XVI

Se ne andarono, forti di una loro presunta innocenza perché convinti di aver esercitato il diritto del vincitore. Risalirono le scale dandosi delle manate sulle spalle e ridacchiando soddisfatti, uniti nella complicità di una violenza che in tempo di guerra non solo viene considerata naturale e non perseguibile ma, quel che è peggio, giustificata. Semplicemente.

Seguì un attimo di frastornato silenzio, subito rotto dall’urgenza di soccorrere le vittime. Tutto era così agghiacciante che non avevo il coraggio di guardare. Le due madri svenute, Erika che gemeva sul materasso; sgomenta fuggii nel corridoio. Là c’era Gudrun, e venni travolta da quelli che stavano accorrendo per assisterla. Spinta da un impulso irrazionale, li seguii.

Gudrun giaceva piegata su se stessa, in posizione fetale, gli occhi sbarrati. L’espressione di gelido dolore che aveva sul volto mi tramortì.

La adagiarono su una branda. La coprirono con panni e cappotti perché tremava. Tremava e batteva i denti e aveva gli occhi sbarrati. Le due madri erano ancora in uno stato di semincoscienza.

Qualcuno salì in casa per telefonare e informarsi se da qualche parte esistesse una sorta di Pronto Soccorso per donne violentate, ma la risposta fu negativa. Non esisteva proprio. Non esisteva più niente. Solo orrore. Nella cantina si avvertiva un clima di rabbia impotente e di impotente compassione.

 

Sul materasso dove si era consumato il sacrificio di Erika era rimasta una macchia di sangue grande come una mela. La fissai attonita; era come se l’accaduto riguardasse anche me; come se l’atroce episodio mi avesse precluso ogni futuro rapporto con l’altro sesso! Decisi che nessun uomo avrebbe mai potuto toccarmi; gli uomini erano solo bestie feroci, a parte quelli della nostra cantina, ma forse solo perché loro erano troppo vecchi o troppo giovani. Continuai a fissare quella macchia con profonda inquietudine.

Nel frattempo Erika si era trascinata giù dal materasso e stava rannicchiata sul pavimento. Tremava e tossiva coprendosi con le mani. Le avevano messo una coperta sulle spalle ma lei continuava a gettarla via.

Peter ed Egon, appena i russi se ne furono andati, erano caduti in un sonno profondo. Non so fino a che punto si fossero resi conto dell’accaduto ma, almeno per quanto riguarda Peter, in seguito non lo sentii mai fare alcuna domanda al riguardo. Kurt, invece, il fratello di Gudrun, continuava a macerarsi nei sensi di colpa per non aver difeso la sorella dal bruto. In realtà non avrebbe potuto soccorrerla in alcun modo; se anche si fosse opposto al russo, l’altro lo avrebbe ucciso.

Seguitavo a fissare la macchia con un malessere crescente quando a un certo punto la matrigna mi disse: «Non guardare lì!». Gliene chiesi il motivo.

«Non guardare e basta!» fu la sua solita, imperiosa risposta; ma quella volta non la accettai. «Dimmi perché» insistetti, ribelle.

Lei mi lanciò uno sguardo infastidito, sospirò e infine rispose, sbrigativa: «Perché potrebbe rimanerti impresso nella mente, ecco perché!». «Non voglio dimenticare!» risposi d’istinto, anche se non mi era affatto chiaro il perché. Lei ebbe un moto di stizza, raccolse nel pugno un ciuffo dei suoi capelli sporchi e affermò, secca e categorica: «È meglio dimenticare!».

Stavo per rispondere qualcosa di sconveniente, ma Peter si era svegliato e reclamava la sua presenza. Lei si allontanò subito.

Nel frattempo le due madri si erano sufficientemente riprese per potersi occupare delle rispettive figlie. Bastò un’occhiata per capire la tragedia che era accaduta alle loro creature. L’impatto fu terribile.

 

La madre di Erika convinse la figlia a sdraiarsi su una branda e uno degli anziani stese una logora coperta militare sul materasso con la macchia sottraendola alla mia vista. Erika stava male.

Vidi la povera madre darsi da fare intorno alla figlia, lo strazio negli occhi e la morte nel cuore, ma tutto l’amore materno del mondo non sarebbe bastato per dare sollievo a Erika. Annientato dall’orribile sopruso subìto, il suo organismo si era come arreso al male. Lei lottava contro un terribile affanno, le labbra esangui e gli occhi vuoti, tossiva e sputava sangue in un recipiente di latta che qualcuno le aveva porto pietosamente.

Più tardi ci fu un attacco di artiglieria pesante. Passai la notte in uno stato angoscioso fra la veglia e il sonno. Poi un agitato mormorio mi indusse a drizzarmi sul letto, cosicché vidi le donne raccogliersi intorno alla branda di Erika. Da quel poco che potevo capire, Erika perdeva sangue, ma stavolta non dalla bocca.

