XVIII

Berlino, maggio 1945

 

Poiché la madre di Erika non sapeva dove andare, Opa le offrì ospitalità nell’appartamento di Hilde finché non si fosse sistemata altrove. La poveretta, inconsolabile per la morte della figlia, intendeva chiedere alle autorità occupanti il permesso di tornare al suo paese di origine, ma ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo perché la città era nel caos più totale.

Appena finita la guerra, Peter e io ci illudemmo che ogni cosa sarebbe andata subito a posto, che ci sarebbero stati elettricità, cibo e acqua. Non fu così. Mancava ancora l’acqua, e la matrigna fu costretta a scambiare al mercato nero dell’Alexanderplatz i suoi gioielli più preziosi con una discreta provvista di generi alimentari. Ma almeno non c’erano più i bombardamenti.

 

Le ore non si succedevano più uguali a se stesse, il ritmo della nostra vita si era normalizzato. Ora si dormiva di notte e si stava svegli di giorno, anche se nei primi tempi quell’insolito silenzio notturno mi teneva desta. A volte temevo che la guerra non fosse affatto finita, e che avrebbero potuto sorprenderci in casa di notte con un improvviso attacco aereo. Temevo ancora di essere uccisa.

 

Ci eravamo sistemati alla meglio. La madre di Erika dormiva nella cameretta, la matrigna su un lettino d’emergenza nello studio di Hilde in compagnia del pianoforte e del quadro che aveva dipinto mio padre, Opa sul divano del salotto, Peter e io su due brande in sala da pranzo. Saremmo rimasti nella Lothar-Bucher-Strasse finché Hilde non fosse tornata dal lazzaretto, e forse ci saremmo trattenuti lì anche durante la sua convalescenza, che speravo fosse lunga; non volevo tornare con la matrigna nella Friedrichsruher Strasse! Fra me e lei non era cambiato nulla, lo sentivo.

 

A Berlino si insediò l’amministrazione sovietica e il generale Bersarin fu nominato capo del Presidio e comandante di Berlino. Fu lui che fece affiggere le ordinanze sui muri e sulle colonne delle affissioni, dalle quali sparirono subito gli slogan nazisti FEIND HÖRT MIT e KOHLENKLAU. Fece anche distribuire dei volantini che invitavano la popolazione ad attenersi scrupolosamente alle disposizioni della forza occupante sovietica, assicurando che per la distribuzione dei viveri sarebbero state rilasciate delle carte annonarie. Si invitava inoltre la cittadinanza a non lasciare il proprio distretto e a non uscire dagli edifici tra le dieci di sera e le otto del mattino. In un primo momento gli orologi (quelli che erano scampati al selvaggio saccheggio dei russi) dovettero essere regolati sull’ora di Mosca, in seguito si tornò alla norma europea. Nei primissimi tempi dopo la capitolazione della città, smaltita la sbornia dell’euforia, sentii che gli adulti erano come smarriti, forse per una sorta di shock da pace. Sembrava ancora che la loro unica occupazione consistesse nello sforzo di sopravvivere. La situazione sembrava sospesa. Non uscivano i giornali, la radio trasmetteva solo musica. Non c’era alcun genere di informazione. Quella che era stata la capitale del Terzo Reich era un’isola tagliata fuori dal mondo.

 

Di lì a poco furono ripristinate le condutture dell’acqua e ricostruiti gli impianti elettrici. Hilde tornò a casa e fu un momento di grande emozione e di felicità per Opa e la matrigna. Ma lei era pallida, smunta e ancora sofferente. Camminava con le spalle incurvate e trascinando una gamba; quando rideva storceva la bocca. Sembrava una vecchietta. I primi giorni rimase a letto in una stanza il cui muro era crollato. I calcinacci erano caduti nella sala da pranzo dove dormivamo Peter e io. La sua convalescenza si prospettava abbastanza lunga, e io ne ero egoisticamente contenta perché il ritorno nella Friedrichsruher Strasse sarebbe stato rinviato. Poi le autorità concessero alla madre di Erika il nulla osta per tornare al suo paese di origine, e noi ci commuovemmo tutti quando se ne andò con la sua valigia di cartone, nella quale conservava i poveri vestiti della figlia.

