La musica da camera

Se accendete Radio3, all’ora di cena, potete ascoltare ogni giorno un concerto. Ma, fateci caso: quelli di musica da camera sono una minoranza. Così come altre emittenti culturali di tutto il mondo, a quell’ora anche la nostra privilegia la musica sinfonica, oppure l’opera. Non i trii con pianoforte, i quartetti d’archi, i recital pianistici, cioè lo zoccolo duro della musica da camera.

La scelta non è accidentale. Perché la musica da camera richiede un’attenzione non comune. E offre emozioni profonde, intensissime, forse uniche, ma le concede soltanto a chi vi si dedica portando con sé in sala da concerto – o davanti a un altoparlante – desiderio, curiosità, tensione. Non lo si può pretendere da tutti, ed ecco che i canali radiofonici, con sano pragmatismo, prediligono generi più spettacolari.

Pensateci, quando vi trovate a comporre per una piccola formazione, una di quelle che un tempo trovava posto nella camera di un ricco signore, se a suonare erano professionisti, oppure nel salotto di una famiglia colta, dove il padrone di casa e qualche amico dava vita a una formazione amatoriale. Pensateci perché il tipo di scrittura da adottare ha a che fare soprattutto con l’idea di intimità. Quella del luogo: una sala non grande, dove idealmente tutti si possono vedere e gli strumenti sono a pochi passi dalle orecchie di chi ascolta. Quella dei musicisti, che si trovano a suonare in piccole o piccolissime formazioni se non addirittura da soli, in un’atmosfera che rasenta la confessione. Ma anche quella che lega le partiture di musica da camera ai suoi interpreti, un’intimità fatta spesso di dettagli che si perderebbero in un grande auditorium, di sottigliezze alle quali ci si può dedicare solo se non si ha l’ansia di farsi ascoltare molto lontano.

Ascoltate la varietà di colori, quasi urtante, che Janaček richiede ai musicisti nell’inizio del suo Quartetto n. 2 «Lettere intime» (aveva a che fare con una sua passione amorosa, e non avrebbe potuto che essere musica da camera…). Prescrive alla viola di suonare al ponticello, dove si ottiene un suono più duro, aspro; e inserisce la frase dopo accordi dei due violini (il primo con dei bicordi) e lunghi trilli del violoncello, lasciandola svettare nuda, sola, per alcune battute. Sono gesti musicali che sarebbero destinati a rimanere scoordinati, frammentari, se gli interpreti non si gettassero con generosità l’uno verso l’altro, ascoltando e reagendo, quasi vivendo il travolgimento erotico che Janaček trasferisce sulla partitura. Per suonare musica come questa bisogna scambiarsi sorrisi, smorfie, e ridere, piangere, urlare, tacere di colpo. Far funzionare una pagina così, con un’orchestra, sarebbe probabilmente impossibile. È, appunto, musica da camera.

Non dovete però pensare che trii e quartetti servano solo per emozioni a tinte forti. Al contrario: la maggior parte della musica da camera è straordinariamente garbata, e il pennello sottile, del tutto diverso da quello che dovete usare per comporre musica sinfonica, viene utilizzato per tracciare le linee di conversazioni dalla grazia indicibile. In una pagina come l’Allegro con spirito dal Quartetto op. 76 n. 1 di Haydn potete ascoltare la cura con la quale la metafora di una chiacchierata salottiera viene allestita sulla partitura. Dopo un accordo comune iniziale, quasi un microscopico brindisi, gli strumenti entrano a turno e si passano il tema l’uno con l’altro, in una situazione di concordia che poi, a poco a poco, viene persa – la discussione si infervora – per essere ritrovata nel finale. Certo, è la forma stessa del brano a prescriverlo: la forma-sonata, che tra Sette e Ottocento è servita anche per musica pianistica, o sinfonica, prevede proprio l’incontro di opposti che, attraverso un processo di trasformazione, alla fine trovano la concordia. Ma, come potete capire, la sua applicazione a un organico cameristico come il quartetto rappresenta la perfezione: le chiacchiere da camera, evocate dalla forma-sonata, si trasformano in musica da camera, con una piacevole circolarità.

