Berlino, dicembre 1944
La Lothar-Bucher-Strasse è completamente deserta. Un anemico sole invernale sfiora un lungo fronte di rovine. Sulla strada e sui marciapiedi crateri di ogni dimensione. E cumuli di macerie ovunque, resti di muri anneriti, facciate le cui finestre sembrano occhi accecati. L’aria è gelida e fa scricchiolare le ossa.
Opa ha un cappotto di lana di una buona qualità anteguerra. Il cappotto è sgualcito perché senza l’elettricità non si può stirare, e con i vestiti stropicciati l’eleganza si dilegua.
La matrigna ha un fazzoletto montato a turbante per nascondere i capelli sporchi; senza acqua non c’è igiene, e senza igiene non c’è dignità che tenga.
Peter è in braghette da ometto e giaccone imbottito. Giaccone chiaro, faccia scura: senza la matrigna non vuole più andare nel bunker.
«Un vero tedesco dimostra in ogni occasione il suo coraggio,» dice la matrigna «di che hai paura?».
«Vieni anche tu» brontola Peter, col labbro inferiore stizzito.
«Ti ho spiegato almeno un migliaio di volte perché non posso venire» risponde la matrigna, col turbante leggermente storto.
Io invece indosso un abituccio di velluto pesante che odio, scarpe di cuoio con lacci e calze di lana che odio. Il cappottino è troppo piccolo, sotto un viso da topo affamato e con capelli ribelli tagliati alla paggio da una matrigna che odio.
Stiamo andando nel bunker della Cancelleria ma io non voglio. Ci saranno però le salsicce di fegato, ci hanno detto, e incontreremo il Führer. E come si può non essere felici avendo la fortuna di poter soggiornare nientemeno che nel grande bunker della Cancelleria del Reich, una città sotterranea dove lavorano e vivono centinaia di persone del seguito di Hitler, dove ci sono gli uffici, le cucine, la lavanderia, l’infermeria, i dormitori e lo spazio riservato agli «ospiti speciali del Führer», tra cui ci saremo anche noi?! È un privilegio, così dicono. È un’occasione unica alla quale non possiamo rinunciare, ripetono.
La matrigna rammenta ancora una volta al piccolo tedesco: «Ti daranno il pane fresco e le salsicce di fegato!», ma Peter fa spallucce.
«Vi daranno il dentifricio,» aggiunge Opa «pensa come sarà divertente lavarsi i denti col dentifricio».
«Preferisco le salsicce!» strilla Peter.
«E poi, con voi ci sarà sempre Marianne,» si affanna a rassicurarlo la matrigna nei suoi strenui tentativi di convincimento «è un’amica di Hilde, si prenderà cura di voi. Vedrai, ti piacerà».
«No!» insiste Peter, e assesta un calcio a una scheggia di vetro che fila in una buca. Ma in quel momento il muso del bus gira l’angolo. Avanza con circospezione, di soppiatto. È mimetizzato, è un bus che si finge carro armato, un bus che gioca alla guerra. Il grosso bestione si ferma sterzando davanti a un cratere. Fuma. Rumoreggia. Occhi curiosi ci osservano dai finestrini. Altri «ospiti speciali del Führer», altri privilegiati. Peter indirizza loro ampie boccacce.
Scende una giovane donna con treccia alla Gretel e saluta con fare spiccio Opa e la matrigna. Deve essere Marianne, l’amica d’infanzia di Hilde; dura, appariscente bellezza germanica.
«Peter non vuole più andare nel bunker» dichiara la matrigna, e getta uno sguardo di rimprovero al piccolo mostro ingrato che lancia occhiatacce. «Ma che sciocchezze!» esclama la giovane, che solleva Peter come un pacco postale e lo sistema nel bus, malgrado le sue sgambettanti rimostranze. Ridiscende e mi consiglia: «Sali anche tu, così quel terremoto si calma». Mi piace la rudezza sbrigativa di Marianne, così dico in fretta «Arrivederci!» e faccio un gesto di saluto a Opa. «Tieni duro!» mi incoraggia lui con lo sguardo commosso, mentre cerca di darsi un contegno nel cappotto sgualcito. Poi corro verso il bus e mi arrampico sugli alti gradini fingendo leggiadra energia dinanzi a Gretel-Marianne avvolta in un cappotto militare che le conferisce un fascino autorevole. Raggiungo Peter che scalcia contro il sedile, poi appanna il vetro e disegna qualcosa che sembra una bomba. Infine sale anche Marianne, che invita Peter a salutare Opa e la matrigna attraverso il finestrino, ma lui abbassa il mento sullo sterno e dice di no col capo. Io invece mi sbraccio in un ultimo saluto e si parte.
