XXI

Non avevo più alcun dubbio che mio padre fosse molto innamorato della moglie, lo avevo capito da tanti particolari. Ad esempio, avevo scoperto che lui le scriveva ogni giorno una letterina d’amore che le metteva poi sotto il cuscino. Erano tutte ornate di fiorellini e di cuoricini trafitti e dicevano tante frasi dolci; mentre le leggevo mi bolliva dentro una gelosia sdegnata. Lui si sprecava in tenere romanticherie per la moglie, mentre si mostrava riservato e distaccato con noi figli. Non lo concepivo. Non ne aveva il diritto! Inoltre mi indispettiva il fatto di aver conosciuto il temperamento passionale di mio padre ancor prima delle sue qualità paterne, che mi restavano del tutto oscure.

 

Dopo qualche tempo le autorità ci concessero il nulla osta per il rimpatrio e mio padre si preparò alla partenza. Noi lo avremmo raggiunto appena fosse riuscito a creare una base sicura per noi quattro, ma sarebbero potuti passare molti mesi. Anche l’Austria era appena uscita dalla guerra e aveva gli stessi problemi della Germania: disoccupazione, miseria e penuria di alloggi.

Poiché gli sposi sarebbero rimasti a lungo divisi, utilizzavano ogni momento per restare soli, cercando di sbarazzarsi di me e Peter per qualche ora. Ma Opa in quel periodo non stava bene e non poteva occuparsi di noi, così toccò a me offrire, volente o nolente, una collaborazione alla matrigna.

Nelle nostre vicinanze avevano riaperto una piscina, e un giorno la matrigna ci propose di andarci. Peter saltò dalla gioia e anch’io dovetti confessare il mio entusiasmo. Non avevo le idee chiare su come fosse una piscina, ma capivo che aveva a che vedere con molta acqua, elemento per il quale provavo un’autentica adorazione dopo che mi era stata negata per tanto tempo.

Affare fatto! La matrigna ci preparò una piccola provvista di cibo che avremmo dovuto consumare solo dopo aver fatto il bagno e mi fece una serie di raccomandazioni riguardanti Peter. Poi mi consegnò due costumi da bagno che aveva rimediato al mercato nero e ci accompagnò alla fermata del tram. Peter era euforico e, quando vide arrivare il tram scampanellante, si mise a saltare e a battere le mani; non volle nemmeno più salutare la matrigna e mi trascinò verso la vettura come impazzito.

Il tram era semivuoto e Peter sedette su tutte le panche finché non ne trovò una particolarmente simpatica. Erano panche in legno lucido e lui vi strofinò il fondo dei calzoncini; appannò il vetro, disegnò col dito una bomba e commentò ogni cosa che vedeva passare con grandi strilli, tanto che gli altri passeggeri ci guardavano molto infastiditi. Arrivati alla nostra fermata non voleva più scendere; andare in tram lo esaltava al punto che era pronto a rinunciare alla piscina. Dovetti trascinarlo letteralmente giù dalla carrozza, mentre lui si dimenava e scalciava, facendomi fare la solita brutta figura. Per fortuna si incantò subito davanti all’ingresso della piscina, che era proprio di fronte alla fermata del tram. Entrammo in un grande portone sopra il quale campeggiava la parola FREIBAD.

La biglietteria era un cubo di cemento, all’interno del quale stava una donna non più giovane che ci guardò severa: «Sapete nuotare, ragazzi?». Peter annuì automaticamente, mentre io dissi la verità: «No».

«Guai se vi muovete dalla vasca dei bambini!» ringhiò la donna, che si cacciò una sigaretta fra le labbra e mi consegnò i biglietti d’entrata e la chiave per una cabina.

La piscina era deserta, e io rimasi estasiata di fronte alle due vasche: quanta acqua! Ricordai le poche gocce di acqua cui avevamo diritto nella cantina della Lothar-Bucher-Strasse; qui invece avrei avuto a disposizione un’intera vasca tutta per me! Era incredibile, mi sembrava di sognare.

Era una bellissima giornata e sulla superficie dell’acqua luccicava il sole; sul fondo si agitavano tremuli riflessi di luce. La piscina dei bambini era più piccola di quella dei grandi, ma a Peter piaceva proprio quella più grande. «Io vado in questa,» dichiarò «è più bella».

