L’ascolto di musica barocca, a distanza di secoli, è esploso grazie ai walkman. Se si voleva camminare in giro per la città indossando le cuffie, sarebbe stato scomodo alzare e abbassare continuamente il volume per seguire gli sbalzi di una sinfonia ottocentesca che combatte contro il traffico. E così, empiricamente, si è capito che la musica perfetta, che non suonava mai troppo piano né troppo forte, era quella scritta tra il Seicento e la metà del Settecento. Di lì, l’esplosione della produzione discografica, come mai era avvenuto prima.
Tocca tenerne conto perché, così come fanno gli studenti delle classi di Composizione in un Conservatorio, anche voi, per imparare il mestiere, dovete farvi le ossa imitando la musica dei secoli passati, a partire da quella barocca. E la prima cosa da fare è dunque ridurre il range sonoro. Non a caso lo strumento principe del periodo è stato il clavicembalo, che ha un’unica dinamica – tanto che, quando fu inventato, il pianoforte venne definito «clavicembalo con il piano e il forte», per sottolineare la strabiliante novità. Ma non sarà difficile: rispetto a quelli costruiti in seguito, gli strumenti barocchi (i violini con corde di budello, i flauti di legno…) sono tutti più esili, anche fisicamente più leggeri. Consentono un controllo perfetto delle piccole sfumature, ma non suonano mai fortissimo. Per questo, scrivendo musica barocca, dovete considerare di agire sempre con un certo garbo, con delicatezza. Lavorando di cesello. Anche quando avete a disposizione organici più grandi – perché naturalmente esistevano orchestre da camera, e in qualche caso orchestre con molte decine di elementi – seguite l’esempio di Bach, di Vivaldi, di Telemann e inventate musica dove la bellezza sia collegata all’invenzione continua, non a uno spettacolo di potenti sbalzi sonori.
Certo, se dovete scrivere musica per una celebrazione, per l’incoronazione di una regina, se volete riprodurre la meraviglia della Musica per i reali fuochi d’artificio di Händel, quelle da sparare sono palle di cannone, non garbati proiettili a salve. Ma, mutatis mutandis, anche lì la manopola del volume viene fissata una volta per tutte: ottoni e percussioni stabiliranno, sin dalla prima battuta, la pressione fonica del brano, e con quello dovrete proseguire.
Pensare musica in questo modo induce a inseguire un certo equilibrio, sempre. Che si tratti di salti di umore espressivo, di passaggi dal solista all’orchestra, di improvvisi cambi dell’impasto strumentale, dovrete allenarvi a esprimervi in modo garbato, simbolico, allusivo. Non dubitate: la vostra emozione di compositori arriverà agli interpreti, e al pubblico; ma lo farà usando parrucche, buone maniere, un eloquio forbito e controllatissimo.
In questo, una tecnica che avete a disposizione è quella delle imitazioni. Quella per cui, data una breve frase musicale, la si ripete a mo’ di pappagallo, magari variandola appena e badando che la sua impronta, il suo calco, siano sempre perfettamente chiari, riconoscibili. È un modo di procedere che regalerà una straordinaria compattezza alle vostre partiture. E farà sì che le si possa ascoltare da qualunque punto, non necessariamente dall’inizio: il discorso musicale sarà infatti così retoricamente perfetto, così chiaro, solido, che in ogni battuta sarà presente una sorta di DNA del brano, replicabile in modo potenzialmente infinito.
Ora, la robustezza della musica barocca le ha consentito alcune semplificazioni, in fase di scrittura: poiché tutti sapevano perfettamente come fare, non era necessario annotare proprio ogni cosa. Anche voi, dunque, potete evitare di scrivere in dettaglio le note fugaci con le quali intendete arricchire una melodia, i pizzi e i merletti che desiderate per una linea di violino o di flauto: gli interpreti realizzeranno abbellimenti in modo automatico, con piccole invenzioni che attingono a un insieme codificato di possibilità, e voi potrete lasciar riposare un po’ la mano. Vi si prospetta addirittura il lusso di sfruttare la geniale invenzione del basso continuo, una tecnica che consente di scrivere, per un accompagnamento, note molto lunghe sormontate da numeri: i clavicembalisti, talvolta accompagnati da violoncellisti o da suonatori di tiorba, o di liuto, li sapranno interpretare e, improvvisando, aggiungeranno le note che quei numeri indicano. Un do con sopra le cifre 3 e 5 verrà arricchito con le note mi e sol, variamente alternate e disposte. Lo stesso do con sopra 4 e 6 si completerà con le note fa e la. E così via. Fidatevi, funziona. Lascia un po’ di libertà all’interprete. E permette di fare più in fretta.
