XIX

Berlino, luglio 1945

 

Il vetraio aveva sostituito i vetri dell’appartamento di Hilde e ora, guardando fuori dalle finestre, si vedevano bene le rovine di fronte e tutto quel muto sconcerto; era in bella vista anche la colonna pubblicitaria, che non esibiva più gli slogan nazisti bensì le ordinanze con le quali il generale Bersarin rassicurava la popolazione sulle buone intenzioni dell’amministrazione sovietica. Sotto le ordinanze apparivano i primi timidi avvisi di qualche teatro o sala da concerto che stava riaprendo i battenti, piccoli segnali di una certa ripresa dell’attività artistica in città.

Se le strade erano ormai libere dalle macerie, lo si doveva alle donne; ma tra le rovine si moltiplicavano ancora indisturbati eserciti di ratti. Sulle arterie importanti si cominciava a sentire lo scampanellio dei tram e, tratto dopo tratto, venivano ripristinate la sotterranea e la sopraelevata. Si tirava avanti con le carte annonarie, ma avevamo sempre fame. Non c’era il latte per i bambini e in molti soffrivamo di disturbi legati all’avitaminosi.

Hilde si era quasi completamente ristabilita e faceva lunghe passeggiate nei dintorni della Lothar-Bucher-Strasse. A ogni rientro rinnovava il suo stupore per l’entità delle distruzioni e ogni volta scopriva un altro punto di riferimento andato in frantumi, come l’edificio della sua parrucchiera, quello della farmacia o del panificio all’angolo della Bismarckstrasse. Opa aveva svolto una piccola ricerca sulla sorte toccata ad amici e parenti, e il bilancio era spaventoso. Purtroppo le autorità non erano in grado di fornire informazioni attendibili perché il censimento della popolazione sopravvissuta era tuttora in corso.

A volte sentivo parlare di crimini atroci che sarebbero stati commessi nei campi di concentramento nazisti, ma i toni erano cauti e sommessi come quando si stenta a credere a notizie che scuotono le coscienze. Ricordavo le cose che avevano dette quelle due madri nel bunker della Cancelleria, comprendendone finalmente il vero significato; era dunque vero che i nazisti avevano ucciso tutti quegli ebrei? Pensavo a Herr Schacht, condotto via così brutalmente dalla Gestapo, e alla sorella della direttrice del collegio di Eden, deportata insieme alle sue gemelline in un campo di concentramento. Un giorno tentai di parlarne con Opa, ma lo sentii stranamente riluttante; forse non voleva turbarmi. Provai con Hilde, ma lei mi pregò seccamente di evitare in futuro l’argomento. «La sentenza ai posteri» mi liquidò.

 

Una mattina Opa, Peter e io accompagnammo la matrigna nell’appartamento della Friedrichsruher Strasse. La giornata era splendida e dalla Lauenburger Platz provenivano acute grida di bambini. Sulla Bismarckstrasse c’era movimento, gente sui marciapiedi, sulla carreggiata scampanellavano i tram.

L’edificio mi sembrava diverso, meno alto di quanto ricordassi, e la facciata era crivellata di colpi. Nel breve vialetto d’accesso orlato di siepi di bosso perfettamente potate c’era un grande cratere che non era ancora stato riempito; il doppio portone era scardinato. La portinaia, che era nuova (la precedente era morta mentre andava a prendere l’acqua), si lamentava del fatto che di notte chiunque poteva entrare nell’androne per andare a rubare negli appartamenti ancora vuoti, come il nostro. Altri inquilini, infatti, mancavano all’appello: non si avevano più notizie, ad esempio, di una madre con due bambini piccoli che erano soliti ripararsi in un rifugio antiaereo nei pressi della Thorwaldsenstrasse.

Opa, Ursula e Peter cominciarono a salire le scale, ma io mi fermai un attimo nell’androne e sbirciai la porta della cantina dove quella sera lontana mi ero infilata per trascorrere la notte dietro il mucchio di carbone. Avevo l’impressione che fosse passata un’eternità e nel contempo ricordavo ogni particolare come se fosse successo il giorno precedente. Mentre ero percorsa da un brivido la portinaia mi chiese: «Non sali, bambina?». Risposi di sì con la testa e poi raggiunsi gli altri al quarto piano.

L’appartamento era già in buone condizioni. La matrigna aveva provveduto a far sistemare la porta d’ingresso che aveva trovato scardinata e il vetraio di Opa aveva sostituito i vetri infranti delle finestre. Il balcone in muratura, al quale si accedeva dal salotto, si affacciava sulla Bismarckstrasse e su un mare di rovine. Fra poco sarebbe tornato mio padre e sarebbe incominciata la vita a quattro. Avrebbe funzionato? Ero in ansia e quel pensiero mi turbava. E poi, mi avrebbero permesso di vedere Opa ogni volta che lo desideravo?

«Voglio vedere la mia stanza!» gridò Peter, prepotente.

«Dovrai dividerla con tua sorella» gli disse la matrigna.

«Voglio una stanza tutta per me!» pretese Peter.

«Ti dico che dovrai dividere la stanza con tua sorella» ripeté la matrigna, paziente.

«No, non voglio!».

«Rassegnati».

«Che fine ha fatto il tavolino del Seicento?» domandò Opa per spostare la discussione su un altro binario, ma Peter continuò a pretendere la sua stanza.

«Gli è caduta sopra la libreria» rispose la matrigna. «L’ho trovato in briciole».

«Voglio la mia stanza!» belò Peter.

«Peccato,» commentò Opa «era un pezzo unico, non ne troverai uno uguale».

Peter tirava la matrigna per la gonna: «Perché Helga non può dormire in salotto?».