«Non puoi» gli dissi.

«Perché?».

«Perché lì non tocchi».

«Non tocco?».

«L’acqua è più alta della tua testa!».

«Non importa».

«Se non sai nuotare, anneghi!».

«No».

Trascinai Peter verso la cabina temendo che avrebbe cominciato il suo solito numero. Spesso si divertiva a far finta di non capire solo per provocarmi, ma io stavolta non avevo voglia di discutere. Volevo andare in acqua!

La cabina era una casetta di legno con un piccolo tetto spiovente. Dentro c’erano una panca e diversi ganci alle pareti per appendere i vestiti. Ci spogliammo, infilammo i costumi e corremmo fuori, pronti a goderci il bagno. Peter si fermò sul bordo della piscina dei grandi, ma la donna della biglietteria gridò da lontano: «Guai a te se non ti sposti subito verso la vasca dei bambini, zuccone!». Peter si convinse. Ma appena il mio terribile fratellino ebbe intinto il piede nella vasca dei piccoli esclamò: «Brrrr! È gelata!» e tornò di corsa nella cabina. Lo chiamai diverse volte ma lui non ricomparve. Allora lo lasciai perdere ed entrai piano nella vasca finché non riuscii a immergermi fino al collo. L’acqua, che in un primo momento mi era sembrata freddissima, si rivelò invece tiepida. Cominciai a sguazzarci dentro. Mi sentivo felice.

Mi immergevo, aprivo gli occhi e guardavo verso la superficie che tremava come spazzata dal vento. Il cielo appariva ondeggiante e di un colore blu notte. Mi spaventai. Riemersi e lo vidi calmo e azzurro; mi tranquillizzai. Non avrei mai più visto cieli così limpidi come quello di Berlino nell’immediato dopoguerra.

Finalmente decisi di uscire dall’acqua, anche perché avevo le dita raggrinzite. Ma quando tornai nella cabina vidi Peter con la faccia di uno che ha rubato la marmellata. Mi bastò uno sguardo per scoprire che aveva mangiato tutte le nostre provviste, compresa la mia razione! Mi infuriai terribilmente. L’acqua mi aveva scatenato una gran fame e lui aveva mangiato ogni cosa! Allora gli gridai in faccia: «Sei sempre lo stesso! Sei un ladro!», e gli mollai uno schiaffo. Lui rimase immobile e mi fissò con un’espressione di odio. Stava lì, rigido e serio, con gli occhi senza lacrime. Ma a un tratto si precipitò fuori dalla cabina e vomitò nella vasca.

La donna della biglietteria accorse sdegnata e si mise a sbraitare. Ci definì zingari, vandali, scarafaggi e imbrattatori di spazi pubblici. «Fuori!» urlò indicando col dito tremante l’uscita della piscina. «Entro cinque minuti non voglio più vedere nemmeno la vostra ombra, altrimenti chiamo la polizia!».

Naturalmente stava esagerando, ma io mi sentii terribilmente mortificata. Spinsi Peter nella cabina e lo costrinsi a vestirsi; lui non voleva saperne. Per poco non gli tirai un altro schiaffo. Alla fine, nuovamente vestiti, sfrecciammo davanti alla biglietteria e scappammo. Ero così furiosa con Peter che non gli parlai per tutto il tragitto in tram. Lui appannava il vetro e teneva il muso lungo disegnando col dito diverse forme di bombe. Una volta scesi dal tram, cominciai a preoccuparmi: la nostra permanenza nella piscina non aveva superato la mezz’ora, così la matrigna si sarebbe arrabbiata con me. Mi aveva fatto capire che non si aspettava di vederci rientrare prima di due, tre ore!

Tornati a casa, suonai a lungo alla porta. La vicina, che non era più la vecchia amica della matrigna ma una donna anziana con una figlia semiparalizzata, sbucò dal suo uscio chiedendo se per caso fossimo rimasti chiusi fuori. Nello stesso istante la matrigna aprì la porta e mostrò una strana faccia. Era avvolta in una vestaglia luccicante che non le avevo mai vista addosso e domandò in tono acido: «Siete già qui? Che bravi...». Poi gridò verso la camera matrimoniale: «Quei birbanti sono già tornati, Stefan!». E sparì nel bagno per farsi una doccia.