La vettura geme – stridio di ruote su detriti, schegge di vetri, mattoni e calcinacci –, prosegue a scossoni sull’asfalto squassato, crepato, ferito. Giriamo l’angolo. Altre rovine e grigie, tristi, gessose macerie; sul breve viottolo tra due file di siepi di bosso giacciono dei cadaveri allineati come sardine, due dei quali senza testa. Dallo stomaco mi sale qualcosa di amaro, una specie di singulto acido, e deglutisco per reprimere un conato di vomito.
Peter continua a protestare attirando l’attenzione degli altri bambini che lo fissano; lui fa marameo. Per fortuna, dopo un ultimo «e io non ci vengo», si addormenta contro la mia spalla. Marianne dice all’autista: «Siamo al completo, Herr Klug, possiamo filare dritto alla Cancelleria».
Ricomincio a sbirciare fuori dal finestrino. Dopo la vista dei cadaveri non vorrei più guardare, ma quel funesto spettacolo mi attira come una calamita. Per settimane non ci siamo mossi dalla Lothar-Bucher-Strasse, abitazione e rifugio, in una folle girandola di allarmi e cessati allarmi, di terrore e cessato terrore, così sento una necessità urgente e irreprimibile di capire che cosa sia successo altrove nel frattempo, ma ciò che vedo mi atterrisce. Ovunque giri lo sguardo, mi imbatto in tetri ruderi e cumuli di macerie senza fine. Poco dopo percorriamo un’intera strada in fiamme, mentre il cielo si è tinto di viola. Il bus si sposta bruscamente sulla sinistra e striscia lungo le traversine del tram per evitare che ci cadano addosso le facciate roventi delle case. La vettura si riempie di fumo e di un odore di incendio che secca la gola; fuori pioviggina cenere.
Proseguiamo. Nel bus sta crescendo l’agitazione.
Dappertutto si vedono rottami, tram rovesciati e crivellati come colabrodo; un magro cavallo tira un carretto carico di cadaveri.
Cadaveri, cadaveri, macerie ed edifici in fiamme: sembra che non ci sia nient’altro in questa città; nel bus pieno di bambini che si agitano e strillano di paura mi viene il fiato grosso dall’angoscia. Due di loro hanno accanto le madri, le quali però si preoccupano di tranquillizzare solo le proprie creature; il resto tocca a Marianne. Nel gran trambusto Peter si è svegliato e, guardandosi intorno attonito, decide di cercare rifugio dal suo disorientamento nel bavero del mio cappotto bisbigliando: «Io non ci vengo, voglio tornare a casa...».
Stringo con un braccio le magre spalle di mio fratello e continuo a sbirciare fuori dal finestrino come ipnotizzata. In che mondo vivo? E che fine ha fatto quella città di cui Opa ogni tanto si compiace di decantare le passate meraviglie? Era una città splendida, viva, con milioni di abitanti che lavoravano, producevano e si organizzavano la vita con quella perfezione di cui sono capaci i tedeschi. Una città ricca con strade sempre illuminate a giorno, vetrine fastose e gente elegante che passeggiava per il Kurfürstendamm o Unter den Linden. Gente che affollava i ristoranti, i caffè, i cinematografi, i teatri e le sale da concerto. Gente che strepitava dentro al Palazzo Titania assistendo ai tanti avvenimenti sportivi. Gente che amava, che si sposava, aveva dei figli e li cresceva con sani princìpi. Una città moderna, dotata di un’efficiente sotterranea e di un’altrettanto funzionale sopraelevata. Che cosa è successo per trasformare tutto in un immenso cimitero a cielo aperto?
