Mi svegliai di colpo: un coro di voci mi chiamava da fuori, dal marciapiede: «Helga! Helga!».
Mi levai dal giaciglio ma subito mi si annebbiò la vista. Attesi che passasse, poi mi liberai dei sacchi; ero letteralmente coperta di carbone. Avevo le braccia graffiate dalle spine del cespuglio ed ero sfinita dalla fame.
Attraverso le prese d’aria penetrò un velo di luce zebrata, mentre il carbone luccicava debolmente. Ormai quel luogo aveva perduto la sua atmosfera sinistra ed era solo un deposito di carbone.
Urinai in un angolo e, ancora accosciata, scorsi un rubinetto sopra un lavabo di zinco che la sera precedente era sfuggito alla mia attenzione. Tentai di far scorrere l’acqua, ma il getto era così debole che a fatica riuscii a raccogliere qualche goccia nell’incavo delle mani. Infine abbandonai il deposito e percorsi in fretta il corridoio fino alla scala. Tesi l’orecchio ma le voci si erano allontanate. Allora salii i gradini, aprii piano la porta e non vedendo nessuno sgusciai nell’androne.
Ma lì era troppo freddo, così mi infilai subito nel cortile. La luce obliqua del primo mattino non mi scaldava ma mi consolava. Sui vialetti si stava sciogliendo la brina.
Era stata una notte senza alcun allarme; seppi poi che il nemico aveva rispettato un suo giorno di festa.
Cominciai a vagare per i vialetti lottando contro un terribile senso di fame. Nel cielo si stendeva un’unica nube lunga e granulosa, simile a un banco di pietra pomice. Ero come ubriaca per la debolezza, avrei mangiato perfino la corteccia di un albero.
A quel punto desideravo che qualcuno mi scoprisse, e infatti a un tratto spuntò da non so dove un gruppo di donne che mi corsero incontro agitate. «Eccoti! Grazie al cielo sei viva! Ma che cosa ti era successo?». Una di loro mi disse: «Tua madre ti sta cercando da ieri».
«Non è mia madre» risposi, cupa.
«In ogni modo, ora ti riportiamo a casa» disse la donna con decisione, e in quell’istante arrivò la matrigna urlando: «Eccoti, si può sapere dove ti eri cacciata? Da ieri tutto il vicinato ti sta cercando; che cosa volevi dimostrare? Nessuno di noi ha dormito, te ne rendi conto? E ora vieni a casa che facciamo un lungo discorso!». Ringraziò le altre e mi trascinò via continuando a rimproverarmi. Una volta salite nel nostro appartamento, constatai che era arrivata anche Hilde, la sorella della matrigna. Da quando vivevamo nella Friedrichsruher Strasse l’avevo vista sì e no due volte. Aveva sei anni più della matrigna e lavorava al ministero della Propaganda. Peter mi gettò uno sguardo spaventato e si nascose dietro una porta. Dovevo avere un aspetto davvero orribile!
Ursula mi spinse su una sedia e con energia teutonica mi ordinò: «Ora tu mi racconti tutto per filo e per segno! Dove sei stata? Dove hai dormito stanotte? Stavo per avvertire la polizia! Parla, maledizione!». Aveva due macchie piccole, rosse, circoscritte, in cima agli zigomi.
«Ho fame» fu l’unica cosa che riuscii a pronunciare. Dei crampi mi attanagliavano lo stomaco paralizzandomi la mente. «Anch’io ho fame!» strillò Peter, e riapparve da dietro la porta. Ma la matrigna lo liquidò con insolita rudezza: «Tu hai già mangiato, giovanotto!». Peter storse il muso e la fissò incredulo.
«Forse è meglio che tu le dia da mangiare» suggerì Hilde con voce ferma.
«Niente affatto!» esclamò la matrigna «prima deve parlare, questa carogna!». E batté il pugno sul tavolo. Ma io non connettevo. Vedevo tutto doppio per la debolezza: Peter aveva quattro occhi, Hilde due nasi. Allora la matrigna si convinse e mi diede la solita brodaglia che sembrava latte e che non era stata nemmeno riscaldata, aggiungendovi una fetta quasi trasparente di pane umido.
Mangiai avidamente sotto gli occhi attoniti degli astanti. Mentre stavo ancora masticando, la matrigna si lamentò con la sorella: «Non ce la faccio più, Hilde, devi credermi! Questa bambina mi farà morire!».
«Perché non la fai analizzare?» domandò Hilde con freddo pragmatismo. «Conosco un’équipe specializzata in psicologia infantile. Perché non li consulti? È probabile che la bambina abbia dei problemi, può darsi che abbia bisogno di cure».
«Forse hai ragione,» convenne la matrigna «potresti contattarli per conto mio?». Hilde promise di farlo.
Alcuni giorni dopo infatti la matrigna mi condusse in un edificio dove c’era una grande stanza con tante finestre da cui si vedeva un boschetto di abeti. Due medici, un uomo e una donna, mi posero una notevole quantità di domande e alla fine mi chiesero di fare dei disegni. Trovai il tutto abbastanza divertente. Meno divertente fu ciò che in seguito mi disse la matrigna. Mi informò del fatto che gli psicologi mi avevano riscontrato una «malattia» e che avrei dovuto trascorrere un certo periodo di tempo in un istituto dove sarei stata curata. Non seppi mai di quale malattia si trattasse, ma in quell’istituto la matrigna mi ci portò pochi giorni dopo. Una mattina di buon’ora preparò una valigetta con le mie cose, affidò Peter a Frau Gerlinde, mi diede una pasta di semolino, cosa che mi allarmò, e dichiarò: «Oggi ti porto all’istituto». Mi misi a piangere, ma lei rimase impassibile.