In seguito non volle nemmeno sapere cosa fosse successo e zittì perfino Peter che stava abbozzando una delle sue solite storie che finivano con la mia assoluta colpevolezza. Ci spedì nella nostra camera e Peter, sconcertato, diede un calcio rabbioso a un piede del letto.

Pochi giorni dopo mi si presentò un’eccellente occasione per recuperare un po’ di stima da parte della matrigna. Mi incaricò di andare in un posto dove avrei dovuto ritirare un pacchetto per mio padre, contenente dei colori a olio. Lui stava lavorando al ritratto di Ursula e voleva terminarlo prima della partenza, ma aveva finito alcuni colori: era l’occasione per riabilitarmi. Naturalmente dovevo accollarmi il mio terribile fratellino.

Il posto non era lontano, solo poche fermate di tram. Ormai col tram avevo dimestichezza.

Questa volta la matrigna non ci diede le provviste, ma dei soldi per comprarci il gelato. In quel periodo stavano aprendo le prime gelaterie e la gente si accalcava davanti ai banchi, attratta dalla novità. Per me e Peter il gelato era una delizia totalmente sconosciuta.

Scendemmo alla quarta fermata, come si era raccomandata la matrigna; a quel punto avrei dovuto rivolgermi a un passante per farmi indicare la strada il cui nome era scritto su un foglio di carta insieme al numero civico. Fermai un vecchio, che disse: «In fondo al viale, piccola, non puoi sbagliare, è l’unica casa ancora in piedi». Domandai anche di una gelateria e lui me la indicò col dito: «Là, dove vedi la fila».

Ci mettemmo in coda e Peter si mostrò subito impaziente. Finalmente toccò a noi e chiedemmo due gelati alla vaniglia. Disgrazia volle che il gelato fosse piuttosto duro e incastrato fra due cialde; appena fummo usciti dalla bottega, a Peter scivolò il gelato dalle cialde finendo per terra. Rimase con le cialde in mano e letteralmente senza parole. Dopo pochi istanti emise un urlo di protesta così straziante che la gente si precipitò fuori dalla bottega per vedere che cosa fosse successo. Peter strillava che voleva il mio gelato ma io non fui neppure sfiorata dal pensiero di cederglielo. Se aveva perduto il suo, peggio per lui! Ma Peter urlava, si gettava in terra e voleva a ogni costo il mio gelato. Allora una signora mi si avvicinò e disse minacciosa: «E dagli il gelato!». Mi difesi: «Lui ha fatto cadere il suo!». Ma la donna non mi credette: «Poche storie, ragazzina, rendi a tuo fratello il gelato! Perché è tuo fratello questo angelo, vero?». Due occhi a spillo mi fissavano. «Ssssìì...» sibilai fra i denti.

«Allora rendigli il gelato!» ripeté l’altra con un tono così duro che mi intimorii. Cedetti il mio gelato con l’odio nel cuore.

Peter si illuminò immediatamente di soddisfazione, cominciò a leccare avidamente, e quel lappare mi fece prudere le dita. Lo detestavo! Furiosa, mi incamminai a grandi passi, cosicché almeno facesse fatica a seguirmi; la fretta gli avrebbe impedito di gustare il gelato! Lui infatti mi veniva dietro ansando, mentre continuava a darsi da fare con la lingua. Ma a un tratto un pezzo di cialda gli andò di traverso: cominciò a tossire e a sputare, per cui dovetti fermarmi per soccorrerlo. Gli battei la mano sulla schiena come aveva fatto Opa quella volta che aveva inghiottito la pasticca per il mal di gola, e finalmente si riprese. Era rosso e sudato e aveva gli occhi sgranati e lucidi, ma mandò giù ugualmente l’ultima scheggia di cialda leccandosi le dita. Subito dopo si lamentò di avere le dita appiccicose. Gli dissi di bagnarle con la saliva e di pulirle con l’erba. Complicò l’operazione in modo inverosimile.