Tenete infine presente che sviluppare una carriera, per un gruppo da camera, è difficilissimo. Bisogna mettere in conto di affiatarsi per un lungo periodo, magari provando tutti i giorni per un anno prima di affrontare il pubblico. E va considerato che le occasioni per suonare, e dunque per guadagnarsi il pane, sono poche, visto che le formazioni già affermate girano il mondo come trottole e occupano molti degli spazi a disposizione. I veri sodalizi cameristici, quindi, purtroppo scarseggiano, e l’informazione non è irrilevante. Perché, quando prenderete la matita in mano, vi accadrà di rivolgervi a gruppi di interpreti molto diversi. Se avrete la fortuna di incontrare una formazione stabile, che prova regolarmente, che ha voglia di mettersi in gioco, allora le raffinatezze di scrittura che vi verranno in mente, gli scambi di sguardi, gli abbandoni che la partitura richiederà saranno accolti come si deve. Ma se i musicisti che prenderanno in mano il vostro pezzo si sono incontrati per l’occasione, o poco più, la loro intimità sarà probabilmente scarsa, e la lettura del testo, di conseguenza, emotivamente superficiale. Ci sono pezzi che reggono benissimo: il Quartetto con flauto in re maggiore K 285 di Mozart, per dire, è talmente solare e solido nella struttura e nella distribuzione dei ruoli da poter funzionare in qualsiasi situazione – anche perché non credo esistano quartetti con flauto davvero stabili, nel mondo. Ma altri, come il Trio in sol minore op. 110 di Schumann, per violino, violoncello e pianoforte, suonati da tre musicisti riuniti artificiosamente per una scelta di marketing del loro agente (capita!), ne escono con le ossa rotte. Ritenetevi avvertiti.

La musica sinfonica

Le prime volte, quando vi comunicheranno il calendario delle prove, rimarrete stupiti. Saranno solo due giorni, prima del concerto. Con circa cinque ore di lavoro per ogni giornata, comprensive di uno o più intervalli. E in quel tempo, così incredibilmente compresso, insieme al vostro brano l’orchestra dovrà provare il resto del programma. Per cui, in sostanza, alla partitura che vi ha tenuto impegnati magari per sei mesi si dedicherà in tutto, per dire, un’ora e mezza.

Ritenetevi fortunati. In Gran Bretagna, dove la lettura a prima vista è più coltivata e il livello delle orchestre normalmente molto alto, di solito si monta un intero programma in un solo giorno. Con esiti musicali, peraltro, eccellenti.

Il fatto è che la musica sinfonica impegna, come è ovvio, molti musicisti. Che costano. E che, d’altronde, non si possono spremere come fossero limoni: provate a mantenere la concentrazione e la tensione necessari a un’esecuzione per varie ore al giorno, e poi ne riparliamo. Per cui comporre musica sinfonica, e volerla far eseguire al meglio, comporta una serie passaggi tutt’altro che banali. A voi spetterà preparare con precisione la partitura e le parti staccate per i singoli strumenti, cosa che può richiedere settimane o mesi, a seconda del livello di cura che si vuole raggiungere; e poi dovrete essere pronti, durante le prove, a rispondere al volo a qualsiasi domanda (come «Anche il terzo fa di battuta 402, ai tromboni, è staccato?» oppure «Nel penultimo accordo di battuta 127, dove agli archi ci sono otto note, il re è diesis o si tratta di un refuso?»). L’organizzatore della produzione, dribblate le faccende finanziarie e amministrative, dovrà a sua volta definire con chiarezza l’uso degli spazi di prova, la scansione oraria, la distribuzione dei camerini, e poi disporre con precisione le sedie (per questo esiste la funzione dell’ispettore d’orchestra), collocare i leggii sui quali appoggiare le diverse parti (ed ecco che entra in gioco l’archivista, che qualunque formazione deve avere), curare l’illuminazione, la temperatura e il tasso di umidità ambientale, e così via. Ciò che con un quartetto d’archi si può sempre gestire in qualche modo, improvvisando soluzioni, non può essere realizzato con efficacia quando sono in ballo sessanta, ottanta, magari cento professionisti, normalmente dotati di una sensibilità piuttosto spiccata, che vanno messi nella condizione migliore perché possano fare il proprio mestiere.

Per questo ottenere una commissione da un’orchestra è cosa preziosa. Nel nostro Paese, persino rara. E lì va rintracciato il motivo per cui nell’ultimo secolo si è scritta così tanta musica non sinfonica. Vuoi perché lo stile delle vecchie avanguardie non interessava alla maggior parte dei musicisti e del pubblico (e dunque perché investire le cospicue risorse necessarie?), vuoi perché, una volta che i compositori hanno riconquistato interpreti e platee, siamo piombati nella crisi economica (e, visto che ci sono pochi soldi, non è meglio suonare il solito Mozart e lasciar perdere le partiture fresche di inchiostro?), di fatto dal secondo Novecento il mondo si è riempito di brani solistici, o per ensemble, dove a lungo il massimo brivido timbrico offerto agli autori viventi è consistito nello scrivere per un’«orchestra a uno», con un solo flauto, un solo oboe, un solo clarinetto e dunque un solo violino, una sola viola eccetera. Ho seri dubbi sul fatto che nel Ventesimo e all’inizio del Ventunesimo secolo i compositori «abbiano preferito dedicarsi a organici ridotti», come qualcuno afferma ogni tanto. È che i grandi mezzi, quelli dell’orchestra, sono stati riservati in modo quasi esclusivo alla musica di repertorio.