Per converso, sfruttando il tempo risparmiato grazie al basso continuo, considerate che per scrivere musica barocca dovete cavarvela molto bene con il contrappunto del quale si parlava sopra. Che, al di là della definizione etimologica – punctus contra punctum, nota contro nota – è in sostanza l’arte di ricavare il molto partendo dal poco. Cioè la tecnica di elaborazione di un discorso musicale a più parti, con diverse linee sovrapposte, dove una cellula, una sorta di minuscolo tema, dopo esser stata ascoltata all’inizio del brano viene trasformata, spostata, mutata, travestita, dando luogo a sistemi musicali estremamente complessi. Il più celebre, sul quale dovete necessariamente esercitarvi a lungo, è detto fuga, perché la sensazione è che il tema, chiamato soggetto, scappi inseguito dalle risposte che lui stesso genera. Ascoltandone una, si capisce facilmente che l’interconnessione delle parti è solidissima e che l’invenzione del compositore risiede nello scegliere, istante dopo istante, la soluzione migliore all’interno di una sorta di sudoku per cui, se muovi una nota, devi considerare che cosa capita a tutte le altre. Bach, che va accolto come il vostro miglior maestro, raggiunse risultati rimasti insuperabili: L’arte della fuga, lo ripeto ancora una volta, è lì a dimostrarlo agli scettici e potete prenderlo come testo di riferimento.
Se invece l’aspetto speculativo della composizione non fa per voi e volete dedicarvi al teatro, dovete tener presente che l’opera barocca non prevede realismo. I sentimenti dei personaggi, al contrario, vengono inseriti in strutture musicali precostituite, che poi potete utilizzare secondo una prassi consolidata. Non conterà l’evoluzione psicologica dei vostri amanti traditi o delle vostre eroine disperate: valgono le forme, la standardizzazione, un’assoluta misura, anche qui, persino nell’espressione dei sentimenti più estremi. Se vi serve un modello, ascoltate Cleopatra nell’aria Piangerò la sorte mia dal Giulio Cesare di Händel: prima la regina si lamenta dolcemente per il suo amore contrastato; poi, impetuosa, minaccia di presentarsi come spettro, dopo la morte, per tormentare suo fratello Tolomeo che le è nemico; ma poi ancora, essendo il modello strutturale quello di un’aria con il da capo, Cleopatra torna a piangere con dolcezza, come se niente fosse, riprendendo la musica iniziale. Chiaro che al nostro orecchio arrivi bellezza, non vero turbamento. Ma, nello scrivere un’opera barocca, è ciò che dovete inseguire.
Se eliminassimo dai programmi di concerto la musica composta tra la metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento faremmo danni seri. Perché, ovviamente, si suona anche musica scritta prima, e dopo, l’epoca in cui sono vissuti Haydn, Mozart e Beethoven; ma il grande repertorio della musica classica vive soprattutto grazie alla produzione di quel secolo scarso. E la definizione stessa di musica classica rimanda all’epoca che gli storici della musica definiscono classicismo viennese.
Sarebbe drammatica anche l’eliminazione di quel periodo nella storia della musica. Perché è stato allora che si sono definite molte delle forme più sfruttate anche nei secoli successivi – la forma-sonata, la struttura in più movimenti di una sinfonia o di un quartetto, il concerto per solista e orchestra. Ed è stato in quegli anni che le formazioni hanno assunto l’aspetto che ancora oggi conservano: il quartetto d’archi, il trio con pianoforte, l’orchestra classica – per capirci, la compagine con due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni, due trombe, timpani e archi –, che oggi rappresenta lo standard per le formazioni intorno ai quaranta elementi, è quella fissata in quegli anni.
