irregolare, e generare, a sorpresa, una sensazione di staticità. È ciò che accade in Lux Aeterna, del 1966, un brano non a caso utilizzato da Kubrick per la colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio: agitando la materia musicale, con le voci come particelle impazzite che si muovono in modo autonomo (un effetto che si ottiene con un fine lavoro di cesello, non illudetevi), si produce la sensazione di un tempo immobile, ghiacciato. C’è così tanto movimento che la musica ne risulta paralizzata. E, attenzione: non pensate di annoiarvi. Si tratta di un capolavoro, perché con queste fasce ghiacciate Ligeti compone aggiungendo e sottraendo, creando strisce di suono cangianti, incredibilmente suggestive. Ma per farlo – ecco l’insegnamento – organizza la scansione ritmica del brano in modo certosino, impeccabile, oltre che del tutto nuovo per l’epoca (la sua fonte di ispirazione, per la cronaca, furono le complesse poliritmie dell’Africa centrale). E apre per la musica occidentale prospettive inedite: la lezione è entrata nell’immaginario collettivo al punto che oggi persino le librerie commerciali di suoni campionati offrono effetti «alla Ligeti».
Non è detto che dobbiate seguire uno stesso schema ritmico per tutto il brano, naturalmente. Anzi: avere idee eterogenee, contrastanti, può rivelarsi una ricchezza, se riuscite a gestire il tutto. Beethoven, ad esempio, in questo era un campione. Prendete il Largo-Allegro con il quale comincia la Sonata n. 17, op. 31 n. 2 «La tempesta». Già nell’indicazione iniziale sono in ballo due motori, uno lento, il Largo, e uno veloce, l’Allegro. E infatti qui non si alternano solo ritmi diversi – cioè scansioni differenti del tempo – ma anche diverse velocità, per un risultato molto teatrale, pieno di vita. Ciò che è interessante imparare, però, è che nel gioco minuto, dettagliato, di ogni sezione, il ritmo è invece assolutamente regolare, costante. La parte iniziale, lenta, è costruita con arpeggi bene ordinati, semplici, da manuale, che sgranano le note poco alla volta con assoluta precisione. E anche la parte veloce, quasi aggressiva, sebbene abbia un’armonia ricca, capace di spingere in avanti, poggia su un ritmo del tutto regolare, metodico, come quello di un metronomo. Ciò che dà vita alla pagina, dunque, è la giustapposizione, l’alternanza di parti, ognuna con una propria regolarità che è in contrasto con l’altra. Attenzione: non si tratta di uno zapping fra idee diverse. Il tutto si offre alle orecchie in perfetto equilibrio, e i due temi si cercano l’un l’altro come valve di una strana conchiglia. Ma c’è vita, scontro, c’è elettricità.
D’altronde Beethoven amava i contrasti, e gli piaceva lasciare sulla pagina materia in qualche modo incandescente, con la quale gli interpreti e il pubblico avrebbero dovuto fare i conti, anche in termini emotivi. Mentre Mozart, per fare entrare in sala professori un altro collega al quale dovete guardare con attenzione, era il re dell’incastro perfetto, dell’ottimizzazione, dell’ingranaggio capace di riunire elementi eterogenei. Se vi serve un esempio, un layout sul quale ricalcare un brano che proceda come un venticello leggero, costante, lieve ma sempre presente, tanto da cambiare l’aspetto di tutto ciò che sfiora, ascoltate il terzettino «Soave sia il vento» dall’opera Così fan tutte. Ci sono personaggi diversi, frasi che si ripetono con lo stesso ritmo e altre che lo variano, piccoli vocalizzi che fungono da decorazioni della melodia, successioni di armonie che potrebbero fare alzare il sopracciglio. Ma l’accompagnamento degli archi, che si ascolta per alcuni istanti anche prima dell’ingresso delle voci – quella di presentarsi per primo, come noto, è una tecnica per mostrare chi comanda – è ritmicamente così regolare, e pervasivo nel suggerire l’andamento del tutto, che anche quando altre scansioni, altri ritmi si impadroniscono della pagina, quella che continua a prevalere è una sensazione di rassicurante regolarità. Si può essere dolci e garbati come questi archi, insegna dunque Mozart, e nel contempo decidere, per tutti, come deve battere il cuore. Una lezione non da poco.