Le cose peggioravano. Sentii la parola «emorragia» risuonare minacciosa. Vidi Frau Köhler ridurre a brandelli un lenzuolo e metterne una striscia fra le gambe di Erika, ma la frequenza con cui le donne sostituivano le pezze mi fece capire che stava accadendo qualcosa di grave. All’improvviso vidi la madre di Erika scoppiare in un pianto disperato, raccomandare la figlia alla comunità della cantina e correre su per la scala in cerca di aiuto. Erika è in pericolo di vita, pensai. Dio, aiutala!

Come se non bastasse, ci fu un nuovo allarme e subito dopo fummo colpiti da un furioso cannoneggiamento. Alla fine sentimmo un boato anomalo che risuonò pesantemente nella cantina, come se qualcuno avesse scaricato quintali di carbone in cima alla scala. Herr Hammer andò a vedere e tornò con l’inaudita notizia che qualcosa aveva ostruito il portone dall’esterno. Vidi sui volti nuovo sgomento; gli avvenimenti non ci lasciavano tregua! Non potevamo restare col portone ostruito, e poi aspettavamo il ritorno della madre di Erika!

Alle prime luci dell’alba Opa, Herr Hammer, i coniugi Mannheim e Frau Köhler decisero di andare a liberare l’accesso al portone. La matrigna invece rimase accanto a Frau Bittner che faceva la spola fra Erika e Gudrun.

Il piccolo gruppo era uscito dalla porta del cortile; quatta quatta lo seguii.

Stava albeggiando, l’aria era immobile e velata di rosso per il riverbero della città in fiamme. Indugiai un attimo nel cortile, stanca e intirizzita dal freddo. Ma a un tratto un accecante fascio di luce superò il moncone più alto delle rovine. Il sole si alzava, si arrampicava nel cielo, e un raggio impudente avvampò sulla ringhiera di un balcone rimasto tenacemente aggrappato alla facciata di un edificio bombardato. Un uccello solitario cominciava a lanciare un lento e pensoso richiamo.

Il gruppo aveva già oltrepassato le macerie che affiancavano il nostro palazzo. Della casa crollata era rimasto in piedi, come uno sberleffo, uno spicchio del primo piano. Si vedevano un tratto di scala sul quale si rincorrevano i ratti, un pezzo di cucina col lavello ancora fissato al muro e un indumento, forse un grembiule, rimasto assurdamente attaccato a un gancio della porta scardinata.

Anch’io oltrepassai il mucchio di calcinacci sbucando dalla parte della Lothar-Bucher-Strasse. Quando Opa mi scorse fece un gesto di disappunto, ma io intendevo restare. Volevo rimanere vicino a lui perché, se fosse stato colpito da una granata, saremmo morti insieme.

«Per favore, fammi restare...» mormorai con tono implorante. Lui si intenerì, sospirò e fece un cenno di assenso. Infine contemplò il disastro. Durante l’ultimo attacco un ordigno aveva colpito il balcone del primo piano, che si era abbattuto al suolo ostruendo il portone. Herr Mannheim scavalcò di nuovo le macerie sperando di trovare degli arnesi nella rimessa, mentre gli altri cominciarono a rimuovere i detriti. Anch’io mi diedi da fare per giustificare la mia presenza. Herr Mannheim tornò con qualche attrezzo, lagnandosi del puzzo che emanavano i cadaveri nel cortile. Lavorammo di buona lena.

Poi arrivò un vecchio su una bicicletta sgangherata e si fermò chiedendo che cosa stessimo facendo. Era in vena di confidenze e disse, sfinito e disgustato, che era fuggito da un reparto speciale falciato in meno di tre ore e che non gliene importava più nulla di essere considerato un disertore. Appariva molto provato, era vestito di cenci ed era di una magrezza scheletrica. Aveva sul collo una ferita in suppurazione. Disse che la sotterranea era gremita di gente che gridava dalla fame e dalla sete. Là sotto le persone ammassate morivano come mosche, e i morti venivano gettati sulle rotaie man mano che cominciavano a decomporsi. Aveva sentito dire che il cerchio intorno a Berlino si stava chiudendo e che migliaia e migliaia di cannoni erano puntati sulla capitale. Concluse che in ogni cortile si stavano seppellendo cadaveri, poi salì sulla bicicletta malandata e se ne andò senza salutare. Subito Herr Hammer strepitò: «Lo avevo detto che era meglio seppellire i morti nel nostro cortile; ci saremmo risparmiati tutto quel fetore!».

La portinaia si inalberò: «Chi è la responsabile di questo edificio? Io! Quindi, nel nostro cortile non si sotterra nemmeno un sorcio, intesi? Mi attengo alle disposizioni, io!».