Anche la figura del compositore come libero professionista e non più alle dipendenze di una corte o di una chiesa nasce allora, così come il concetto di concerto pubblico e il conseguente potenziamento della musica strumentale, con la quale si inventa, si sperimenta, si gioca. E mi verrebbe da dire che tra Sette e Ottocento si è stabilito il paradigma generale di ciò che oggi chiamiamo musica classica: prima la si scriveva in altro modo, dopo la si è ampiamente trasformata, ma è davvero impossibile prescindere dall’esistenza delle sinfonie, delle sonate, dei trii, dei quartetti di Mozart e di Beethoven se si pensa a ciò che è la musica classica – mentre non si potrebbe dire lo stesso parlando di Händel o di Schumann.
Ora, per scrivere musica che segua le orme dei Maestri del classicismo viennese dovete familiarizzare con l’insieme di queste esperienze, e impiegherete anni. Ma è soprattutto su un fenomeno che dovete concentrarvi, perché lì si trova la chiave per comprendere e mettere in pratica le innovazioni del periodo: la nascita del concetto di tema. Perché l’insieme di note, la frase che canticchiate uscendo dalla sala da concerto, che vi ritorna in mente sotto la doccia, che usate per indicare a un amico questa o quella sonata, questa o quella sinfonia, è nata allora. Prima esistevano incisi, grumi di suoni incastrati uno dentro l’altro; bellissimi ma impossibili da fissare nella memoria. Ascoltate uno qualsiasi dei Concerti brandeburghesi di Bach, per dire, e capirete di che cosa parlo. Mentre in quegli anni emerge il concetto di tema, che arriva alle orecchie chiaro, netto, ripetuto più volte. Ed è il tema a permettere l’elaborazione di una struttura complessa come quella della forma-sonata, dove si alternano temi diversi sapientemente trasformati davanti ad ascoltatori che, potendoli memorizzare e riconoscere, godono nel seguire il procedimento. Il pubblico di Haydn, ad esempio, era perfettamente in grado di accorgersi dell’arrivo di un primo e poi di un secondo tema nell’esposizione di una forma-sonata, capiva quando toccava al momento dello sviluppo, era gratificato quando i due temi si ripresentavano nella forma originaria al giungere della ripresa. Tanto che i nomignoli aggiunti ad alcune delle sue sinfonie («L’orologio», «L’orso»…) erano legati a specificità dei temi, a loro caratteristiche, che la platea sapeva riconoscere senza difficoltà. Il secondo tema della Sinfonia n. 83 in sol minore «La gallina», con il suo incedere che ricorda la camminata del pennuto, vi può servire da esempio per rendervi conto del gioco.
Se è vero che in quegli anni si diffondono brani con temi memorabili – per fare una prova, scrivete un pezzo prendendo a modello quelli perfetti della Sinfonia in sol minore K 550 di Mozart –, è anche vero che aver affermato l’esistenza, quasi la necessità di musica tematica ha contemporaneamente aperto la strada a declinazioni diverse del concetto. Alle melodie di Mozart, ad esempio, Beethoven oppone costruzioni ritmiche, e i suoi temi sono meno sviluppati ma più incisivi: hanno un minor numero di note, ma un ritmo che le imprime nella memoria. L’esempio canonico è quello della Quinta sinfonia e del suo inciso di quattro note, elaborando il quale viene costruito l’intero primo movimento. Ma anche una pagina come la Terza sinfonia «Eroica» può esservi utile come matrice, perché vi si ritrovano frasi brevi, frammentate, che potrebbero in teoria ricordare i processi di costruzione della musica barocca ma che, al contrario, non danno vita a un flusso gradevole, continuo, e si fissano invece nelle orecchie in modo icastico, perentorio: sono un tema, vanno memorizzate, seguite, ritrovate, e il tutto accade in modo molto naturale, senza alcuno sforzo da parte dell’ascoltatore, perché la costruzione – si tratta naturalmente di una forma-sonata – spinge verso quel risultato.