Certo, può accadervi di scrivere un pezzo per flauto solo. O per oboe. O per trombone. Per strumenti, cioè, che possono emettere soltanto un suono alla volta (se si tralasciano alcune tecniche, sviluppate dalle passate avanguardie, che forzano la loro natura). In quel caso dovete essere bravi, molto bravi, e inventare qualcosa che stia in piedi da solo, godendo tuttavia del vantaggio di concentrarvi su una sola linea musicale.
La maggior parte delle volte, però, sarete chiamati a comporre per strumenti che producono molte note insieme (un pianoforte, un organo, un’arpa, una marimba) o per più strumenti (un quartetto d’archi, un ensemble di ottoni, un’orchestra). E allora si porrà il problema di che cosa fare con le molte linee da gestire in contemporanea – la musica, tra le sue meraviglie, ha quella di consentire di parlare in tanti, contemporaneamente, dicendo cose diverse senza che si generi il caos.
Le soluzioni sono due.
La prima consiste nello stabilire una gerarchia, privilegiando una linea (di solito si tratta di quella più evidente, cantabile) e sviluppando le altre per sostenerla. È la situazione di «melodia e accompagnamento», la stessa della stragrande maggioranza della musica pop, quella in cui qualcuno svetta e gli altri si accodano.
La seconda invece vede procedere più linee parallele, senza generali né soldati ma, al contrario, con un’attenzione al disegno di insieme la cui bellezza risulta evidente solo se ogni voce (lo si dice anche degli strumenti) dà il suo contributo. È ciò che avviene in situazioni dove prevale il contrappunto, il gioco di collocare sul pentagramma punctus contra punctum, nota contro nota, una sorta di raffinato sudoku nel quale l’incastro dei tasselli è particolarmente elaborato.
Se ciò che vi serve è una situazione di «melodia e accompagnamento», la soluzione è semplice: applicate il paradigma in uso quando si canta sulla spiaggia insieme a una chitarra. Assegnate dunque una melodia a uno strumento, e per gli altri scrivete una formula di accompagnamento, inventandone una o scegliendo tra le molte ormai consuete, dallo zum-pa-pa di una banda al basso albertino di un pianoforte.
Alla lunga, però, uno schema del genere può stancare. E allora la prima cosa da valutare è se non sia possibile, ad esempio, alternare i ruoli. Quando ascoltate l’inizio della Sonata per violino e pianoforte n. 5, op. 24 «La primavera» di Beethoven, trovate una matrice perfetta da prendere come riferimento: prima la melodia è al violino, mentre il pianoforte accompagna; poi la melodia passa al pianoforte, e il violino esegue un accompagnamento; e poi, a un certo punto, le frasi della melodia si spezzano in due parti: la prima è proposta dal violino, la seconda dal pianoforte, in un meraviglioso passarsi la palla che, senza far mai venir meno il principio generale di «melodia e accompagnamento», permette al gioco di essere più interessante.
Se dovete immaginare qualcosa di analogo scrivendo, però, per un’orchestra, trovate un meraviglioso punto di riferimento nel Vivace non troppo, secondo movimento della Sinfonia n. 3 «Scozzese» di Mendelssohn. All’inizio del brano la melodia è al clarinetto, mentre gli archi accompagnano; poi il tema passa a flauti e oboi all’unisono, mentre il clarinetto si unisce agli archi nel sostegno; e poi ancora la melodia arriva ai violini, mentre anche i flauti e gli oboi scivolano nel meccanismo dell’accompagnamento. Sarà così per tutto il movimento, anche nelle sue parti più intricate, anche nel breve momento contrappuntistico: qualcuno, a turno, avrà sempre un ruolo di primo piano, e gli altri saranno sotto (o sopra), ad accompagnare.
Non è detto, tuttavia, che la melodia sia sempre la linea con il profilo più riconoscibile. Potete anche scrivere una non melodia molto semplice, fatta di poche note ripetute, sempre uguali, e immergerla in un mare di accompagnamento mobilissimo e pieno di fascino. Lo fa il compositore portoghese Luis Tinoco (*1969), che ha composto una partitura per soprano ed ensemble intitolata Três poèmes do l’Oriente. Lì, nel primo brano, nessuno potrebbe mettere in dubbio che il tema portante è quello della voce; ma, se lo si ascolta con attenzione, ci si accorge che la sua forza viene dall’energia che le altre linee le fanno rimbalzare addosso, visto che, in sé, ciò che fa il soprano ricorda più la declamazione piatta di un testo che una tornita melodia da mandare a memoria e canticchiare sotto la doccia, come normalmente accade.