Vicino alla Porta di Brandeburgo ci imbattiamo in un posto di blocco. Un gruppo di SS agita le palette. L’autista sbuffa: «Merda!». Herr Klug è anziano e indossa un’uniforme logora, con toppe di pelle cucite ai gomiti. La sua nuca è bianca con la sfumatura alta e le esili spalle si curvano, stanche, sul grosso volante. Una SS si avvicina alla portiera, la spalanca bruscamente, si introduce nella vettura e grida: «Heil Hitler! Prego, documenti e lasciapassare!». Marianne non si scompone. Si alza con calma e gli porge un plico. La SS lo esamina minuziosamente. È un uomo molto giovane dagli occhi così chiari che sembrano di ghiaccio. È un ragazzone alto che tocca con la testa il tetto del bus, fasciato dall’uniforme come se gli fosse stata cucita addosso. Nel bus è calato un preoccupato silenzio.
Peter alza la testa, fissa la SS, mormora: «Io non ci vengo», e si rifugia di nuovo contro il mio bavero.
La SS è soddisfatta. Grida: «Tutto a posto!», grida «Heil Hitler!» e salta giù dalla vettura. «Maledetti!» sbotta Herr Klug.
«Per favore, tenga a freno la lingua!» lo riprende Marianne.
«Tenga a freno ’sti coglioni» ringhia l’autista, e rimette in moto.
Il bus riparte verso la Porta di Brandeburgo, che si staglia contro un cielo squamoso il cui innocente azzurro è stato sopraffatto dal rosso scarlatto degli incendi. Dopo pochi minuti ci fermiamo di nuovo: siamo arrivati.
Tutti sbirciamo fuori, curiosi di vedere la famosa Cancelleria del Reich, ma davanti a me non compare nulla che soddisfi le mie aspettative.
La vettura sputa ondate di fumo che si arrampicano sino ai finestrini; due sentinelle ci ignorano. Sono ragazzi alti e biondi, di pura razza ariana come li vuole il Führer.
Marianne scende dopo aver ordinato il silenzio e sparisce verso un grande portone; anche Herr Klug scende per sgranchirsi le gambe. Lo vedo agitare le braccia intorno alle spalle per riscaldarsi; la sua bocca emette sbuffi di vapore. Quando rientra, lo assediamo: «Ma dov’è la Cancelleria del Reich?».
Lui punta i gomiti sul volante e indica col mento un palazzo in rovina: «Eccola, ma è quella vecchia. Per il Führer era troppo piccola».
Ciò che si vede non è che un rudere, il cui aspetto tetro e offeso si conforma perfettamente al resto della città bombardata. Peter mormora, deluso: «Io là non ci voglio venire!», e si mette a strillare. «Silenzio!» grida una delle madri. «Sei indisciplinato, ragazzo mio!». Al che Peter strilla più forte.
Della vecchia Cancelleria imperiale è rimasto in piedi solo il frontale, che appare gravemente danneggiato. Davanti alla facciata e su quelle che un tempo erano aiuole si estende un cumulo di macerie su cui i passeri beccano solerti. Sono delusa.
Ciò che invece è rimasto in piedi è l’imponente sagoma della nuova Cancelleria, con le massicce colonne quadrate e il balconcino dal quale il Führer amava affacciarsi per salutare la folla che lo acclamava gridando «Sieg Heil!».
Marianne torna sventolando i documenti e facendo capire che sono in regola. Caccia la testa dentro la vettura e dice: «Coraggio, tutti fuori e di corsa nel bunker!». Ci elettrizziamo. Agguanto la mano di Peter, scendiamo dal bus, seguiamo Marianne e assistiamo, stupefatti, allo spettacolo di un immenso portello di ferro che si alza lentamente per poi inghiottirci. «Io là dentro non ci vengo» dichiara Peter, che ha deposto ogni coraggio da vero bambino tedesco e mi dà un calcio al piede.
Stringo più forte la sua mano ribelle e, mentre cominciamo a scendere i gradini di cemento, ci investe un’ondata di aria calda.
Ai piedi della scala si apre un corridoio dal pavimento lucido; l’illuminazione è fredda, e alcune SS stanno appoggiate contro i muri in cemento armato oppure sedute per terra con il mitra in braccio. Proseguiamo per altri corridoi.
Tubature per il riscaldamento, il ronzio dei ventilatori. Voci indistinte giungono da tutte le direzioni, si sentono dei rumori attutiti che non riusciamo a identificare, si vedono porte d’acciaio. Mi sembra di essere in un labirinto.