Quando avrete familiarizzato con il concetto di tema, quando sarete capaci di inventarne uno, esporlo, trasformarlo, potrete infine mettervi alla prova studiando il modo di riprodurre un caso particolare. Si tratta dell’Allegro con spirito che apre la Sonata per due pianoforti in re maggiore K 448 di Mozart. Qui trovate un tema molto evidente, ben fatto, ma anche un chiaro omaggio al meccanismo della frammentazione tipica della musica barocca, costituito di echi, ripetizioni, inflorescenze. Ed è probabilmente la somma delle due procedure che genera la particolare, specifica ricchezza di questa pagina, nota in ambito neurologico per la sua capacità di sviluppare il cosiddetto «effetto Mozart» che alcuni studi suggeriscono porti benefici al sistema nervoso dell’ascoltatore. Siete autorizzati a dubitarne, ma non perdete l’occasione di ascoltare il brano: è bellissimo.
In leggero ritardo rispetto a quanto accadde nella letteratura e nelle arti visive, a un certo punto anche per la musica arrivò il Romanticismo. I brani che marcarono la virata nacquero intorno al 1830, ebbero un immediato successo e in un attimo la nuova estetica, il nuovo modo di guardare il mondo, fece piazza pulita di ciò che sino a quel momento era stata la normalità.
Per proseguire il vostro immaginario corso di composizione, e acquisire la capacità di riscrivere anche musica romantica, dovete dunque mettervi nei panni dei vostri colleghi dell’epoca. E, innanzitutto, dare sfogo all’egocentrismo, all’espansione del vostro io – in modo molto simile a quanto sta accadendo oggi nell’uso dei social network (dove, però, non si creano capolavori). Potete prendere ad esempio Berlioz, che per scrivere la Sinfonia fantastica sfrutta una propria delusione amorosa e la pone come programma del brano (nacque in quegli anni la definizione stessa di musica a programma). Poi, per l’ascolto, sapere che la coppia si sia formata oppure dissolta, che lui abbia tentato il suicidio o che invece si sia creata una bella famigliola, non cambia assolutamente nulla – la musica è un linguaggio non referenziale, e c’è poco da fare. Ma, mentre scrivete, avere un riferimento extramusicale può aiutarvi, può rappresentare la fiammella che vi tiene compagnia durante il lavoro; e questa è una cosa che abbiamo imparato dal Romanticismo.
Dovete poi costringervi a inventare, inventare liberamente, anche a discapito dei riferimenti più consueti. La mobilità armonica è il vostro credo, le successioni di accordi non seguono più la tradizione precedente, ogni battuta può celare una sorpresa. Ascoltate il meraviglioso Lied corale Resignation di Wolff: in pochi minuti potete afferrare il concetto. Ed è importante anche abbandonare la quadratura tradizionale, la consueta successione di 4 + 4 battute, che certo non rappresentava una regola ma era un modo molto diffuso per costruire strutture solide (tanto che la musica pop continua ancora oggi a usarlo con successo). Ora deve prevalere la libertà, e il gioco consiste nel dare un senso di compiutezza a frasi di 5, 6, 7 battute, che qualche anno prima sarebbero sembrate irrimediabilmente sghembe. Non esiste una tecnica specifica per farlo: bisogna imparare a risolvere ciò che si è cominciato, a distendere ciò che si è teso. Il maestro assoluto è stato Brahms, capace di gestire le più spericolate asimmetrie, e potete farvene un’idea ascoltando l’Allegro maestoso dalla sua Sonata per pianoforte n. 3.
Un altro caposaldo della musica romantica risiede nel gonfiare le forme, nell’usare una logica soggettiva al posto di quella stereotipata, nell’infischiarsene delle consuetudini del pubblico. Bruckner, ad esempio, concepisce la sua Ottava sinfonia basandosi sulla continua ripetizione, che finisce con il mettere l’accento su ogni singolo istante a discapito del quadro generale. Là dove prima era facile e piacevole orientarsi durante l’ascolto, riconoscendo le diverse sezioni di una forma-sonata o le elaborazioni dei temi, qui ci si trova (piacevolmente) smarriti di fronte a un’ora e venti minuti di musica che chiede di abbandonarsi al suo fluire, galleggiandovi sopra.
Non dimenticate che nel riscrivere musica romantica va assecondata l’enfasi. E bisogna pensare alla nostra arte come al luogo nel quale possono scatenarsi le forze più possenti. Ascoltate la Cavalcata delle Valchirie dall’opera La Valchiria di Wagner. Vi trovate espressa al massimo grado la logica della ripetizione, dell’insistenza, senza apparente quadratura formale; e poi quella del fortissimo contrasto interno, che vede da una parte gli ottoni, con il tema, e dall’altra gli archi, con una figura che serve da sfondo ma è molto vivace, evidente, quasi iconica. È la perfetta matrice della colonna sonora hollywoodiana, dove tutto deve essere immediatamente chiaro, efficace, e l’enfatizzazione fa parte delle regole del gioco.