Ora, quando avrete occasione di scrivere per un grande organico, vi renderete conto che esiste una questione di efficacia, di potenza, di varietà. Con un’orchestra potete immaginare musiche impensabili per un organico più piccolo. Siete messi in condizione di sviluppare relazioni tra le frasi, tra i timbri, tra figure e sfondo che, semplicemente, non possono esistere in altro modo. Perché nella musica sinfonica c’è più materia in gioco, più tempera da mescolare sulla tavolozza, ci sono più mattoncini Lego con i quali inventare. Anche componendo un breve pezzo di cinque minuti, con un’orchestra a disposizione potete immaginare un romanzo, e non un racconto, proprio per la quantità di incastri, di corrispondenze, di vincoli, di variazioni che attiverete.

Ma capirete che ha il suo peso anche un aspetto simbolico, non trascurabile. Perché è con l’orchestra che la civiltà europea, da alcuni secoli, si autorappresenta. Avrei difficoltà ad affermare che la Quinta sinfonia di Beethoven è più bella della sua Sonata per pianoforte op. 111 o del Quartetto op. 59 n. 1 «Razumovsky». Eppure mai e poi mai, potendo scegliere, un organizzatore culturale, un assessore, un ministro, preferirebbe offrire al proprio pubblico un recital pianistico, o l’esibizione di un quartetto d’archi, rispetto a un concerto sinfonico. In modo del tutto comprensibile. Per cui in molti sanno che Beethoven ha scritto nove sinfonie; ma sono molti meno quelli che saprebbero dire quante sono le sue sonate per pianoforte (trentadue – vi risparmio la fatica di aprire Google). Il fatto di scrivere per orchestra, dunque, offre al compositore una legittimazione sociale che non raggiungerebbe scrivendo solo musica da camera. E la cosa ha la sua importanza.

L’insieme di questi elementi fa sì che scrivere musica sinfonica sia molto difficile. Perché bisogna gestire numerosi parametri contemporaneamente, come in qualunque sistema complesso. Ma anche perché si ha un discreto peso sulle spalle, che talora può sfociare in un’ansia da prestazione.

Brahms, ad esempio, era terrorizzato dall’idea che una propria sinfonia non fosse all’altezza di quelle di Beethoven. E, pur essendo un compositore strepitoso, esitò sino ai quarantatré anni prima di licenziare la propria Prima sinfonia. Per farsi la mano, sino a quel momento aveva, per così dire, bordeggiato intorno all’orchestra, scrivendo un Concerto per pianoforte e orchestra, due Serenate, le (meravigliose) Variazioni su un tema di Haydn. Tutte pagine che prevedono un organico sinfonico, sia chiaro, ma non il suo uso iconico, muscolare, che da più di un secolo era rappresentato appunto dal comporre una sinfonia, cioè un ampio brano, per lo più in quattro movimenti, senza solisti strumentali e con alcune strutture formali ben codificate.

Luciano Berio, nel 1968-69, sottolineò ulteriormente l’aspetto simbolico della regina delle composizioni orchestrali con Sinfonia, un brano, in perfetto stile postmoderno, nel quale convivono un ensemble vocale amplificato che intona e pronuncia un testo da Il crudo e il cotto di Lévi-Strauss, elementi musicali provenienti da musiche di compositori precedenti (Mahler, Ravel, Debussy, Stravinskij e molti altri), solfeggi parlati, autocitazioni da propri lavori. Berio presentò dunque il genere stesso della sinfonia come summa, come memoria e specchio di una società; e prima di prendere la matita in mano, se non altro per fare un ripasso della responsabilità che vi attende, questo è un brano che dovete assolutamente ascoltare.