Alla fine ci arrestiamo dinanzi a un posto di blocco, dove staziona un gruppo di donne SS; sono bionde e si somigliano tutte. Marianne deve firmare un registro, scambia due parole con una ragazza con la faccia da Gretel, ed entrambe fanno alcune battute in dialetto berlinese; poi proseguiamo. Mi sento frastornata.
Da più parti squillano dei telefoni; ho un lieve senso di panico, un piccolo attacco di claustrofobia che però passa subito. Peter ha rinunciato a scalciare e si guarda intorno con occhi sbarrati. Giungiamo in una sorta di saletta d’attesa; Hitler ci fissa da un immenso ritratto: baffetti accuratamente tagliati, sguardo pungente, sembra che voglia ipnotizzarci. Goebbels, sull’altra parete, ha un’espressione ufficiale – è lui il responsabile delle missioni speciali di Hilde –; siamo circondati da grandi croci uncinate.
Ci raggiunge un’altra donna SS, grida «Heil Hitler!», noi rispondiamo «Heil Hitler!». Poi chiede a Marianne: «Il tragitto si è svolto senza incidenti?». Lei risponde: «Come l’olio!». «Venite con me» ci esorta la SS.
Ci conduce in una camerata piena di letti a castello e armadietti di ferro, e ci ordina: «Sistemate le vostre cose, prego!».
Ripongo pigiama e camicia da notte in un cassetto dell’armadietto, e sistemo lo spazzolino da denti che non ho più usato dai tempi del collegio di Eden. Opa ha detto che ci daranno il dentifricio. Sono curiosa di sapere che cosa ne farà Peter: lui non sa nemmeno che cosa sia; in tutta Berlino non se ne trova più un solo tubetto.
«Lavarsi le mani!». Il nuovo ordine giunge secco, militaresco, così ci spostiamo in una stanza da bagno con tanti lavandini; sembriamo un gregge di pecore stordite. Per fortuna Marianne ci è sempre accanto, rimanendo il nostro punto fermo. Appena porgono a Peter il tubetto del dentifricio, lui lo schiaccia nel mezzo e grida, sdegnato: «Preferisco le salsicce!».
Marianne reprime un sorriso divertito e dice: «Avrai anche quelle, ma ora lavati i denti!».
Dopo aver obbedito, pur con mille complicazioni e dopo aver tentato di mangiare il dentifricio, il mio prepotente fratellino strilla: «Voglio vedere il Führer!».
Marianne risponde, calma: «Il Führer non è qui, e tu non devi strillare».
«Dov’è?». Peter ha puntato i piccoli pugni sui fianchi: ha la faccia scura, l’occhio cattivo, un piede che pesta ritmicamente per terra, il labbro inferiore che trema irritato.
«Il Führer è al fronte, Peter».
«Ma io sono venuto per vedere il Führer!» insiste lui con voce delusa e stridula mentre dà un pugno sul lavandino. Il piccolo dispotico si finge orco.
«Lo vedrai, il Führer» lo rassicura Marianne.
«Quando?».
«Presto».
Da quel momento in poi Peter è sicuro di voler restare nel bunker.
«A tavola!» ordina qualcuno.
Ci spostiamo in una saletta da pranzo con lunghi tavoli e panche di legno; fra le travature dei muri in cemento scintilla l’umidità. Finalmente sento odore di cibo!
Ci disponiamo lungo i tavoli e cominciamo a mangiare, ad abbuffarci, a divorare tutto in fretta come se temessimo che qualcuno possa all’improvviso ordinarci di smetterla. Hitler ci osserva dall’ennesimo ritratto, guarda fettine di manzo affogate nella salsa e accompagnate da maccheroni scotti, guarda patate bollite, guarda pane nero, Apfelsaft e pere sciroppate in scatola. Mentre assaggio una pera, qualcuno grida nel corridoio: «Mille unità in volo su Berlino!».
Peter mormora, deluso: «Anche qui?».
«Tranquillo,» fa Marianne che gli siede accanto «questo bunker ha una copertura di cemento di tre metri e mezzo, nessuna bomba può torcerti nemmeno un capello».