Se poi vi piace l’idea di dedicarvi alla natura, e di usarla come spunto o addirittura come un vero e proprio programma per la vostra musica, considerate che ora il vostro ego può esprimersi anche in quella direzione, e con generosità. Bando alla natura come paesaggio da imitare, come orizzonte universale per tutta l’umanità (Beethoven lo avrebbe concepito così, per capirci), ora la natura è un luogo intimo, di appartenenza. È la propria natura. Ascoltate La Moldava dal ciclo di poemi sinfonici La mia patria di Smetana. Non si tratta più di evocare un fiume in astratto, ma quel fiume, che attraversa quei luoghi, circondato da possibili canti e balli di quel popolo – nello specifico, quello Boemo. Una volta di più, da bravi compositori romantici fingerete di occuparvi d’altro, ma starete dando lustro al vostro io.
Non possiede una definizione stilistica unitaria (barocca, classica, romantica…) e non potrebbe averne una. Nel Novecento, infatti, si è assistito a una proliferazione dei linguaggi musicali, che ha accompagnato la velocità e l’effervescenza del secolo breve. Si potrebbe quasi affermare che ogni compositore abbia seguito un percorso personale: ci sono state influenze, commistioni, ci sono stati naturalmente degli epigoni; ma non si è venuta a creare una koiné, un linguaggio comune, e ciascuno ha tracciato il proprio sentiero in modo autonomo. Se si accostano le Bachianas brasileiras di Villa-Lobos e le Variazioni per orchestra di Webern – nate negli stessi anni – si può avere l’impressione che i due pezzi siano stati scritti a distanza di secoli. E, allo stesso modo, i Klavierstücke di Stockhausen non hanno nulla in comune con In C di Terry Riley, Le Marteau sans maître di Boulez pare nato su un pianeta diverso rispetto a quello sul quale John Cage ha composto Sonatas and Interludes, sarebbe difficile mettere in relazione Ionisation di Varèse con Adiós Nonino di Piazzolla, le Danze popolari rumene di Bartók con Lux Aeterna di Ligeti, il Bolero di Ravel con The Unanswered Question di Ives, Un americano a Parigi di Gershwin con i Trois morceaux en forme de poire di Satie. E così via.
Che insegnamenti si possono dunque trarre da un panorama così variegato? Be’, il primo, quasi tautologico, è una lezione di tolleranza, di apertura mentale: osservando il Novecento senza paraocchi ci si accorge che lì la storia della musica ha smesso di procedere in modo rettilineo, come tutto sommato aveva sempre fatto; e si scopre che nel secolo scorso il mondo si è posto in ascolto di modalità diverse, spesso molto contrastanti, per inventare musica. Certo, fazioni estetiche opposte si sono combattute, aspramente: quella seriale contro la postmoderna, la spettrale contro la neotonale, l’elettronica contro la minimalista, e così via. Ma oggi per fortuna le partigianerie si sono dissolte, e i loro reduci difendono fortini dei quali ormai non importa più nulla a nessuno.
Il secondo insegnamento è che, seppure in questo marasma, alcune figure sono state capaci di svettare e ancora oggi regalano grani di saggezza a chi vuole provare a seguirne le orme.