In una direzione del tutto diversa, che riallaccia con fiducia il rapporto con la storia, è andato Henryk Górecki, con la sua Terza sinfonia «dei lamenti», del 1975, per soprano e orchestra. Lo stile nel quale è composta, talvolta definito minimalismo sacro, è di immediata presa sul pubblico; tanto che nel 1992 il disco con la registrazione del brano ha scalato le classifiche e, nel tempo, è arrivato a vendere più di un milione di copie – numero assolutamente sbalorditivo per un pezzo di un compositore (all’epoca) vivente. Diciamo che non conoscerla, ormai, rappresenterebbe una lacuna culturale quasi imbarazzante.

Oggi, quando ricevono una commissione, i compositori si mettono al lavoro volentieri su quelli che definiscono pezzi per orchestra. Solo qualcuno ne affronta l’icona simbolica, e scrive una sinfonia. Il che è un po’ un peccato. Perché quel senso di equilibrio, di compiutezza, di solidità che la sinfonia ha mantenuto attraverso i secoli avrebbe bisogno di più declinazioni nel presente. Se non vi tremano troppo i polsi, dunque, mettetevi al lavoro.

Il concerto solistico

Fa parte delle abitudini di qualunque stagione orchestrale. In media le serate cominciano infatti con un’ouverture, finiscono con una sinfonia e al centro, nella maggioranza dei casi, c’è un concerto per solista e orchestra. La pratica ha una sua ragion d’essere: mentre in una città, in un teatro, un’orchestra rimane sempre la stessa, cosa che può indurre potenzialmente a una certa noia, i solisti cambiano a ogni produzione, spesso arrivano da molto lontano e sono di frequente dei divi che con il loro nome danno lustro al concerto. E poi, più concretamente, sono dei super-professionisti, che suonano pagine difficili, che reggono la tensione, che sanno mettersi in relazione con direttori e compagini diverse, magari tenendo ogni mese cinque o sei concerti in città lontane tra loro, con diverso repertorio, ciascuno da provare ed eseguire al meglio – i solisti, se ci si pensa, in un certo senso si giocano ogni sera tutta la carriera, perché il pubblico e i colleghi ascoltano, giudicano, riferiscono…

Quando vi mettete a scrivere un concerto per pianoforte e orchestra, o per violino e orchestra, o per ukulele e orchestra – la sostanza non cambia – considerate dunque che la vostra partitura avrà una star assoluta, il solista, e, intorno, un’orchestra, che suonerà con lui ma sarà inevitabilmente meno esposta. Questo comporta che tra la vostra partitura e il solista per il quale componete, o che comunque terrà a battesimo il brano, si stabilisca una relazione forte, intensa. Talora esclusiva, e segnata anche da una certa gelosia – se componete un concerto per il violinista Tizio, sappiate che poi il violinista Caio lo suonerà con difficoltà perché, anche senza confessarlo, avrebbe voluto che voi lo componeste per lui, non per il suo collega… Ma l’aspetto positivo è che, proprio per questo motivo, i momenti nei quali compositore e solista lavorano insieme per preparare il concerto, provando e discutendo, sono segnati da una speciale intensità: si è come genitori a un corso pre-parto, che immaginano il nascituro e cercano di creare le migliori condizioni perché tutto vada bene. Quando vi capiterà, lo capirete.

Non è difficile rendersi conto di quanto sia importante, di conseguenza, chiarire sin dall’inizio del brano quali sono le relazioni che intercorrono tra il solista e l’orchestra. E, fondamentalmente, decidere come farlo entrare.

Potete ad esempio cominciare con un tema memorabile affidato all’orchestra e un solista, al pianoforte, che accompagna con grandi accordi. In questo modo, quando il tema passerà a lui, lo si sarà già ascoltato una volta, e piacerà di più – è il consueto meccanismo, già identificato da Platone, utilizzato anche al Festival di Sanremo per far apprezzare di più le nuove canzoni: le si deve ripetere più volte, giorno dopo giorno. Lo fa benissimo Čajkovskij nell’Allegro non troppo e molto maestoso con il quale apre il suo Concerto per pianoforte e orchestra n. 1.

Oppure potete mettere in pratica la variante che prevede di presentare, ricorrendo all’orchestra, solo alcuni frammenti del primo e memorabile tema, così da far montare il desiderio, la voglia di ascoltarlo per intero, e lasciando al solista l’onore di presentarlo in toto. È una tecnica che Čajkovskij, ancora lui, usa nell’Allegro moderato del suo Concerto per violino e orchestra dove poi il solista per quasi cinque minuti – un tempo eterno, in una partitura – è il mattatore assoluto, con l’orchestra che accompagna in modo discreto, lasciando cadere poche note, giusto per segnare l’armonia e marcare il tempo.

