Il bus imbocca la Lothar-Bucher-Strasse in senso vietato, ma nessuno ci fa caso. I pochi automezzi che si aggirano per le vie deserte non si preoccupano certo di osservare le regole del traffico, e comunque mancano del tutto i vigili, un genere completamente estinto, così come sono scomparsi i pompieri che dovrebbero spegnere gli incendi provocati dalle bombe al fosforo. Non funziona più nulla: non ci sono più postini né fattorini che portino il latte, non si trova più un solo medico, e le squadre di Pronto Intervento, che fino a qualche tempo fa sgombravano le strade dai cadaveri, ora non rispondono più al telefono. Una città un tempo funzionale e organizzata ha abbandonato la popolazione a se stessa: niente più diritti, niente più doveri.
Salutiamo Herr Klug e Marianne ci accompagna al portone. Ci congeda come fossimo due soldati, sfiora il bordo del berretto militare, dice «su, andate, voglio vedervi dentro il portone» e se ne va.
Rimaniamo un attimo come storditi.
Poi piglio la mano di Peter, lo trascino per le scale e busso alla porta del secondo piano con la targhetta «Hilde Busch». Ci viene ad aprire la matrigna che abbraccia subito Peter; sembra contenta e lo conduce in cucina, mentre io li seguo come un povero asino. «Come si è comportato questo birbante?» mi chiede la matrigna guardando solo lui.
Peter si desta dal torpore e strilla: «Ho visto il Führer e la fibbia!».
«Quale fibbia?» domanda la matrigna.
«Il Führer ha detto che mi regalerà la sua fibbia!» dichiara Peter.
«Non è vero!» lo sbugiardo. «Non ha detto proprio così!».
«Sì, sì!» insiste, e scalcia in aria.
«Allora, qual è la verità?» domanda la matrigna, e guarda me.
«Il Führer ha detto» rispondo con sussiego «che alla fine della guerra anche Peter potrà avere una fibbia come la sua, ecco che cosa ha detto!».
«Non è vero!» contesta Peter.
«Marianne ha detto che un vero tedesco non mente mai» gli rammento, lanciandogli uno sguardo di biasimo. Ma lui storce la bocca e la matrigna gli dà man forte. «Va bene, va bene, ci crediamo, tesoro», e lo abbraccia un’altra volta. Io mi sento di troppo.
Attirato dal chiasso compare Opa, che cerca di darsi un contegno nel suo vestito sgualcito, la coperta sulle spalle. «Eccovi finalmente!» esclama, e agita un poco la pipa sorridendo contento. Si accorge subito del cerotto sul mio polpaccio e chiede preoccupato: «Mio Dio, che cosa ti è successo, Helga?».
Ora, anche la matrigna guarda il mio polpaccio e fa eco al padre: «Già, che cosa ti è successo?». Mi sembra un po’ imbarazzata per non essersi accorta subito del cerotto. Allora racconto dell’attacco subìto in mezzo alla strada, del portone in cui ci siamo rifugiati, del ragazzo ferito all’addome, del dente saltato e della paura di perdere Peter, di tutto l’accaduto, insomma. Opa controlla la gamba e osserva: «Forse è meglio che ti veda un medico».
«Certo, i medici circolano a grappoli!» ironizza la matrigna. Io cerco di rassicurare Opa dicendogli che si tratta solo di una ferita di striscio, una bazzecola; e mi rendo conto di imitare un po’ la rude mascolinità di Marianne. Concludo che l’autista mi ha disinfettata per bene e che, se non mi viene la febbre, entro due giorni sarò guarita. Opa si tranquillizza e mi guarda con i suoi occhi buoni e intelligenti; mi illudo che mi voglia un po’ di bene e vorrei piangere di gratitudine. Ma mi trattengo.