Prendete ad esempio Stravinskij, il dominatore assoluto del Novecento. Da lui dovete assorbire una lezione fondamentale: la procedura di elaborazione del materiale musicale, la creazione di relazioni tra gli elementi, la fantasia, l’immaginazione, la maestria con le quali da una manciata di note si ricava un’intera partitura sono più importanti del materiale in sé. Ci si può ritenere fortunati se si azzecca un bel tema, se il cielo ci suggerisce una successione ritmica efficace, se si intuisce un impasto timbrico sorprendente con il quale attaccare un pezzo; ma non è quello ciò che conta. Indipendentemente dagli elementi di partenza – melodie popolari russe autentiche o ricreate, come in Petruška, ne L’uccello di fuoco o ne Le sacre du printemps, piuttosto che frammenti da brani di Pergolesi come in Pulcinella o cellule tematiche rubate al Concerto brandeburghese n. 3 di Bach come nel Concerto «Dumbarton Oaks» – quello che segnerà il carattere di un brano, che stregherà l’ascoltatore, che vi farà osannare dalle platee di tutto il mondo sarà il modo nel quale saprete usare i vostri mattoni. E, poiché non adopererete più la logica prevedibile, condivisa, rodata che aveva dato forma alla musica romantica ma sarete voi stessi a crearne una nuova di zecca, vi troverete a essere nello stesso tempo gli iniziatori di qualcosa di nuovo e i più abili utilizzatori della tecnica appena inventata. Migrando dal suo periodo russo a quello neoclassico e poi avanti sino alle sue esperienze dodecafoniche, e dunque procedendo a virate stilistiche prepotenti, Stravinskij è infatti rimasto sé stesso, componendo musica sempre perfettamente riconoscibile, e meravigliosa. Avete incrociato alcuni dei suoi brani nelle pagine precedenti. Altri, molti altri, sono quelli che potete avvicinare. Ma vedrete che sempre, in ogni pagina, riuscirete a trovare la firma stilistica dell’autore. Un genio.
Il secondo collega al quale guardare con attenzione è Debussy. Il protagonista di una rivoluzione meno appariscente ma altrettanto profonda. Anziché far saltare il tavolo con un atteggiamento rivoluzionario, con ritmi sghembi, con orchestrazioni feroci, come ha fatto Stravinskij negli anni Dieci, lui ha garbatamente sabotato le strutture della tradizione, permettendo al pubblico di riconoscere l’involucro dei brani, le forme, l’aspetto per così dire esteriore di una partitura, con armonie e ritmi tutto sommato consueti, rassicuranti; ma nel contempo ha inventato frasi che miravano alla sospensione anziché all’affermazione, ha ideato un modo di orchestrare che è diventato l’essenza della musica più che il suo colore, ha messo in sequenza accordi seguendo una logica costruttiva che non si era mai ascoltata sino ad allora. Si tratti di apprendere da La mer, dove stravolge l’idea di comporre una sinfonia nascondendosi dietro il pretesto di inseguire le impressioni di un paesaggio naturale; oppure di trarre una lezione dai Préludes, dove usa il pianoforte per alludere a soggetti evanescenti e in questo modo scardina i canoni del pianismo della tradizione, Debussy vi insegnerà l’arte di ricombinare ingredienti noti, espandendo poi le possibilità della cucina europea con l’uso di spezie orientali – si è ispirato al gamelan giavanese, a scale che provenivano dall’Est – e giungendo a esiti di straordinaria novità, e raffinatezza, senza spaventare il pubblico.
Infine c’è Schönberg. Che, dopo aver cominciato scrivendo fantastica musica tardo-romantica (il capolavoro è Verklärte Nacht), ha attraversato un periodo atonale per poi codificare una grammatica completamente nuova con la quale organizzare i suoni, la dodecafonia. Si tratta di una tecnica che, dopo qualche decennio di successo teorico (ma mai accettata dal pubblico delle sale da concerto), è sostanzialmente scomparsa; ma è servita come sponda concettuale per generazioni di compositori che l’hanno vista come il grimaldello più potente per scardinare la logica, le abitudini, l’espressività ereditate dall’Ottocento. Da lui, più che il metodo dodecafonico – rivelatosi un fallimento – dovete apprendere il rigore, la lucidità teorica, il desiderio di spingere note e pause a combinarsi in modo nuovo, sorprendente, inaudito. A me piace vedere in Schönberg una personificazione dello «stay hungry, stay foolish» predicato da Steve Jobs; certo, la strada che ha imboccato è stata disastrosa, ma il modo in cui ha tenuto fede al proprio progetto, la sua follia, la sua fame di novità, sono una lezione non indifferente.