Peter si rilassa e ricomincia a masticare. A qualcuno di noi viene da vomitare, per cui andiamo nel bagno, ci liberiamo e al ritorno chiediamo una nuova porzione di tutto.
Mentre pranziamo, sopra la nostra testa infuria l’attacco, ma il frastuono del cannoneggiamento giunge attutito e il rumore delle batterie antiaeree somiglia al brontolio di un temporale lontano.
I giorni trascorrono veloci. Dormiamo in una camerata con due file di letti a castello; dormono con noi anche le due madri, mentre Marianne è stata sistemata altrove.
Ogni mattina un medico ci visita accuratamente, controlla il nostro peso, ci somministra vitamine e medicine a seconda del caso. Appena arrivati ci hanno fatto il test per la tubercolosi. Ci mettono perfino sotto la lampada al quarzo, e due volte al giorno ci costringono a ingoiare quella roba repellente che è l’olio di fegato di merluzzo. Esiste anche una sala di ricreazione con libri per i più grandi e giochi vari per i più piccoli. Peter e Marianne giocano spesso a domino, ma io preferisco guardare.
Un giorno ci comunicano che il Führer verrà a salutarci e Peter si illumina di gioia. Sembra che gli abbiano promesso di incontrare Babbo Natale in persona!
Ci preparano con puntiglioso impegno all’incontro. Innanzitutto, in presenza del Führer non si deve parlare ad alta voce. Nel caso in cui egli ci chieda qualcosa, si deve rispondere «sì, mein Führer», oppure «no, mein Führer». Naturalmente è d’obbligo il saluto nazista.
Peter non sta più nella pelle. Vedere il Führer è il suo grande sogno. Per lui il Führer è un punto di riferimento, è il capo dei capi, il padre di tutti; per lui il Führer è Dio.
Io sono meno entusiasta. Ciò che ho sentito dire a Eden sul Führer non mi è piaciuto per nulla. Mi ha spaventata.
Arriva il fatidico giorno.
Io e Peter siamo in prima fila, entrambi molto tesi; a una bambina è venuto il mal di pancia e l’hanno allontanata. Peter salta da una gamba all’altra, ha il viso pallidissimo.
Ci troviamo in una sala oblunga, ovunque grandi croci uncinate. Lungo il muro sono disposte alcune sedie; sulla parete in fondo un ritratto di Hitler è affiancato da due grappoli di bandiere germaniche. Nella sala ristagna un caldo umido che infastidisce. Sono nervosa. Fino all’ultimo momento ci ripetono le stesse cose: parlare a bassa voce, non perdersi in chiacchiere dinanzi al Führer, fare il saluto nazista senza strillare. Aspettiamo immobili come soldatini di piombo. Nel silenzio si potrebbe sentire uno spillo che cade.
Ma ecco, sentiamo dei rumori e da una porta sulla sinistra entra un gruppo di giovani SS che si dispone lungo la parete di fronte a noi. Li segue una donna in uniforme che regge un cesto.
Nella sala c’è un silenzio assoluto, mentre il mio stomaco si contrae in uno spasmo nervoso. E finalmente arriva lui, Adolf Hitler, il Führer del Terzo Reich!
Avverto un leggero ondeggiamento tra le file mentre il Führer avanza lentamente. Tutti scattiamo sull’attenti, alziamo la mano e gridiamo «Heil Hitler!».
Abbiamo urlato troppo forte, e il viso del Führer tradisce un guizzo di fastidio.
Mentre Hitler avanza verso di noi, io lo fisso senza fiatare. Quante cose ho sentito dire su di lui, dalle più entusiastiche alle più spregevoli!
Cammina piano, le spalle lievemente curve, il passo strascicato: non posso crederci! Sarebbe questo l’uomo che ha fatto delirare le folle? Io vedo invece un vecchio dai movimenti stentati. Noto che ha un lieve tremolio alla testa e che il braccio sinistro pende inerte lungo il suo fianco come se fosse di gesso. Sono davvero incredula!
Hitler comincia a dare la mano ai primi bambini della fila, rivolgendo loro brevi domande di circostanza. Sento le loro voci, sommesse, intimorite, impacciate, che mormorano: «Sì, mein Führer. No, mein Führer». Infine tocca a me.