Poi Opa dice che è riuscito a trovare del pane secco americano e ci domanda se ne vogliamo un poco. Peter dichiara con distacco di non aver fame (per forza, stamattina ha mangiato tutti i suoi panini e anche il marzapane, mentre io ho perduto il mio pacchetto durante l’incursione aerea!); io invece ne ho e chiedo del pane. Allora Peter strilla: «Anch’io voglio il pane americano!».
«Non hai appena detto di non aver fame?» chiede stupito Opa.
«Non è vero, ho fame!» nega sfacciato Peter, e Opa getta uno sguardo significativo alla matrigna, ma lei lo ignora e dice: «E dagli il pane americano se ha fame, poverino!».
A un tratto appare Hilde; ovviamente è già di ritorno dalla «missione speciale», ma ha la febbre. Si informa su come è andato il soggiorno nel bunker, ma quando sente dell’incursione aerea subita mentre eravamo sull’omnibus si agita, va al telefono e chiama il bunker della Cancelleria per farsi passare Marianne. Questa, però, non è ancora tornata. Forse Hilde desidera ringraziare l’amica per quanto ha fatto; effettivamente non si è quasi mai mossa dal nostro fianco. A intervalli regolari Hilde rifà il numero e finalmente le passano Marianne. Parlano a lungo, e ogni tanto Hilde tossisce: ha la voce roca e al termine della telefonata ritorna in cucina per dire con faccia seria e delusa: «Ne ho sentite delle belle sul tuo conto, giovanotto», e intanto guarda Peter.
«Io?» fa Peter, e sgrana gli occhi.
«Sì, tu!».
«Non è vero» brontola Peter tormentandosi le bretelle.
«Marianne ha detto che sei prepotente e indisciplinato!» afferma Hilde, severa. «Meriteresti una punizione!».
Peter si schiaccia la punta del naso, storce il muso, sbircia verso la porta del bagno e sibila: «Mi scappa la pipì». E in un attimo si dilegua.
Al suo ritorno la matrigna indaga: «È vero che sei stato prepotente e indisciplinato?».
«No».
«Lo dice Marianne!».
«No!».
«E per giunta è bugiardo» commenta Hilde, e ritorna nella sua camera. Sembra davvero seccata.
Peter se ne resta ingrugnato, ma alla fine la matrigna taglia corto: «Va bene, soprassediamo! Per una volta non vogliamo sapere la verità!». Allora Peter si rianima all’istante e comincia a raccontare dell’incontro col Führer. La matrigna ascolta sorridendo, pende dalle sue labbra, lo coccola con lo sguardo mentre io mi ingelosisco. Quando, infine, Peter arriva al punto in cui ripete: «Io sto bene, Herr Hitler, che bella fibbia, Herr Hitler!», la matrigna scoppia in un’acuta risata rivelando il buco di una capsula saltata. Anche Opa sorride. Peter, quando vuole, è un attore eccellente.
La matrigna continua a ridere, ma la sua risata suona artificiosa in quella cucina col lavandino in cui non si lavano più i piatti perché dal rubinetto non esce una sola goccia d’acqua e dove, comunque, non si cuoce più nulla innanzitutto perché non c’è il gas e poi perché manca la materia prima. Peter non la smette più di parlare del Führer, così io e Opa ci spostiamo nello studio di Hilde.
La stanza è gelida e Opa mi copre le spalle con una coperta. Le finestre sono sigillate e quindi accendiamo una lampada a petrolio. Io racconto la mia versione dell’incontro col Führer, parlo di quanto lo abbia trovato vecchio e malandato e di come mi sia sentita a disagio. Alla fine Opa commenta: «Grazie a Goebbels la gente immagina il Führer ancora integro; la propaganda nazista è diabolicamente efficiente». Tossisce a lungo e si vede che non sta troppo bene, ma a un tratto suona l’allarme e ci precipitiamo nell’ingresso. Hilde esce dalla sua camera ed esclama: «Ancora! Non se ne può più!», e si accinge a scendere in cantina. Opa afferra la sua valigia e altrettanto fa la matrigna. Peter recupera l’orsacchiotto Teddy e tutti insieme corriamo giù per le scale, dove echeggiano voci e passi frettolosi. Il solito ansioso fuggi fuggi.