Finalmente potei proseguire spedita lungo il viale alberato che da entrambi i lati esibiva malinconiche rovine. L’asfalto era ancora disseminato di crateri; Peter provò a nascondersi in uno di questi per giocare alla guerra. Non lo degnai nemmeno del più piccolo commento. Allora lui fece il broncio e lo sentii brontolare alle mie spalle: «Helga è una stupida capra! Helga è scema!». Per un po’ lo ignorai, ma quando, a un certo punto, mi voltai, vidi che stava raccogliendo dei frutti caduti dagli alberi ed era sul punto di cacciarseli in bocca. «Cosa mangi?!» urlai. «Fammi vedere!». Lui ubbidì, più per l’intensità del mio urlo che per docilità, e me li mostrò. Erano piccoli frutti rossi, delle dimensioni di chicchi di mais. Ne assaggiai un paio: erano dolci e farinosi. Se qualcuno doveva morire avvelenato, almeno fossi io!

Peter mi osservò con vivo interesse domandandomi di tanto in tanto se stavo morendo o no, perché lui aveva fame. Era davvero cinico. Dal momento che non ero morta, raccogliemmo una gran quantità di quelle palline rosse e ci riempimmo lo stomaco. Ma subito dopo a Peter venne il mal di pancia e andò in un cratere per liberarsi indisturbato. Infine gridò dal fondo della buca: «La carta! la carta!», e io gli gettai dell’erba secca che cresceva ai margini del marciapiede. Finalmente lui sembrava tranquillo, ma di lì a poco si lamentò che qualcosa lo pizzicava nelle mutande: si trattava di alcuni fili d’erba secca. Eliminato anche quell’inconveniente, proseguimmo. Arrivammo all’ultimo edificio ancora in piedi. Il numero civico coincideva. Sul portone c’era un cartello con su scritto «Waldpach – colori e vernici», e sotto, in caratteri più piccoli: «Scantinato».

Entrammo dal portone accostato e ci trovammo in un tetro androne. Una freccia nera indicava lo scantinato. Scendemmo una scala male illuminata dai gradini sconnessi. C’era un invitante odore di cibo. Ai piedi della scala si leggeva «Waldpach – in fondo», così pensai che ormai eravamo arrivati alla meta.

Oltrepassammo due porte chiuse, ma la terza era aperta e vidi con stupore che c’era una cucina. Era da lì che proveniva l’odore di cibo! Dopo un attimo di esitazione entrai con Peter, che si era aggrappato al mio vestito.

C’era una stufa a legna accesa, e sul fornello un tegame in cui bollivano delle patate. Un altro tegame era stato tolto dal fuoco ed era ricolmo di polpette. Polpette di carne!

Fissai quel cibo prelibato e mi si annebbiò la vista. La fame arretrata mi aggredì con una tale violenza che, come in trance, allungai la mano, estrassi una polpetta dal sugo e me la infilai in bocca. Quasi svenni dal piacere. Il resto fu questione di un attimo: riempii di polpette le tasche del mio vestito, agguantai la mano di Peter e scappammo. Giunti in strada, continuammo a correre come inseguiti dal diavolo finché non fui costretta a fermarmi a causa di violentissime fitte alla milza. Subito Peter cominciò a tormentarmi: «Anch’io voglio le palle, anch’io!». Gli diedi una polpetta sperando di cavarmela con quella, ma lui protestò: «Tu ne hai di più, anch’io voglio averne di più!», e tanto fece che divisi il malloppo in parti uguali. Lui se ne riempì le tasche dei pantaloni e corremmo ancora fin quasi in fondo al viale. Finalmente ci arrestammo, ci sedemmo sotto un albero e mangiammo tutte le polpette. Solo allora mi resi conto di come eravamo ridotti, unti come due bonzi! La matrigna mi avrebbe uccisa! E non avevo ritirato il pacco con i colori!

Al ritorno successe il finimondo. La matrigna ci picchiò entrambi con una cinghia di cuoio e ci mandò a letto. Il giorno dopo perfino mio padre ci fece la predica, e fu molto duro. Per una settimana in casa regnò un’atmosfera da tregenda. Io mi sentivo più che mai a disagio, anche perché questa volta avevo torto davvero. Stranamente nemmeno mio padre andò a ritirare i colori e il ritratto di Ursula rimase incompiuto.