«Non mi sembra il caso, tesoro» fece la matrigna, allora Peter diede in escandescenze. Opa disse alla matrigna: «Il ragazzino è viziato», ma lei rise: «Ma no, ha solo carattere. È un vero tedesco!».

 

Giunse il giorno in cui doveva tornare mio padre e ci riunimmo tutti nella Friedrichsruher Strasse per riceverlo. C’erano anche Opa e Hilde. Più tardi la matrigna sarebbe andata alla stazione per accogliere il reduce. Peter chiese per l’ennesima volta: «Chi arriva col treno, uffa! E come si chiama?».

«Si chiama Stefan ed è tuo padre» gli rispose la matrigna «e non domandarmelo più».

«Perché Stefan non è mai venuto a trovarci?» insisteva Peter.

«Non devi chiamarlo Stefan ma Vati».

«È più bello Stefan».

«Vati!».

«Perché Stefan non è mai venuto a trovarci?» incalzava Peter.

La matrigna sospirò: «Perché era al fronte, e tu lo devi chiamare Vati!».

«Mi vergogno».

«Ma è tuo padre!».

«Mi vergogno».

La matrigna si alzò dalla poltrona: «Ora mi hai tormentata abbastanza, giovanotto, vado a prepararmi».

«Vengo anch’io alla stazione!».

«No!» fece la matrigna e aggiunse: «È mio marito, tesoro!».

«Anche mio! Anche mio!».

«Mio Dio, è tuo padre, Peterlein!».

Lui tirò fuori la lingua e lei gli fece marameo. Talvolta invidiavo Peter per la confidenza che aveva con la matrigna.

Quando lei riapparve era davvero carina. Indossava un vestito chiaro con le spalle pronunciate e la vita stretta, calze velate, che le erano costate un candelabro in argento al mercato nero, e un cappellino che sembrava una torre di guardia. Uscita la matrigna, Opa, Peter e io andammo a fare una passeggiata per ingannare il tempo. Hilde rimase a casa a leggere un libro.

Appena fuori dal portone, Peter volle infilarsi nel cratere per giocare alla guerra e faticammo parecchio a stanarlo da lì. Finalmente ci precedette sul marciapiede saltellando e canticchiando: «Oggi arriva mio padre! Oggi arriva mio padre! Oh, oh!».

Oltre l’incrocio vedemmo dei bambini giocare tra le rovine. Peter si fermò e gridò, prepotente: «Ehi, voi!».

Si voltarono tutti e una bambina rispose, seccata: «Che cosa vuoi?».

«A cosa giocate?» domandò Peter puntando i pugni sui fianchi; stava ritrovando la faccia tosta di un tempo.

La bambina inclinò il capo, tentò un sorriso che si storse sul nascere e rispose, burbera: «A mamma e papà».

«Stasera viene mio padre!» annunciò Peter con aria d’importanza.

La bambina attorcigliò un lembo del suo grembiulino e rispose: «Mio padre è nel cielo della Russia».

«Dove?».

«Forse intende dire che suo padre è caduto in Russia» suggerì Opa.

«Mio padre non è caduto» dichiarò Peter, indelicato «e stasera arriva col treno».

La bambina fece spallucce e si voltò di nuovo verso i compagni, ma Peter le gridò alle spalle: «Almeno ce l’hai un nonno?».

Lei tornò a guardarlo e il suo volto era accigliato, un poco risentito; infine si sforzò di sorridere e, infilando la mano nella tasca del grembiulino, domandò: «Vuoi una caramella?».

Peter le si avvicinò e prese qualcosa dalla sua mano, ma prima che potesse mettersela in bocca Opa lo frenò: «Alt! Fammi vedere che cos’è!».

«No!».

«Fai vedere!». Era una pasticca per il mal di gola. «Non è una caramella,» disse Opa «gettala!».

«No!».

«È buona!» gridò la bambina al di là del muretto «ne abbiamo tante in casa, mio papà era un dottore!».

«Gettala, Peter!».

Ma il fratellino disubbidiente si cacciò la pasticca in bocca mandandola giù senza masticare. La pasticca gli andò di traverso. Cominciò a tossire; a diventare viola. Opa gli batté la mano sulla schiena e tutti prendemmo un grande spavento. Terminata la crisi e scongiurato il pericolo di soffocamento, Opa disse: «Si torna a casa, la gita è finita».

«Di già?» brontolò Peter, facendo il muso lungo e piangendo per aver sputato la pasticca.

Il tempo non voleva passare.

Finalmente sentimmo la chiave nella serratura: erano arrivati! Il cuore mi saltò in gola e tutti ci precipitammo nel corridoio. Vidi un uomo alto e magro in uniforme. Aveva capelli neri e ondulati, un poco brizzolati sulle tempie, e sorrideva. Sul volto affilato spiccavano due occhi neri nei quali non mi riconoscevo; non so perché, ma mi ero immaginata mio padre con gli occhi azzurri! Provai un’emozione così violenta che mi colsero dei crampi al ventre, al punto che dovetti correre in bagno. Quando mi riaffacciai nel corridoio non c’era più nessuno; si erano tutti spostati nel salotto.

Entrai anch’io e vidi Peter seduto sulle ginocchia di nostro padre mentre stava dicendo, gongolante: «... e poi gli ho detto: “Io sto bene, Herr Hitler, che bella fibbia, Herr Hitler!”». Sbirciava papà per vedere la sua reazione. Ma mio padre guardò nella mia direzione e allora mise subito Peter per terra e mi venne incontro. Peter gridò, deluso: «Stefan è mio, è mio Stefan!», pestando i piedi.

Mio padre mi abbracciò e mormorò: «Come stai, bambina mia?». Ma io non fui in grado di rispondere perché avevo un gigantesco nodo alla gola. Piansi fra le braccia di mio padre, sentendomi finalmente al sicuro.