Era una giornata nebbiosa ed ero stanca. Avevamo subìto un’incursione notturna ed eravamo dovuti correre in cantina, per cui avevo dormito poco. Ero depressa e intimorita. La matrigna mi stava dimostrando di essere in posizione di forza: lei poteva liberarsi di me mandandomi in un istituto, mentre io non avrei potuto fare altrettanto. Stavamo attraversando la piazzetta acciottolata della stazione di Steglitz, quando improvvisamente suonò l’allarme. Corremmo verso il più vicino rifugio antiaereo, ma in un primo momento non ci fu permesso di entrare. Allora la matrigna si mise a urlare minacciando di segnalare l’episodio alla Polizia di stato; così ci fecero passare.
Terminato l’attacco e abbandonato il rifugio riuscimmo a prendere un treno che, comunque, si fermò due volte a causa di falsi allarmi.
Nella nostra carrozza si era installato un gruppo di ragazzi della Gioventù hitleriana che, nonostante la pesante incursione appena terminata, cantavano a squarciagola: «Sulla landa fiorisce un piccolo fiore che si chiama Erika!». Erano chiassosi ed euforici e diffondevano un’allegria poco verosimile.
Scendemmo in un quartiere vistosamente danneggiato dalle bombe e, dopo una marcia di circa un quarto d’ora, arrivammo di fronte a un nero portone incastrato in un grosso muro di pietre, sopra il quale correva del filo spinato. Una donna in uniforme dall’espressione minacciosa ringhiò: «Documenti!», quindi ci fece entrare in un nebbioso cortile nel quale echeggiava il furioso abbaiare di un’orda di cani da guardia.
Attraverso la nebbia intravedemmo un grande edificio dall’aria ostile; piccole finestre si nascondevano dietro inferriate nere, il camino non emetteva fumo. Proprio come quello che avevo disegnato qualche giorno prima per gli psicologi.
Ci fermammo di fronte a un portone munito di vistosi spioncini di vetro. Un campanello risuonò, stridulo, all’interno; qualcuno ci spiò a lungo. Nel frattempo cominciò a piovere. In un attimo ci bagnammo fino alle ossa; il mio cappottino di panno marrone divenne uno straccio, i capelli della matrigna pettinati all’insù subirono un crollo spaventoso, cadendole sul volto come una piramide sgretolata. Finalmente ci fecero entrare.
La matrigna domandò informazioni a una donna che stava rintanata in un gabbiotto come un gufo incattivito. Due occhi gelidi ci scrutavano. «Primo piano, prego!» grugnì infine la donna, seccata «secondo corridoio a destra, stanza quattro! Heil Hitler!».
Lasciammo l’atrio, sul cui parquet lucidato rimasero le chiazze bagnate lasciate dai nostri cappotti sgocciolanti, e cominciammo a salire. Era una scala dai gradini lisci, per cui non avevo ancora posato il piede sul terzo scalino che scivolai battendo malamente la spalla. Emisi un grido, il gufo cacciò la testa fuori dal gabbiotto, e provai un forte senso di nausea, potenziato dall’odore di cavolo che gravava nell’aria come una nube tossica. La matrigna soffiò, stizzita: «Perché non guardi dove metti i piedi?».
Trovammo la saletta indicata dal gufo, dove alcune donne tenevano a bada dei bambini con palesi menomazioni: una piccola cieca, un ragazzino che gesticolava sconnessamente con la bava alla bocca, due fanciulli subnormali e una ragazzetta su una sedia a rotelle. Non capivo.
Aspettammo a lungo nel gelo della sala; finalmente ci ricevette una donna anziana e ossuta dai capelli bianchissimi raccolti in un severo chignon. La donna esaminò con attenzione i fogli che le aveva consegnato la matrigna e infine, dopo avermi fissata intensamente attraverso i suoi occhiali a stringinaso, osservò con fare sbrigativo: «Non credo che questo sia il luogo adatto per il problema di sua figlia, signora». La matrigna si innervosì visibilmente, tanto che la sua voce si fece stridula mentre spiegava come fosse stata proprio l’insigne équipe di psicologi che mi aveva esaminata a raccomandarle caldamente quell’istituto. Poi abbassò la voce e aggiunse qualcosa che non riuscii a capire. L’altra ricominciò a consultare i fogli, rifletté, si pulì a lungo gli occhiali e concluse con tono secco: «D’accordo, signora, voglio fare un’eccezione e accetterò la sua bambina».
La matrigna emise un sospiro di sollievo, per il quale io la odiai, e fece per afferrare, fremente di gratitudine, la mano dell’altra, ma questa si sottrasse con un movimento brusco, girò intorno alla scrivania, mi posò una mano fredda e secca sul capo e disse: «Ora devi salutare tua madre, Helga, si è fatto tardi e fuori mi aspetta altra gente». Ma io voltai le spalle alla matrigna per non darle la soddisfazione di vedere le mie lacrime risentite.