Scrivere musica che sviluppi un buon contrappunto è invece un po’ più complesso. In genere bisogna rinunciare al dispiegarsi di una bella melodia, perché il gioco consisterà piuttosto nell’incastrarsi di frammenti, mezze frasi, cellule. Componendo, difficilmente potrete scrivere una linea per battute e battute senza inventare, nello stesso tempo, ciò che le si sviluppa intorno e che spesso vi costringerà a modificarla, in un continuo intrecciarsi e influenzarsi a vicenda. Posto che la sfida è ardua, tanto vale scegliere il modello più alto e ascoltare L’arte della fuga di Bach, una partitura astratta, senza alcuna destinazione strumentale chiara, dove quattro voci si incastrano seguendo non solo il principio della bellezza – che qui è assoluta – ma anche articolate «regole di comportamento» secondo le quali le note e le pause di una linea determinano quelle di un’altra.
Considerate comunque che, anche in una struttura di «melodia e accompagnamento», così come in qualsiasi architettura musicale, la vostra abilità nel decidere che cosa fa ogni strumento mentre accade tutto il resto sarà determinante. E quella è una forma di contrappunto. Se imitare Bach vi farà sudare sette camicie, sappiate dunque che ciò che rimarrà, l’abilità che svilupperete, vi tornerà utile sempre, qualunque partitura deciderete di comporre.
Il pop, il rock, la musica d’ambiente (il Cielo perdoni l’inventore dell’espressione…) hanno molte carte da giocare, in ogni partita. Ma non quella della dinamica. Nel senso che il volume di una canzone è normalmente costante dall’inizio alla fine. E qualunque lettore MP3 offre persino la funzione di livellare la potenza sonora di tutti i brani che si ascoltano, così da ricondurre all’ordine i guizzi rivoluzionari. Il risonante mondo che ci circonda, insomma, è fatto di musica sempre forte, o abbastanza forte – per la musica d’ambiente, sempre piano.
Nella musica classica, invece, sono di casa continue alternanze tra forte e piano, e tra le loro numerose sfumature: fortissimo, mezzoforte, mezzopiano, pianissimo, ma anche fortissimo con tre effe, come lo si chiama tra musicisti, o pianissimissimo, e così via. Per voi si traducono in un arnese prezioso, da usare con attenzione, perché, come è ovvio, possono mutare il senso di una frase, di un periodo, di un intero brano. E dunque è importante capire come muoversi.
Ora, per mania di precisione: se ne può fare a meno. Non tutta la musica classica alterna dinamiche diverse. In alcuni periodi storici, o con alcuni strumenti, la cosa era addirittura esclusa dall’orizzonte delle possibilità. Ascoltate una qualunque delle meravigliose Pièces de clavecin di Rameau, scritte nei primi anni del Settecento, e vi troverete di fronte a pezzi nei quali il fatto che il clavicembalo sia tecnicamente impossibilitato a suonare ora forte ora piano – per quello nascerà poi il fortepiano, antenato del pianoforte – non è certo un limite alla creatività o alla bellezza. Ma oggi, in generale, rinunciare all’ingrediente della dinamica sarebbe un peccato.
D’altronde decidere che qualcosa va suonato più forte o più piano di qualcos’altro non è così difficile. Anche parlando alziamo e abbassiamo la voce, a seconda delle situazioni. Ciò che dobbiamo imparare a fare quando componiamo, però, è curare le transizioni. Il modo nel quale si passa da un piano a un forte, ad esempio. Perché la cosa può essere improvvisa, certo; ma anche avvenire con gradualità, e misurando con precisione le forze, istante dopo istante.
Ascoltate ciò che fa Ravel nel Bolero. Il pezzo è un unico, lunghissimo crescendo, da pianissimo a fortissimo; ma nessuno strumento, nessun musicista sarebbe capace di graduare per ben sedici minuti un processo di questo tipo, che in genere occupa solo alcuni secondi. Per questo Ravel compone un crescendo, incominciando il brano con pochi strumenti e poi aggiungendone a poco a poco sempre di più. I due celebri temi, che si ripetono molte volte, rimangono tali, costanti; e però Ravel li orchestra in modo sempre diverso, aumentando il peso sonoro del tutto, così che la tensione dinamica, la sensazione di partecipare alla costruzione di qualcosa di grandioso, risulta potentissima.