Ed ecco, l’umido tanfo di cantina, di corpi mal lavati, di urina, di lampada a petrolio. Hilde si sistema su una branda, ha i brividi, sta proprio male. Peter si è accoccolato in un angolo, con Teddy sotto l’ascella. Sbadiglia, scivola su un fianco e si addormenta. Lo sistemano su un letto a castello. «Deve essere esausto» dice la matrigna, commossa, come se nessun altro potesse essere esausto. Gli altri ospiti della cantina mi chiedono com’è andata la «villeggiatura» nel bunker del Führer; avverto una certa malignità nella domanda. Ma di colpo comincia la sinfonia. Prima un intenso rombo di aerei, poi una detonazione violenta, alla quale ne seguono altre in rapida successione. Il rifugio trema. Peter si è risvegliato e urla: «Voglio Marianne!».
Mi afferra una stanchezza mortale che quasi riesce a cancellare il terrore delle bombe. Opa mi dice: «Stenditi su un letto, piccola, e dimentica tutto, se ti riesce». E mi aiuta a salire sul letto sopra quello di Peter. Cerco di non pensare a quei caccia che là fuori sganciano la morte e mi concentro sul muro. Ha un odore di muffa sgradevole. C’è un tubo dell’acqua in cui da tempo non scorre più nulla, e nell’angolo si stende un’enorme ragnatela.
L’atmosfera è tesa, la lampada a petrolio getta tremule ombre sui muri, ombre di fantasmi. La cantina è gremita, siamo stipati gli uni sugli altri. Una ragazzina singhiozza, un vecchio frigna. Un altro impreca. I volti sono tirati da un’angoscia che non trova assuefazione, c’è una disperazione immobile in quei corpi provati dalla fame, dalle privazioni e dall’insonnia. Povere sagome con i muscoli senza fibre e i volti senza guance, ombre di uomini.
In seguito a una detonazione particolarmente fragorosa, si alza la voce di un bambino molto piccolo, la cui protesta scuote fino al midollo.
«Padre nostro che sei nei cieli...»: la vecchia Fichtner riprende la sua litania e tutti le lanciano delle occhiatacce. La Fichtner è vedova e ha due nipoti dispersi in Russia. Ha il volto color cenere e le mani segnate dalla ragnatela delle vene. «Signore, fa’ che l’Armata Wenck respinga il nemico e ci restituisca la pace. Santa Vergine... il frutto del tuo seno, Gesù...».
«Ora lei la finisce!» grida, minacciosa, Frau Köhler e si pianta davanti alla Fichtner. La vecchia è ammutolita e, le dita intrecciate al rosario, fissa l’altra con un’espressione di sfida testarda, continuando a pregare.
«La smetta!». Frau Köhler è sbiancata dalla collera. Si sente un lungo fuoco d’artiglieria e la Fichtner grida: «Padre nostro che sei nei cieli...».
«Basta!». La Köhler si getta sulla Fichtner premendole una mano sulla bocca. La vecchia ansima, rotea gli occhi. Nessuno interviene, mentre fuori infuria l’attacco. Ma appena la Köhler toglie la mano, l’altra continua imperterrita e con maggior fervore: «Santa Maria, intercedi presso il tuo...». Le mani della Köhler si stringono intorno al collo della Fichtner, che diventa viola ed è percorsa da vistosi fremiti. Temo che muoia in pochi istanti, ma per fortuna si riprende. Con un sospiro che sembra un rantolo si aggiusta le pieghe del vestito di taffetà e ricomincia a pregare. Frau Köhler scuote il capo e va a fare un giro nel corridoio per sbollire la rabbia. Quando ritorna cerca di ignorare la Fichtner.
Durante un intervallo di relativa calma, la voce di un vecchio comunica con timida urgenza: «Devo urinare».