Alla retorica del desiderio appartiene anche la strategia usata da Dvořak nel proprio Concerto per violoncello e orchestra, che porge alle orecchie il primo tema più volte, facendolo suonare a sezioni diverse dell’orchestra, prima con discrezione, poi gonfiando il suono della formazione e poi, ancora, tornando alla leggerezza. Prima che entri il solista, Dvořak fa ascoltare anche il secondo tema – poiché i concerti solistici per il primo movimento utilizzano di solito la forma-sonata, ci sono almeno due temi contrastanti – proponendolo prima al corno e poi con tutta l’orchestra. E così il violoncellista alla fine entra in scena dopo circa tre minuti e mezzo dall’inizio, da vero ospite d’onore.

Una variante consiste nel far presentare all’orchestra entrambi i temi sui quali è costruito il primo movimento della partitura ma poi prevedere che l’ingresso del solista non sia trionfale, evidente, epico; al contrario, stabilire che la sua entrata avvenga con un materiale musicale di passaggio, poco significativo, così che lui possa infilarsi all’interno del discorso come se fosse un altro degli strumenti, non il protagonista. È ciò che fa Mozart nell’Allegro maestoso del suo Concerto per pianoforte e orchestra in do maggiore K 467 (notissimo, peraltro, per lo splendido Andante centrale).

C’è poi la casistica del solista, un pianista, al quale si affida il compito di fare melina, di girare a vuoto, di proporre scale, arpeggi, decorazioni – niente di significativo. Il pianoforte lo fa sostanzialmente da solo, con giusto qualche accordo dell’orchestra che sembra appoggiato sulla partitura più per marcare il territorio che perché ci sia davvero qualcosa da dire. Dopodiché si zittisce ed è l’orchestra a presentare entrambi i temi, il primo dei quali è potentissimo. Quando il pianista riprenderà a suonare, dopo diversi minuti, il primo tema verrà declinato in una forma più delicata, meno imperiosa, arricchita di fioriture. Cosa, a quel punto, davvero teatrale. È il modo perfetto con il quale comincia il Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 «Imperatore» di Beethoven, dove la presenza di poli opposti – uno molto deciso, l’altro garbatissimo – è poi, in fondo, il segno distintivo dell’intera partitura.

Se volete semplificarvi la vita – una commissione arrivata all’ultimo momento? un crash dell’hard disc due settimane prima della consegna? – considerate infine l’esistenza di soluzioni come quella utilizzata da Mercadante nel Maestoso con il quale comincia il suo Concerto per flauto e orchestra in mi minore. Si è nel 1814, in Italia, dove il melodramma scatena passioni sfrenate; e le linee che arrivano alle orecchie sono dunque come arie d’opera, con melodie alle quali sembra manchino solo le parole. La relazione tra solista e orchestra è semplice: all’inizio l’orchestra presenta i temi, li sfrutta, fa tutto quello che deve fare; poi entra il solista, e a quel punto tocca a lui: il flauto, per così dire, canta, e l’orchestra accompagna, senza disturbare. Non c’è sostanzialmente alcuna relazione tra i due elementi. Il che non significa che si tratti di brutta musica – tutt’altro. Ma, ecco, diciamo che, rispetto alle altre ascoltate sopra, questa è una partitura che si segnala per la sua candida semplicità.

L’opera

L’opera lirica è il regno dell’assurdo. Del controllo. E del compromesso.

Dell’assurdo perché prevede di dar vita a personaggi che, anziché parlare, cantano. Personaggi che si muovono all’interno di un mondo risonante, dove qualunque cosa avviene in modo musicale, e nessuno si stupisce che si faccia conversazione cantando, ci si arrabbi cantando, ci si ami cantando e, spessissimo, si muoia cantando.

Del controllo perché il burattinaio di questo mondo assurdo è un compositore, che inventa melodie, stabilisce tempi, prevede respiri per i propri personaggi arrivando a regolare il loro modo di esprimersi come nessun drammaturgo potrebbe mai fare in una pièce teatrale. Per capirci: Shakespeare scrive battute per i propri attori; Verdi stabilisce con precisione come ogni sillaba verrà pronunciata. C’è una bella differenza.

Del compromesso perché, una volta stesa la vostra partitura, dovrete confrontarvi non solo con un direttore e con i relativi professori d’orchestra ma, soprattutto, con i cantanti, talvolta adorabili ma più spesso capricciosi, e con i registi, che in molti casi si mettono al servizio del testo – cioè del lavoro vostro e del librettista – ma in altri hanno invece manie di protagonismo per cui il loro massimo divertimento consisterà nell’affermare una propria personale visione del tutto a discapito della musica che avete scritto e della storia che era previsto si raccontasse.