Per avere una controprova, e imparare che un’orchestra potrebbe suonare in modo opposto, mantenendo una dinamica assolutamente costante per tutto il brano, ascoltate invece Farben (Colori), dai Cinque pezzi per orchestra di Schönberg: qui la tensione dell’ascolto è volta a percepire gli impasti costantemente cangianti di un solo accordo di cinque note, orchestrato in modo instabile, mobilissimo, come mescolando senza sosta colori diversi su una tavolozza da pittore. Non ci sono strumenti che si fanno identificare con chiarezza, come capitava nel Bolero: ci sono aggregati di timbri, miscele che, nel pianissimo generale, si presentano come oggetti sonori suggestivi. Schönberg fa viaggiare l’orchestra con il freno a mano della dinamica costantemente tirato, insomma; ma sa ricavarne un capolavoro.
Un procedimento opposto a quello del Bolero, la costruzione, cioè, di un lungo diminuendo, ha un suo analogo fascino, per quanto malinconico. Ne potete fare esperienza con l’Adagio finale della Sinfonia n. 45, nota anche come «Sinfonia degli addii» di Haydn, dove la dinamica diminuisce perché a poco a poco i membri dell’orchestra smettono di suonare, si alzano e, fisicamente, se ne vanno. Per Haydn era stato il modo, raffinato, di segnalare al suo datore di lavoro, il principe Esterházy, che la villeggiatura in campagna, in quell’estate del 1772, si stava prolungando troppo, e i musicisti avevano voglia di tornare a casa, dalle loro famiglie. Rifarlo in modo identico, nella vostra musica, oggi suonerebbe come un plagio, per di più banale; ma tenete presente il metodo, perché non si sa mai.
Alternare crescendo e diminuendo, infine, significa dare vita a onde di suono, che salgono e scendono. È una tecnica terribilmente efficace per far vibrare la pancia e il cuore dei musicisti e del pubblico, non a caso usata da qualunque buon oratore. Beethoven, per dire, ne era un maestro: buttate un orecchio al primo movimento della Quinta sinfonia, in qualunque punto, e capirete di che cosa sto parlando. Ma non crediate che la procedura sia stata oggi abbandonata, o che riguardi solo la scrittura orchestrale. Provate ad ascoltare I’m a pilgrim da Four American Choruses di Julian Anderson (*1967), un pezzo per coro a cappella, fresco di inchiostro: cominciano le voci femminili, poi si aggiungono anche quelle maschili, e si prosegue tutti insieme crescendo e diminuendo, gonfiando e sgonfiando il suono, più e più volte. Fate attenzione alla tensione che si crea, a come la partitura ci tenga per il collo, a come sia impossibile distrarsi, e capirete la potenza di tale tecnica.
Gli elementi, singolarmente, sono importanti, certo. Ma è il modo in cui li assemblate a fare la differenza – si tratti degli abiti che indossate, dei mobili nella vostra camera da letto, delle portate per la cena di stasera. Nella musica, non solo in quella classica, quando due suoni arrivano alle orecchie insieme, quando si sovrappongono, scatta il gioco dell’armonia. E si aprono orizzonti di strepitoso fascino.
La potenza offerta dal controllo delle possibilità armoniche, la gestione degli accordi insomma, è tale che, fra tutti i ferri del mestiere, questo è il più studiato, codificato, fatto oggetto di scontri ideologici. Niente di comparabile ha riguardato il ritmo, la dinamica, il profilo melodico, la struttura formale. Se c’era da discutere, si discuteva di armonia. E lo si fa ancora.
Per farla breve, nel corso della storia c’è stata un’epoca in cui si scriveva musica con armonia detta modale. È durata grosso modo sino al Cinquecento e, volendo capire come si debba procedere per comporre in quel modo, potete ascoltare la strepitosa Messe de Nostre Dame di Guillaume de Machaut (1300-1377): il sapore arcaico, sospeso, è legato al fatto che non erano ancora in uso le scale che utilizziamo oggi, sempre tese verso un traguardo, come frecce che puntano a un bersaglio. Le armonie, gli incontri tra suoni che nascono in un sistema modale suonano aperti, possibilisti, e per questo arcani, misteriosi.
Poi, dal Seicento – quando la si è codificata con precisione – sino all’inizio del Novecento si è scritta musica che seguiva le regole dell’armonia tonale. La quasi totalità della musica del cosiddetto grande repertorio è composta utilizzando quella grammatica. Quella più antica, come il Vespro della Beata Vergine, composto da Monteverdi nel 1610, per dirne una, usa armonie più semplici, con meno note. Quella più recente, come i Quattro ultimi Lieder scritti da Strauss tra il 1946 e il 1948, utilizza accordi e trasformazioni armoniche di lussureggiante complessità. Ma per trecento anni il sistema usato, la regola di base della sovrapposizione tra i suoni, è stato quello tonale.