La portinaia scatta: «Nel corridoio c’è un secchio!».
«Qualcuno me lo porti... per favore» implora.
L’indice della portinaia pratica un ideale foro tra gli occhi del vecchio: «Lei va nel corridoio come tutti gli altri!».
«Ma io ho paura» protesta quello con voce querula e lacrimosa.
«Qui tutti abbiamo paura, maledizione!» urla l’altra, spazientita «ma tutti andiamo sul secchio, compresi i bambini!».
«Non ce la faccio ad andare fin là...» piagnucola il poveretto.
A questo punto Frau Köhler domanda, sarcastica: «Perché non si impicca?».
Allora una ragazzina bionda ed esile si alza, va nel corridoio, torna col secchio e lo posa ai piedi del vecchio. Questi, con la mano premuta sulla patta, le rivolge uno sguardo di indicibile gratitudine, poi si leva in piedi, afferra il secchio, si apparta in un angolo e vi urina dentro con scrosci imbarazzanti. La portinaia osserva con inutile scherno: «Ecco, osservatelo, è la quintessenza del superuomo tedesco, non c’è nulla di più edificante!». E prorompe in una risata crudele. Ma a un tratto un boato assordante rimbomba proprio sopra la nostra testa. Ecco, hanno colpito l’edificio, penso con terrore aspettando che crolli il soffitto, ma per fortuna non succede. Invece la luce fa i capricci. La fiamma ammicca, si stira, si allunga, compie una serie di frenetici guizzi, getta l’ultima, frastagliata ombra sul muro e si spegne. Si alzano grida di panico. Qualcuno accende una torcia tascabile, manovra intorno alla lampada e infine comunica in tono asciutto: «Signori, è finito il petrolio, d’ora in poi dobbiamo accontentarci delle candele di sego».
«Candele di sego!» geme qualcuno.
«Le candele di sego mi irritano gli occhi!» si lagna Herr Hammer.
«Ha per caso un’altra proposta?» ringhia una donna dalla faccia così scarna che sembra un teschio. Herr Hammer incassa la testa nelle spalle e si limita a sbuffare.
A poco a poco comincio a conoscere i vari frequentatori della cantina. Ci sono i coniugi Heinze che non parlano mai. Stanno in un angolo appiccicati l’uno all’altra, partecipando poco ai problemi della comunità. Frau Heinze soffre di depressione. La ragazzina che ha portato il bugliolo al vecchio si chiama Erika. Ha la tubercolosi. Herr Hammer è un pentito irascibile. Un tempo ammiratore di Hitler, ora lo maledice dagli angoli bui della cantina.
Una sera Herr Hammer, particolarmente nervoso, se la prende con Opa. «Già, noi qui con la candela di sego, e chissà le cantine dei nazi... magari sono provviste di impianti elettrici di emergenza! Perché non abbiamo un impianto elettrico di emergenza?».
Opa lo guarda senza capire. «Parola mia, Herr Hammer, io...».
«Le sarebbe facile far installare un impianto elettrico di emergenza, Herr Busch, dal momento che sua figlia lavora per un ministero così importante!».
«Le sue insinuazioni sono del tutto gratuite» risponde Opa pacato.
«Mica tanto!» fa Herr Hammer, ostile. «E le dirò di più, Herr Busch, che le piaccia o no. Penso che nessun altro, tranne quelli con la tessera del Partito in tasca, riesca a far ingrassare i propri nipoti nel bunker della Cancelleria del Reich!».
Opa sta per rispondere ma interviene Hilde: «Nessuno della mia famiglia ha la tessera del Partito in tasca, Herr Hammer, sia chiaro una volta per tutte!». Ma l’altro esplode in una risata maligna: «Sì, certo! E soprattutto, nessuno lavora a stretto contatto con Goebbels! Ma per chi mi ha preso, Fräulein Busch, non sono mica fesso!». Gli altri dimostrano poco interesse per la diatriba; ogni tanto Herr Hammer soccombe alla sua arteriosclerosi.