Se pensate di poter reggere queste forze contrapposte, e vi piace il teatro, allora fatevi avanti. Ottenere una commissione non sarà facile: un po’ in tutto il mondo ci siamo ormai rassegnati a opere in forma di concerto (cioè senza parte scenica), oppure per piccolissimi organici (un paio di cantanti, cinque o sei musicisti), perché le vere opere, in veri teatri, con una vera grande orchestra in buca, magari un bel coro e un cast che consenta lo svolgersi di una vicenda articolata, sono merce rara per i compositori viventi. Sia chiaro: capita di scriverne – a me è successo – ma non rammaricatevi troppo se il vostro meraviglioso progetto di melodramma rimarrà per un po’ nel cassetto.

Considerate che ci vorrà del tempo per stendere la partitura: dopo essermi confrontato con diversi colleghi, posso dire che è ragionevole fissare in circa nove mesi il periodo di gestazione di un’opera. E sappiate che l’impresa sarà totalizzante. Per dire: quando scrivo musica strumentale, la notte dormo sereno e sogno tutt’altro; ma quando scrivo opere vengo visitato nel sonno dalle melodie dei miei personaggi, un po’ perché passo tutto il giorno a cantarle e un po’ perché si tratta di materia viva, palpitante, e mi è impossibile separarmene. Bello, per carità; ma anche molto faticoso.

Una volta presa la matita in mano, vi troverete a operare una scelta importante. Bisogna far finta che sia tutto vero, e dunque prevedere un canto in cui prevalga il realismo, come in una sorta di specialissima lingua parlata? Oppure cavalcare il versante dell’assurdo, per cui c’è un codice, è evidente che si sta giocando, e nessuno deve cantare come se stesse davvero morendo, tramando, gioendo?

Prendete la pazzia, ad esempio. Nella Lucia di Lammermoor di Donizetti il personaggio di Lucia, quando dà di matto, perde qualunque contatto con la realtà: canta con picchettati, volate, volatine, trilli, gorgheggi. Non è più umana, ma quasi un personaggio mitologico, astratto. Mentre nella Nina, o sia la pazza per amore di Paisiello la protagonista canta come una vera donna innamorata resa folle dal dolore, e si ascolta una voce che procede a scatti. Con frasi dal respiro corto. Interrotte da pause per dare il senso della fragilità di chi esce di senno. Quella di Donizetti è una pazzia simbolica; quella di Paisiello assolutamente realistica.

Prendete la patria. Rossini, nel Guglielmo Tell, volendo affrontare un soggetto patriottico evita di cantare l’Italia, ed evita anche la Francia, dove ormai vive. Sceglie, al loro posto, la sorridente e inoffensiva Svizzera, della quale mette in musica prati, montagne, laghi, un paesaggio – è anche questa un’idea di patria – per cui vale la pena battersi. Mentre, pochi anni dopo, Verdi nel Nabucco schiera come protagonista il popolo, la massa degli uomini e delle donne che soffrono, si lamentano, sperano collettivamente. Lasciate perdere il fatto che ambienti la vicenda nel mondo babilonese per ovviare alla censura: la sua è una patria che risuona di sentimenti reali, quotidiani, una patria che il canto plasma in modo intensissimo – basta ascoltare Va’, pensiero. Rossini, dunque, mette in scena un gioco di simboli; Verdi un realissimo popolo in angoscia.

Oppure, ancora, prendete l’idea di portare in scena il presente. Steve Reich, in The Cave, affronta il tema della grotta sacra alle tre religioni monoteistiche con la tecnica della speech melody, che consiste nel sovrapporre e far coincidere una melodia strumentale alla voce dei protagonisti di varie interviste video di taglio quasi giornalistico. È un modo di trasformare la lingua parlata in opera lirica, portando in teatro qualcosa di estremamente realistico. Cosa che il suo collega John Adams, nell’opera Nixon in China, evita accuratamente: i personaggi storici, perfettamente riconoscibili (sono uomini del calibro di Richard Nixon, Henry Kissinger, Mao Tse-Tung…), cantano infatti seguendo l’estetica del minimalismo, con frasi che si ripetono o che galleggiano in strutture armoniche passe-partout, non perché davvero qualcuno potrebbe esprimersi così nel mondo reale, ma per il gusto di farlo. Reich vuole realismo; Adams lascia che prevalga la logica musicale.