Il mio cuore perde un paio di colpi e arrossisco violentemente. Temo di svenire, di stramazzare ai piedi del Führer, anche se è l’ultima cosa che desidero accada.
Adolf Hitler mi tende la mano e mi fissa negli occhi. Ha uno sguardo penetrante che mi imbarazza. Nelle sue pupille c’è uno strano luccichio, come se un folletto ci ballasse dentro.
La stretta del Führer è molle e ne sono sconcertata. Sarebbe questa la mano dell’uomo che guida il destino della Germania? La mano è calda e sudaticcia come quella di un malato febbricitante. Ne ricevo un’impressione sgradevole e sono tentata di ritirare la mia, ma mi domino. Allora imprimo sul mio viso un sorriso forzato e nello stesso tempo sbircio le SS. Mi fucilerebbero se si accorgessero del mio disagio? Dinanzi al grande Führer del Reich non ci si può sentire a disagio! È un crimine! Ma loro non badano a me, continuano a tenere lo sguardo fisso sul Führer impugnando saldamente il mitra.
Adolf Hitler mi chiede: «Come ti chiami?».
«Helga» rispondo. Mi dimentico di dire «mein Führer». Segue una pausa. Ho l’impressione che Hitler cerchi qualcosa da dire, qualcosa come: «Soffrite molto per questa guerra?». Oppure: «Come va la distribuzione dei viveri in città?». Invece mi chiede: «Ti piace stare nel bunker della Cancelleria, Helga?».
«Sì!».
È una bugia. Non mi piace stare nel bunker perché soffro di claustrofobia. Mi fa sentire sepolta, rinchiusa in una bara. L’unica cosa che riesce a compensare il mio senso di prigionia è il cibo che arriva regolarmente, ma per il resto quasi preferisco la cantina della Lothar-Bucher-Strasse benché la detesti. Lancio nuovamente uno sguardo alle SS: hanno capito che ho mentito al Führer? Sì, lo so, un «ospite speciale del Führer» ha il dovere di sentirsi bene nel bunker, ha l’obbligo della gratitudine. Ma ancora una volta loro mi ignorano, e io provo sollievo. Allora alzo gli occhi e fisso il copricapo di Hitler con l’aquila e la croce uncinata, poi il mio sguardo scivola su un volto dal colorito grigiastro, che somiglia davvero poco a quello dei tanti ritratti appesi nel bunker. La faccia che ho davanti è sciupata. Intorno agli occhi si spiega un fitto ventaglio di rughe e la pelle delle guance è floscia. Solo i baffetti ben tagliati mantengono un barlume di consistenza fra quei lineamenti sfatti.
Quando la mano di Hitler si ritira dalla mia provo un senso di rilassamento. Lui allunga il braccio verso il cesto, estrae una barretta di marzapane e me la porge. È finita. Il Führer passa oltre e tocca a mio fratello.
«Come ti chiami?».
«Peter!» risponde lui. Troppo forte, noto con ansia.
«Come va, Peter?».
Peter emette un interminabile sospiro, infine grida, estasiato, spontaneo, irruente: «Io sto bene, Herr Hitler! Che bella fibbia, Herr Hitler!».
Non è possibile, mi sembra di essere in un incubo! Annientata, volto lo sguardo e vedo il dito impudente di Peter sfiorare la fibbia del cinturone del Führer! Credo di morire. Che cosa succederà? Le SS gli spareranno un colpo nel piccolo cuore? Getto uno sguardo ansioso alle SS e noto con sollievo che una di loro maschera un sorriso divertito. Allora mi tranquillizzo. Poi sento la voce del Führer che risponde: «Quando sarai grande, giovanotto, anche tu potrai avere una fibbia come la mia». Segue il rito del marzapane, poi il Führer passa oltre. Terminata la prima fila, pronuncia qualcosa come «buona fortuna a tutti»; strilliamo di nuovo «Heil Hitler!», ancora una volta troppo forte, e lui esce, seguito dalle guardie del corpo. Rimane solo la donna, che continua a distribuire il marzapane. L’atmosfera si distende.
Deutschland, Deutschland, über alles! Questo è dunque il grande Führer del Reich, il capo delle Forze Armate tedesche, il capo di tutti noi! Questo è l’uomo dal quale dipende il nostro destino. Ci ha augurato buona fortuna.
Heil Hitler!