Ma Frau Köhler, la portinaia, getta benzina sul fuoco: «Già, perché non abbiamo la luce elettrica, Fräulein Busch? Me lo sono chiesta anch’io! Un po’ di interessamento, suvvia!».
Hilde si difende, sconcertata: «Da lei non me lo sarei aspettato, Frau Köhler!».
«E allora perché non posso mandare il mio Rudolf nel bunker del Führer, Fräulein Busch?» incalza Frau Köhler, polemica.
Hilde risponde senza perdere la calma: «Perché non inoltra domanda, Frau Köhler?». Ma quella ribatte, con un riso malizioso: «Dice seriamente, Fräulein Busch, o mi sta prendendo per i fondelli?».
La matrigna interviene: «Lascia perdere, Hilde, hai ancora la febbre».
La disputa si chiude perché Erika viene colta da un accesso di tosse e Frau Köhler le si avvicina per offrire il suo aiuto. È metà angelo e metà demonio, penso, Frau Köhler è davvero uno strano personaggio.
Erika e la madre, profughe dalle province orientali, una sera si erano presentate alla cantina chiedendo aiuto. Avevano portato con sé solo una valigia con dentro pochi valori, tra cui una vecchia zuppiera di famiglia che si era rivelata utile per la malattia di Erika; e da allora erano rimaste nella cantina perché Frau Köhler non aveva avuto il coraggio di scacciarle, anche in considerazione del precario stato di salute di Erika.
«Ci mancava solo la tisica!» brontola uno dei vecchi. «Questa ragazza dovrebbe stare nel reparto infettivi di un ospedale! Qui rischiamo tutti di infettarci, ve l’ho detto un centinaio di volte!», e getta uno sguardo bieco alla povera ragazza che si sta spolmonando.
Sul viso della madre scorre un impercettibile fremito; infine risponde, mortificata: «Nessuno me la vuole ricoverare».
«Così qui finiremo tutti tisici!» ribatte l’altro con cattiveria.
Allora Frau Köhler scoppia: «Lei mi ha stufata, vecchio bacucco, e comunque sappia che la tubercolosi attacca solo i tessuti giovani, non quelli di qualcuno che è semplicemente decrepito! Quindi non si agiti tanto!».
«Io ho solo cinquantanove anni!» gracchia il vecchio.
«Be’, se lei ha solo cinquantanove anni, caro signore, li porta malissimo!» dichiara Frau Köhler, sarcastica, squadrando l’altro con manifesto disprezzo.
«Lei ha la delicatezza di un elefante» commenta quello, offeso, e si ritira sul suo materasso. Ma in quel momento suona l’allarme, e due minuti dopo comincia un rabbioso martellamento di fuoco. Un rivolo di calce scorre lungo il tubo dell’acqua, i muri tremano. Avrò il tempo di crescere? Opa avrà il tempo di invecchiare?
Il bambino piccolo riprende il suo pianto di protesta e Frau Fichtner, sommersa dalle nere pieghe del suo vestito di taffetà, grida: «Qualcuno tappi la bocca a quel mostriciattolo! Come se di baccano non ne avessimo già abbastanza, qui dentro!».
«Brava!» esclama Herr Hammer, ironico, mentre batte le mani «e brava la nostra bigotta! Sarebbero queste la sua bontà e la sua tolleranza cristiana, Frau Fichtner?». E sputa, sdegnato, per terra. La madre del bimbo, una giovane sposa timida e introversa, si guarda intorno costernata. Il fischio lamentoso di un «organo di Stalin» preannuncia il solito schianto. Mi curvo sul letto di Peter e lo vedo seduto, con Teddy sotto l’ascella e gli occhi spalancati. Ha un’aria testardamente incredula. E mentre il mortaio ci sta assordando, Peter china il capo e stringe i pugni, in un gesto struggente.