Neanche a dirlo, le soluzioni intermedie sono infinite. Così come altri possibili stravolgimenti o reinvenzioni della tradizione. Ma, gratta gratta, alla fine ci si trova sempre a operare quella scelta: scrivere un’opera in cui il canto si avvicini il più possibile alla vita reale, oppure infischiarsene della verosimiglianza e muoversi in modo diverso. Vedete voi.

Lieder, mélodies, romanze

Un altro modo, splendido, per utilizzare la voce è quella di lasciar perdere i teatri d’opera e pensare a piccole sale da concerto. O addirittura a salotti casalinghi, se ci si rifà all’origine del «canto da camera». Sino al primo Novecento era infatti frequente che un dopocena, in un ambiente borghese, prevedesse l’esecuzione di un po’ di musica. E il canto da camera (in Italia detto spesso romanza, in Germania Lied, in Francia mélodie) ne è stato il mezzo d’elezione: è sempre più facile ascoltare qualcuno che intona un testo accompagnato al pianoforte, rispetto, per dire, a un quartetto d’archi.

Ora, se decidete di scrivere un brano per voce e pianoforte avete diverse possibilità da prendere in considerazione. E due sono quelle opposte e prevalenti.

La prima, la più semplice, è quella di impostare il pezzo come se fosse una canzone tradizionale, con strofe, ritornello e ponte di collegamento variamente disposti. Un capolavoro come Non t’amo più di Tosti, nel quale è facile rintracciare la matrice per le canzoni che hanno attraversato il Novecento, può servirvi da riferimento.

La seconda consiste nel lavorare a qualcosa che si muove come una micro-pièce teatrale. Con frasi musicali inventate aderendo da vicino al testo, e dunque ogni volta diverse (durchkomponiert, dicono i Tedeschi, per indicare il comporre attraverso). Erlkönig di Schubert, ad esempio, racconta di un padre che cavalca nella notte cercando di portare in salvo il figlio malato; ma, durante il percorso, il bambino vede apparire il re degli Elfi (Erlkönig, appunto) che lo chiama verso la morte. Per rendere efficace il racconto, il compositore inventa musiche diverse per le diverse strofe, e gestisce due personaggi, il padre e il figlio, affidandoli in modo alternato allo stesso cantante. Lo fa, peraltro, sfruttando in modo eccellente la parte pianistica per creare l’ambiente in cui collocare la vicenda, con note ribattute per alludere alla cavalcata notturna che aiutano a entrare subito in medias res e rendono organiche, solide, le diverse idee musicali – sono tutte, invariabilmente, appoggiate su questi ribattuti.

Il che porta a ragionare sull’uso che si deve fare del pianoforte, nella liederistica. Volendo, lo si può utilizzare per raddoppiare la melodia, soprattutto quando l’interprete è incerto, o magari è un attore-cantante. Prendete ad esempio Je te veux, composta da Satie per Paulette Darty, regina del valzer lento nella Parigi della Belle Époque, e vi farete subito un’idea del procedimento. Certo, la soluzione non è molto elegante – ci si ritrova con la voce e il pianoforte che fanno la stessa cosa, e non è un bel sentire… – ma è sicura ed evita possibili deragliamenti.

Al contrario, si può decidere di concedere al pianoforte la massima autonomia, tanto da farlo diventare addirittura protagonista. Ascoltate Nun hast du mir den ersten Schmerz getan, l’ultimo numero di Frauenliebe und Leben di Schumann dove lei, rimasta sola dopo la morte del suo amato, canta «Il mondo è vuoto. Tutto è finito… Mi raccolgo silenziosa in me stessa». Lì, arrivati al culmine espressivo dell’intero ciclo di Lieder, il compito di fare ascoltare l’assenza è completamente affidato al pianoforte, mentre la voce tace; ed è dunque lo strumento a concludere da solo la raccolta.

Prestate attenzione, naturalmente, a scegliere con cura il testo che mettete in musica. Non perché deve essere a tutti i costi bello. Ma perché, quando è davvero celebre, piegarlo alla musica può sortire esiti pericolosissimi. Se ascoltate L’infinito che Castelnuovo-Tedesco ha realizzato mettendo in musica il capolavoro di Leopardi capirete che, nonostante si tratti di un brano artigianalmente ineccepibile, con lunghe frasi del cantante su poche note di sostegno strumentale, l’esito ha dei tratti di umorismo involontario, mentre invece avrebbe voluto evocare lo smarrimento estatico del poeta. Ritenetevi avvertiti.