Che fine aveva fatto la nostra comunità della cantina nella Lothar-Bucher-Strasse? Niente. Ognuno viveva per conto proprio, e nemmeno gli inquilini dello stesso edificio nutrivano gli uni per gli altri particolari sentimenti di amicizia, anzi; sembrava che il lungo periodo di forzata promiscuità avesse prodotto in loro una sorta di rigetto.

Herr Hammer, che era vedovo, si rinchiuse nella solitudine del suo piccolo appartamento, e lo si vedeva solo quando aveva qualche reclamo da fare alla portinaia. Frau Köhler tornò a occuparsi della sua portineria, lavorando giorno e notte per rendere gli spazi comuni di nuovo vivibili. Suo figlio Rudolf aveva scoperto il pallone e si scatenava nel cortile, naturalmente dopo che furono rimossi i cadaveri, o ciò che ne era rimasto. Il vecchio che si urinava sempre addosso era morto di infarto subito dopo la fine della guerra e l’altro aveva ottenuto il permesso di raggiungere il figlio, che era inaspettatamente tornato dalla Russia e abitava con la propria famiglia nel Baden-Württemberg. I coniugi Mannheim si erano esiliati entro le loro quattro mura. Così si riuscivano a scambiare due chiacchiere frettolose solo con Frau Bittner, per parlare di Gudrun. La poveretta non aveva ancora recuperato la parola e la madre le aveva fissato un appuntamento con un medico di un centro sanitario da poco aperto a Steglitz.

 

Fu subito chiaro che le carte annonarie bastavano appena a non morire di fame. Per guadagnarsi il diritto a razioni maggiorate la matrigna si fece avanti offrendosi di sgomberare le strade dalle macerie. E poiché mi avevano diagnosticato una malattia da carenza alimentare, anch’io avevo diritto a qualche bollino supplementare. Naturalmente Peter pretese di avere una malattia analoga e per qualche giorno si torturò il corpo con un fermacarte, con l’unico risultato di procurarsi degli orribili lividi.

Ora che avevamo di nuovo l’acqua corrente, eravamo sempre lustri e puliti. Non eleganti, ma almeno puliti. A Peter rispuntarono i ricci setosi, e i capelli della matrigna riacquistarono l’antico colore biondo cenere. Ogni tanto portava ancora il turbante, non più per nascondere i capelli sporchi ma per proteggere quelli puliti dalla polvere durante lo sgombero delle macerie. Opa aveva di nuovo i suoi vestiti stirati ed era soddisfatto. Hilde non parlava mai dei suoi trascorsi al ministero della Propaganda. Menzionare Goebbels, Adolf Hitler o comunque il nazismo era vietato.

Poiché le carte annonarie prevedevano una distribuzione molto limitata di generi alimentari che contenessero vitamine, io e Opa rastrellammo cortili abbandonati e montagne di macerie alla ricerca di vegetali commestibili, come le ortiche, un certo tipo di radici o le foglie dei denti di leone, che mangiavamo in insalata. Avevamo dell’olio per condirli grazie a un servizio da tè in porcellana cinese scambiato al mercato nero, del quale Hilde non avrebbe mai voluto disfarsi.

La matrigna andava regolarmente nella Friedrichsruher Strasse per mettere a posto l’appartamento che era rimasto danneggiato dalle bombe e un giorno, nella cassetta delle lettere, trovò la notizia che mio padre era guarito e che presto sarebbe stato congedato. Aveva le lacrime agli occhi e la vidi felice. Anch’io ero felice: finalmente avrei riabbracciato mio padre, e tutti i guai con la matrigna sarebbero finiti. Lui non poteva che essere dalla mia parte! Ma c’era anche una brutta notizia: zia Margarete si era suicidata ed Eva si trovava presso certi parenti in attesa del ritorno del padre. Povera Eva, avrei voluto rivederla!

 

Una mattina Opa ci domandò se avevamo voglia di accompagnarlo a fare un giretto. Peter fece un po’ di storie: preferiva restare a casa a giocare con Hilde a domino. Ma io fui entusiasta.