All’inizio del Novecento, le (ormai vecchie) avanguardie musicali hanno proposto sistemi diversi di organizzazione armonica: la dodecafonia, la politonalità, l’armonia polarizzata e altre ancora. Per decenni poi, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, ogni compositore ha seguito una tecnica armonica personale, mentre, per inciso, gli interpreti e il pubblico, sconfortati, si allontanavano sempre di più dalla musica del presente, rifugiandosi nella frequentazione sostanzialmente esclusiva di quella del passato.
Oggi, mentre vi accingete a scrivere il vostro prossimo pezzo, sappiate che ci sono centinaia di colleghi che, in tutto il mondo, hanno superato l’impostazione radicale delle vecchie avanguardie ed elaborato nuove procedure armoniche, sostanzialmente derivate dall’armonia tonale (che non ha mai smesso di essere utilizzata nella musica non classica) o da quella modale (che è allegramente transitata nel jazz, dove la si usa abitualmente). Non è cosa da poco: la scelta di proseguire in modo creativo la tradizione pre-novecentesca, anziché quella di considerarla un nemico, fa sì che gli interpreti e il pubblico provino piacere nel frequentare musica nuova, la cerchino, la commissionino, la ascoltino. Come capirete, la questione ha il suo peso.
Sul come fare per raccogliere l’eredità modale o tonale senza scrivere musica che assomigli a quella del passato ci sono ormai molte teste al lavoro. E tante sono le soluzioni belle, efficaci, che cominciano a circolare.
Una, ad esempio, consiste nello sposarla con altre tradizioni culturali: ascoltate il Water concerto, per percussioni ad acqua e orchestra di Tan Dun (*1957), oppure Joie éternelle di Qigang Chen (*1951), e capirete quanto può essere fecondo riunire spunti, temi, procedimenti della antica musica cinese con la tradizione della musica tonale occidentale.
Un’altra soluzione prevede di ripartire da zero, riducendo al minimo le note in uso e reinventando il concetto stesso di armonia. Lo fa Arvo Pärt (*1935), in questo momento uno dei due compositori più eseguiti del mondo, seguendo un pensiero musicale ascetico, rigoroso, di apparente semplicità, e utilizzando una tecnica da lui definita tintinnabuli. Gli esiti sono pronipoti della musica modale ma si presentano freschi, nuovi, come potete ascoltare, ad esempio, nel suo Silouan’s Song e in decine di altri brani dal successo planetario.
Una possibilità ulteriore è quella elaborata da Alberto Colla (*1968), che ha creato un vero e proprio sistema armonico alternativo, codificandolo, per di più, in due ponderosi trattati. Muove dall’osservazione di fenomeni naturali e classifica gli accordi in modo del tutto innovativo, cercando armonie che suonano amiche, consonanti, note, ma che non sono direttamente frutto della grammatica tonale. Le sue diverse sinfonie sono la lezione pratica da seguire.
Gli esempi, le strade, le possibilità sono però moltissimi, data la complessità cruciale dell’armonia nella costruzione di una partitura. Ciò che è importante sapere è che il mondo non si è infilato in un vicolo cieco, come sembrava pochi decenni fa; e che anche nel presente continua a nascere musica capace di armonie meravigliose.
Potete considerare il brano che state componendo come una narrazione, con un inizio, uno svolgimento, un finale. Molta musica è scritta in questo modo e prende per mano l’ascoltatore badando di non abbandonarlo mai, cercando di catturare la sua attenzione battuta dopo battuta, quasi si fosse a teatro o al cinema.
Ma potete anche immaginare la vostra partitura come un prato pieno di fiori, sul quale camminare liberamente, andando a zonzo, regalandovi il piacere di distrarvi davanti a una margherita per poi farvi incuriosire da un papavero e così via. Molta altra musica è pensata così, e prevede che l’ascoltatore di tanto in tanto si abbandoni ai propri pensieri, si distragga, poi ritorni attento e poi magari lasci vagare la propria mente ancora e ancora, in un gioco continuo di andata e ritorno.
Oppure potete concepire il vostro pezzo cercando una delle infinite possibilità intermedie e provando a oscillare tra il piacere di seguire il discorso musicale istante per istante e quello di galleggiare – qualcuno potrebbe dire sprofondare – grazie alla musica. Le strategie per riempire un foglio pentagrammato sono molte, e tutte degne di attenzione.