Se infine non riuscite a staccarvi dall’idea di comporre un’opera, anche quando la commissione che avete ricevuto è per un brano da salotto, sappiate che potete bluffare un po’, rimanendo in contatto con i due mondi: lo fa ad esempio Rossini in La passeggiata, per quartetto vocale e pianoforte, che è strutturato come un perfetto finale d’atto di un’opera buffa. Con toni volutamente esagerati, e dunque particolarmente ironici, si racconta di un gruppo di amici in gita sulla laguna. Un accenno di maltempo, improvviso, li spaventa a morte. Ma poi in realtà il cielo si rasserena e tutto finisce bene. Come in teatro.

La musica d’arredamento

Non so voi, ma io detesto i luoghi nei quali mi costringono ad ascoltare musica contro la mia volontà. La considero una violenza, capace di rovinarmi una cena o una conversazione. A meno che, attenzione, non si tratti di musica concepita per essere ascoltata come un sottofondo. Perché allora cambia tutto. Il problema è che in pochi, pochissimi, sono in grado di distinguere il gesto di arredare un ambiente con un tappeto sonoro, segnato da dinamiche, ritmi, armonie, timbri accuratamente studiati, rispetto a quello di mettere su una qualunque compilation pop piuttosto che i Quartetti di Bartók, quand’anche a volume basso. Personalmente considero quella del disegno di ambienti sonori un’arte tutt’altro che trascurabile e, se vi dovesse capitare di metterci mano, sappiate che, fatta bene, anche quella può essere musica importante.

L’inventore è stato Satie, che definì subito una delle caratteristiche della musique d’ameublement, la musica d’arredamento: deve essere ripetitiva. Lo potete ascoltare ad esempio nel suo Rivestimento in ferro battuto per l’arrivo degli invitati (da suonare in un ingresso), brano dal titolo ironico, volutamente dissacrante, perfetto per indicare la nuova funzione della musica che il compositore aveva immaginato.

Gli antecedenti involontari erano stati quei semplici pezzi per pianoforte sbocciati tra Sette e Ottocento, destinati a un uso casalingo, senza difficoltà né ambizioni, che volenterose mani e manine hanno strimpellato per generazioni davanti a genitori comprensivi e a parenti annoiati: la Sonatina op. 36 n. 1 di Clementi, uguale a centinaia di pagine simili, ne è la rappresentazione plastica, e offre all’interprete (e all’incolpevole ascoltatore) la soddisfazione minima di armonie consonanti e piccole frasi graziose – arredamento, appunto.

Le declinazioni contemporanee sono molte. Tra tutte svettano quelle di Philip Glass, che talvolta scrive musica potente, da ascoltare con l’attenzione che riserviamo alla sala da concerto, ma in altri casi inventa strutture musicali che seguono lo stesso meccanismo di quelle di Clementi: piccole frasi gradevoli su armonie elementari, con continue ripetizioni, che si distinguono da quelle d’epoca perché, se a inizio Ottocento prevaleva l’accompagnamento in quartine, il cosiddetto basso albertino, ta-ra-ta-ra, ta-ra-ta-ra, Glass predilige quello in terzine, ta-ra-ra, ta-ra-ra. Ma è da conoscere a tutti i costi anche quella, geniale, di Brian Eno, la cui Music for Airports del 1978 è la prima ambient music della storia – quella di Satie si definiva d’arredamento. Il meccanismo consiste nel distribuire suoni che non si aggreghino in figure riconoscibili e, al contrario, fluttuino sospesi, in una ricercata vaghezza. Il tessuto armonico è statico, privo di tensioni, rassicurante, e al nostro orecchio ricorda un po’ la musica indiana (della quale in realtà, per ignoranza, abbiamo difficoltà a cogliere la raffinatezza). La ricchezza e l’interesse sono programmaticamente esclusi, ed è giusto che sia così perché, in questo modo, la musica assolve perfettamente alla propria funzione.

Un caso particolare, in equilibrio tra la musica d’arredamento e quella da seguire con attenzione, è la produzione di Ludovico Einaudi. Collocarla dipende dalle abitudini d’ascolto di ciascuno. Tutto è estremamente semplice, e prevedibile; ma con caratteristiche artigianali che fanno svettare le sue partiture rispetto ad altre – la scelta delle armonie, della disposizione delle parti, dei punti nei quali introdurre cambiamenti fanno la differenza. Di certo Einaudi ha una grazia specifica, non imitabile, e lo si coglie facilmente confrontando il suo lavoro con la pletora di pianisti-compositori che pensano di averne colto il segreto, ma producono solo cloni noiosissimi. Dunque, ascoltate la sua musica, con attenzione oppure distrattamente; ma rassegnatevi al fatto che è segnata da una propria, riconoscibile, unicità.