«Ma chi si attiene ancora alle disposizioni, ormai?» belò Frau Mannheim massaggiandosi un ginocchio.

«Noi!» ruggì Frau Köhler, e aggiunse con aria furba: «Sapete che cosa succederà appena finirà la guerra?». Fissò Herr Mannheim, che stava con l’avambraccio appoggiato alla pala.

«???».

«Tutti i furbi che hanno disatteso l’ordinanza saranno costretti a riesumare i poveri estinti per il censimento e l’identificazione! Gli Alleati vorranno almeno sapere a quanti tedeschi hanno fatto la pelle!». Ma i cupi rumori di guerra che provenivano dal centro troncarono la disputa.

Nel frattempo avevamo finito: il portone era stato liberato. Subito scendemmo nella cantina e ci informammo riguardo alle due ragazze. Gudrun non si era mossa dalla sua posizione, tremava, batteva i denti e fissava il soffitto con gli occhi sbarrati. Erika rantolava. Temevamo per la sua vita, e cominciammo a temere anche per quella della madre, che non era più tornata.

Quando fu giorno fatto Frau Mannheim, di turno per l’acqua, uscì lamentandosi pesantemente. Ma ritornò subito. Disse che in strada aveva incontrato due donne che si stavano recando a un certo indirizzo, dove sembrava ci fosse un magazzino ancora abbastanza rifornito di viveri. Forse era il caso che qualcuno facesse un sopralluogo. Subito la matrigna e Frau Köhler decisero di andarci, affidando le due ragazze al resto della comunità. Circa mezz’ora dopo subimmo un improvviso e furibondo cannoneggiamento senza il minimo preallarme; ma il nostro edificio continuò a restare in piedi come per miracolo.

Passava il tempo ed eravamo in ansia per la matrigna, Frau Köhler e la madre di Erika. Rudolf si mangiava le unghie e parecchie volte andò al secchio.

Finalmente tornarono. La matrigna aveva perso una scarpa e camminava con un piede nudo.

Il bottino era magro perché il magazzino era stato preso d’assalto dalla milizia popolare, che si era accaparrata la maggior parte dei viveri lasciando alla gente comune solo gli avanzi. C’era stata una ressa infernale. Frau Köhler aveva un occhio nero.

Poi Frau Bittner preparò per tutti una pasta di semolino bruciando dei mobili racimolati in cantina, e mentre Opa stava massaggiando il piede alla matrigna, arrivò un vecchietto che trascinò giù per la scala una bicicletta da corsa arrugginita. Comunicò che Hilde stava bene e si trovava in un lazzaretto dove era finita dopo un attacco aereo che l’aveva sorpresa per strada: una scheggia le aveva colpito la milza. Opa e la matrigna, nonostante quest’ultima notizia, provarono un grande sollievo. Dove si trovava il lazzaretto? Il vecchio non volle dirlo perché era in una zona in cui si combatteva ancora molto, e Hilde non voleva che Opa o la matrigna rischiassero la vita per andarla a trovare. «Quando le acque si saranno calmate,» assicurò il vecchio «sarà premura della signorina far sapere dove si trova». Non gli cavarono fuori altro. Rifiutò gentilmente il semolino, trascinò di nuovo la bicicletta su per la scala respingendo ogni offerta di aiuto, raccomandò tutti a Dio e se ne andò.

Mentre Opa e la matrigna si stavano ancora scambiando espressioni di sollievo per la buona notizia, tornò la madre di Erika insieme a una vecchia dottoressa che si reggeva a malapena appoggiandosi a un bastone. Portava occhiali spessi e aveva il volto incorniciato da una treccia grigia fissata con tante forcine in corno.

La madre si chinò su Erika e la baciò teneramente sulla fronte.

A un tratto la ragazza aprì gli occhi e sorrise. La madre domandò: «Stai meglio, cuore mio?».

Erika annuì, con un’espressione angelica. Il suo viso era soffuso di un pallore marmoreo.

«Ti ho portato un medico, tesoro» disse la madre.

«Io sto... bene... ormai» sussurrò la figlia con voce esile.

Il medico la visitò, mentre noi ci eravamo tutti raccolti intorno alla branda, forse sperando in un miracolo.

A un certo punto Erika sollevò lo sguardo e ci fissò a uno a uno, sorrise debolmente e mormorò: «Grazie». Ma poi qualcosa nel suo volto mutò. Le labbra si stirarono, le palpebre si appesantirono. Fu scossa da un lungo fremito e all’angolo della bocca le affiorò, come un minuscolo bocciolo di rosa, una goccia di sangue. Afferrò la mano della madre e la baciò. Ma quel bacio si irrigidì trasformandosi in un morso.

Morì mordendo le dita della madre.