«Dove si va?» mi informai quando eravamo già in strada.

«A cercare il mio vetraio».

«Quello che mette i vetri?».

«Indovinato!» sorrise con aria raggiante.

La Lothar-Bucher-Strasse era semideserta; c’era solo un gruppetto di donne che chiacchieravano vicino alla colonna delle affissioni. Ciarlavano vivaci e le loro voci si sovrapponevano l’una all’altra; oltrepassandole sentii una di loro esclamare: «Ancora quella storia, Friede! Sembra che l’unica donna stuprata dai russi sia stata tu! Cosa dovrebbe dire allora mia cugina, alla quale è toccato per ben tre volte e che oltre tutto è rimasta incinta?».

Ci incamminammo per la solita strada ancora disseminata di crateri, costeggiando interi isolati ridotti a un cumulo di macerie. I cadaveri, per fortuna, erano già stati rimossi dovunque, così come i rottami che ingombravano i margini dei marciapiedi.

Nei giardini delle case distrutte si sgolavano gli uccelli e sbocciavano le rose; i gelsomini riempivano l’aria del loro profumo inebriante. Era una bellissima giornata.

Ogni tanto guardavo il cielo e mi sentivo contenta. Una volta color turchese si era stesa, pacifica, sulla città, quasi volesse consolare tutto quel mare di distruzione. Faceva caldo.

Passarono diversi automezzi guidati da sovietici. I primi non si curarono di noi, ma poi uno si fermò e un russo ne balzò giù gridando: «Stoj! Dokumenty!». Era un uomo molto giovane dal volto lentigginoso che odorava di pane. Controllò con attenzione i documenti, infine domandò a Opa accennando a me: «La... bambina... come dire voi dočka?». Poi sul suo volto passò un’ombra di imbarazzo. «Net,» si corresse «la bambina... come si dice?».

«Nipote» fece Opa.

«Da, nipote!».

«Sì, è mia nipote» confermò Opa.

L’altro annuì, mi strizzò un occhio, riconsegnò i documenti, disse: «Do svidanija nipote» e ci fece segno di proseguire.

«Perché continuano a chiederti i documenti?» domandai.

«Loro sono i vincitori» spiegò Opa. «Ora comandano loro».

«Rimarranno qui per sempre?».

«Prima o poi se ne andranno».

«Quando?».

«Forse fra qualche anno».

«Anni!».

«Il vincitore può occupare il nostro paese fino a quando gli pare e piace» rispose Opa. Ma quando chiesi se saremmo diventati russi Opa ebbe un sorriso malizioso: «Un tedesco non potrà mai diventare un russo, piccola mia!», e non capii se fosse un complimento per i russi o per i tedeschi.

«Allora chi sono più cattivi, i russi o i tedeschi?» seguitai a tormentarlo, ma lui continuò a rispondermi bonariamente: «Ogni popolo ha i suoi uomini buoni e i suoi uomini cattivi; forse nel popolo tedesco c’è una tendenza che in quello russo appare meno accentuata, il fanatismo».

«Cos’è il fanatismo?».

«Il fanatismo è quando si fanno le cose con un impegno così esagerato da diventare ciechi e sordi e acritici».

«Cosa vuol dire acritico?».

«Quando si rinuncia a giudicare, a interpretare o a valutare il risultato dell’opera o dell’attività o anche dell’atteggiamento di qualcuno. Ad esempio, il popolo tedesco, o buona parte di esso, ha mantenuto nei confronti di Adolf Hitler una posizione acritica, almeno ufficialmente».

«La direttrice del collegio diceva che il Führer era cattivo,» commentai «diceva che era un razzista».

«Lei era critica,» rispose Opa «e anche coraggiosa».

«Perché?».

«Perché il nazismo era un regime repressivo, quindi era vietato criticarlo».

«Cioè?».

«Era vietato non essere d’accordo con le idee del Führer».

«Per questo hanno bruciato i libri degli scrittori che parlavano male del nazismo?».

«Giusto. Chi te l’ha detto?».

«La direttrice».