Quello che dovete tenere presente, però, è che la partita si gioca sulla capacità di orientare l’ascolto. E su quella, simmetrica, di disorientarlo. Perché, senza segni sulla mappa, l’ascoltatore alla lunga si perde, e si annoia. Ma, con troppi punti di riferimento, il processo di composizione risulta ingabbiato, rigido, e il risultato musicale diventa scontato e prevedibile; così che ci si annoia di nuovo. Sino alla fine del Settecento si è puntato, per lo più, sull’orientarsi: una sonata di Scarlatti o una sinfonia di Beethoven funzionano così, permettendo all’ascoltatore di seguire agevolmente il discorso. Poi l’ha avuta vinta, in molti casi, il piacere di smarrirsi, e dall’Ottocento le cose si sono complicate. Oggi potete scrivere quello che desiderate, ma è bene sapere come fare per andare in una direzione oppure nell’altra.
Una perfetta lezione di orientamento la regala Stravinskij nella Danse sacrale del suo Sacre du printemps (e un po’ in tutto il balletto, a dire il vero). I ritmi, per l’epoca – il 1913 –, erano nuovissimi, sconvolgenti. Gli impasti orchestrali, i modi con i quali faceva suonare insieme gli strumenti, erano feroci, potenti. All’ascoltatore si chiedeva, insomma, di confrontarsi con qualcosa di totalmente inaudito. E allora Stravinskij, per permettergli di non diventare matto, sceglie armonie ferme, ripetute, primordiali, passando da una all’altra in modo molto più semplice rispetto a quanto si facesse all’inizio del Novecento. E inventa melodie fatte di brevi incisi, ripetuti più e più volte, facilmente memorizzabili, rinunciando alle lunghe frasi alle quali si era abituati. Così, se da un lato l’ascoltatore si trova spaesato dal ritmo e dai suoni che gli arrivano alle orecchie, dall’altro individua al volo punti di riferimento, appigli, per rimanere in contatto con la musica. Trova equilibrio.
Una tecnica di orientamento simmetrica e opposta consiste invece nell’inventare musica che abbia nel ritmo un punto fermo, riconoscibile, ma proponga armonie nuove, sorprendenti. Lo fa Debussy in Reflets dans l’eau, dal Primo Libro delle sue Images per pianoforte, dove, su quel ritmo rassicurante, ogni accordo arriva come una sorpresa, come acqua che si muova incessantemente, senza nessun riferimento alle abitudini delle sale da concerto di inizio Novecento. E così si rimane soggiogati dal fascino misterioso di questo brano, dal suo senso di fresca sospensione, ma non si perde il filo, mai, grazie a un nuovo, inatteso equilibrio.
Se al contrario ciò che avete in mente è una sorta di abbandono, uno sprofondare dentro la musica, potete ingannare l’ascoltatore mettendogli davanti ritmi, armonie, temi assolutamente chiari, familiari nel loro procedere; ma poi gonfiare a dismisura la forma del pezzo, allungando le frasi, inserendo continue divagazioni, aprendo volutamente sempre nuovi discorsi così da spezzare la logica della consequenzialità immediata che, normalmente, governa un discorso musicale. È ciò che fa Schumann nella Sonata n. 2, per pianoforte, dove perdere il filo è la cosa più naturale del mondo; ascoltandola potete farvi un’idea della tecnica da seguire per annullare i punti cardinali e impedire all’ascoltatore di ritrovare la strada di casa, offrendogli in cambio il brivido dello smarrimento. Attenzione: scrivere musica così non è affatto facile – un qualche istinto alla Pollicino alberga dentro ognuno di noi – ma, lavorandoci, ci si può arrivare.
Con lo scopo di disorientare potete prendere come esempio anche molta musica minimalista. Il meraviglioso Music for 18 Musicians di Steve Reich (*1936) è davvero capace di far perdere la cognizione del tempo grazie a ritmi che si ripetono, sempre uguali, e ad armonie che cambiano molto, molto lentamente. È una struttura deliziosamente ipnotica e talmente ben concepita che anche gli eventi sonori importanti distribuiti sulla partitura, come il crescendo che ogni tanto attraversa il discorso musicale, non riescono a fungere da punteggiatura, a scandire il brano in parti, frasi, unità. Il godimento nasce dall’abbandonarsi al flusso, alla particolarità degli impasti timbrici, al riverberare astratto di suoni che conducono in una sorta di deliziosa trance dove i riferimenti consueti risultano smarriti e il piacere consiste nel non cercarli più.