Non esiste ancora. Tocca a voi inventarla. Ma il foglio che avete davanti, se lo osservate bene, non è davvero bianco. Dietro, in filigrana, vi si legge la storia della musica – non siete uomini primitivi e non ricominciate ogni volta da capo, come i protagonisti delle vecchie avanguardie novecentesche suggerivano quando predicavano di rompere tutti i ponti con il passato. E, di fianco, oltre i margini, abitano le musiche che i vostri colleghi vanno componendo in questi anni, e che è bene conoscere – vi immaginate un regista che non va mai al cinema? Un romanziere che non frequenta librerie? Annoto dunque qui alcuni brani che si possono usare come icone, come riferimenti di atteggiamenti compositivi oggi diffusi tra gli autori più giovani, magari utili per stimolare la vostra creatività. Beninteso: esistono altre direzioni verso le quali orientarsi. Ma non mi piacciono. Non mi emozionano, non mi stimolano intellettualmente, non le consiglierei ai miei figli. Dunque, abbiate pazienza, qui devo chiedervi di fidarvi di me.
Una prima tendenza oggi diffusa è quella che consiste nel creare un paesaggio sonoro, uno sfondo, un pedale, qualcosa al quale aggrapparsi, per poi appoggiarvi sopra una melodia. Cioè riprodurre, in fondo, la situazione musicale che costituiva la norma sino a quando nel Novecento si è pensato di tagliare tutti i ponti. Un pezzo come Tenebre di Bryce Dessner (*1976) vi può dare un’idea del procedimento.
Un’altra prevede di creare partiture che gareggino con la forza della musica di consumo, normalmente più aggressiva e potente di quella classica. Lo si fa inventando figure molto riconoscibili e sviluppando il discorso musicale con una attenzione costante a non far calare la tensione ritmica. Un po’ come accadeva con la musica barocca, dove il tempo musicale era costantemente riempito di note. Motion di Nico Muhly (*1981) ve lo fa capire con chiarezza.
Una terza tendenza è quella dei compositori che usano impasti timbrici e suoni sorprendenti all’interno di un contesto, invece, riconoscibile – come faceva Mahler, in fondo, quando riuniva materiali forti, inattesi, eterogenei, da far brillare in una sorta di esplosione controllata. Starlights, poema sinfonico sulla vita di una stella di Alberto Colla è un esempio perfetto: ascoltandolo si viene travolti da una sbalorditiva energia, ma non si prova mai un senso di abbandono, di smarrimento perché ci sono sempre riferimenti armonici e quadrature ritmiche che rimandano alla storia, alla nostra esperienza di ascoltatori, e così si raggiunge un bellissimo equilibrio tra noto e ignoto.
Un’altra possibilità, che trova casa tra le tecniche di contrappunto barocche e il minimalismo nordamericano, consiste nel giocare con frammenti musicali ridotti, da sovrapporre tra loro, senza dare vita a una figura estesa, riconoscibile. Non troverete mai un vero tema, qualcosa che si stagli gerarchicamente sopra il resto; ciò che vi accoglierà sarà invece un dolce sobbollire del tutto, come in Within Her Arms di Anna Clyne (*1980).
Si può poi decidere di lasciarsi influenzare dalle colonne sonore dei film di fantascienza, come fa Guillaume Connesson (*1970) in molta della sua musica. Se ascoltate The Shining One capite quanto lui prenda sul serio il sound tipico del filone, le successioni armoniche che ormai per noi rimandano a spazio e astronavi, e le pieghi a diventare perfetto materiale da costruzione per dare vita, come in questo caso, a un Concerto per pianoforte e orchestra.
I più coraggiosi – perché per riuscirci bisogna essere bravissimi – possono avventurarsi sul terreno dissodato da Olli Mustonen (*1967), che inventa liberamente, in modo apparentemente ingenuo, senza paura di usare temi riconoscibili, impasti timbrici ereditati dal passato oppure successioni armoniche molto semplici, magari vicine al pop, o cadenze di matrice popolare. Fatto da uno qualunque, sortirebbe esiti infelici; lui è un grande musicista e, come potete ascoltare nella Sonata (sic!) per violoncello e orchestra, fa nascere musica splendida.
C’è poi l’esempio di Tõnu Kõrvits (*1969), un compositore il cui stile è stato giustamente definito «impressionismo magico». Riesce a riallacciare il filo con il passato, senza banalmente citarlo, grazie a una voce autonoma, molto forte, che punta tutto sulla scrittura per coro e sa affascinare platee molto vaste. Regalatevi l’ascolto delle sue Moorland Elegies: mi ringrazierete.