Opa stava aggiungendo qualcosa, ma a un tratto borbottò: «Eppure era qui!». Ci eravamo fermati davanti a un edificio pesantemente bombardato. Metà portone pendeva tra i cardini come un ubriaco. Il luogo era silenzioso e immerso nel più totale abbandono. Fra i lastroni del breve vicolo d’accesso spuntavano lunghi fili d’erba gialli; su uno spiazzo erboso giaceva il busto marmoreo di un eroe nazista sul cui petto decorato un uccello spiritoso aveva fatto il nido. Dietro i ruderi si vedeva un altro mucchio di macerie che si era riversato nel cortile come un rigurgito. Non c’era traccia d’uomo.

Il cortile era sommerso da un’esuberante vegetazione, il vento di maggio piegava le cime dell’erba incolta che copriva ogni cosa; una panca di ferro sbucava da una selva di gramigna. Gli uccelli schiamazzavano e le lucertole sfrecciavano su resti di muri assolati. Si avvertiva nell’aria una sorta di incanto ambiguo: sul tetro ammasso di rovine prevaleva l’arrogante trionfo della primavera.

Il posto mi aveva stregata e mi lasciai cadere sull’erba. Opa riposava sulla panca; vedevo solo la scriminatura dei suoi capelli. Lo chiamai e lui rispose, ma non potevamo vederci e questo mi divertiva. Guardavo il cielo e sentivo le api. Respirai l’acre odore dell’erba e ricordai Eden. Come avrei desiderato rivedere la direttrice e la dottoressa Löbig! Erano ancora vive?

Poi Opa salì sulla panca e, perlustrando i dintorni come un marinaio che scruti l’orizzonte, vide la capanna. «Vuoi vedere che è lì?» gridò.

«Ma chi?».

«Il vetraio!». Cominciò a solcare il mare d’erba e arrivato alla capanna trovò il vetraio. Si abbracciarono commossi. «Allora lei è vivo, avvocato, che gioia!» singhiozzava il vecchio artigiano, e si asciugava le lacrime col bavero di una consunta tuta da lavoro. Iniziarono i racconti; Opa narrò della nostra cantina, il vetraio della sua. Opa delle nostre pene, il vetraio delle sue. Opa del nostro edificio che era rimasto miracolosamente in piedi e il vetraio del suo che era andato giù come un castello di carta.

La vetreria si trovava nel sotterraneo del suo palazzo, e quando il vetraio se l’era vista brutta, fra un allarme e l’altro, aveva cominciato a trascinare nella capanna delle grandi lastre, sistemandole fra spessi strati di lana di vetro. «Così hanno resistito all’esplosione delle bombe» disse l’uomo, raggiante. «Gli Ivan hanno buttato giù la casa ma non sono riusciti a mandare in frantumi i miei vetri!». E sghignazzava e si sfregava le mani come se avesse fatto un dispetto a qualcuno.

«Allora può venire a sostituire i vetri nell’appartamento di mia figlia?» domandò Opa speranzoso.

L’altro promise di farlo non appena avesse trovato del carburante per il vecchio furgoncino che stazionava sotto un gruppo di betulle bisbiglianti. «E naturalmente devo chiedere alle autorità il permesso di ricominciare il mio lavoro,» aggiunse «ma non dovrebbe essere un problema: tutta la città è senza vetri!». E si sfregò ancora le mani: sembrava contento.

Infine il vetraio ci mostrò la sua precaria abitazione ricavata in un angolo della capanna: una branda, una sedia ammaccata, qualche cassa di legno come porta-abiti, un tavolo con tre gambe sostenuto da delle cassette. Vedovo fin da prima della guerra, l’uomo sembrava un marinaio sopravvissuto a un naufragio.

Opa e il vetraio si lasciarono fraternamente e ci rimettemmo in cammino. Io nel mio vestitino pulito di cotone stampato, di foggia un po’ americana (la matrigna lo aveva rimediato al mercato nero in cambio del cannocchiale di Opa), e Opa nel suo abito fumo di Londra egregiamente stirato. Ci sentivamo come due signori; entro qualche giorno avremmo avuto perfino i vetri alle finestre!

Più in là, su una saracinesca, qualcuno aveva cancellato la parola JUDE scrivendoci sotto, con una vernice rosso sangue: HITLER BOIA.