Capitolo 7
Nel languore del risveglio, Nick allungò un braccio in cerca del corpo di Hope, ma trovò solo il materasso vuoto. Si guardò attorno avvolto dalla penombra, tra lo scoppiettare della legna nella stufa. Aveva voglia di averla accanto, di poltrire nel tepore del suo abbraccio, invece lei se ne stava vicino alla finestra, pensierosa mentre portava alle labbra una tazza di caffè fumante.
«Perché non torni a letto?» la invitò, pigro. «È presto.»
«Scusa, non volevo svegliarti.» Nel tono spiccò una nota di malinconia che lo fece accigliare.
«Va tutto bene, bellezza?»
Hope annuì, ma non gliela diede a bere, quindi abbandonò il calore delle coperte e calzò i pantaloni, assonnato ma deciso a scoprire cosa fosse accaduto.
«Cosa ti preoccupa?» domandò ancora, cingendola da dietro. «Anche se non stai cucinando torte e questo è un buon segno, giusto?» provò a sdrammatizzare.
«Solo perché ho esaurito gli ingredienti.»
«Dunque qualcosa c’è che non va.»
La sentì sospirare prima di sgusciare dal suo abbraccio e posare la tazza sul tavolo.
«Ieri ho ricevuto una lettera.» Frugò in tasca e tirò fuori la busta sulla quale spiccava un’elegante calligrafia. «È di Andrew Scott, ma temevo di dirtelo dopo che lo hai preso a pugni nemmeno un mese fa.
»
«E perché me lo stai dicendo, allora?»
«Perché non voglio segreti tra noi, lo sai.» Gli porse la lettera, seria in volto. «Puoi leggerla se vuoi.»
Esitò un istante prima di afferrarla ed estrarre il foglio dalla busta. Scorse le prime frasi mielose e si maledisse per aver dato retta alla gelosia che lo aveva spinto a leggere. Scott si scusava per il proprio comportamento, per averle rubato quel bacio, ma non faceva mistero dei propri sentimenti. Dichiarava di sentire la mancanza del sorriso di Hope, di pensare soltanto a lei, alla vita che avrebbe potuto offrirle. Una casa a New York tutta sua, un futuro da mantenuta ma colmo di agi. Si rammaricava di non poterle offrire di più e confessava di avere famiglia, ma non per questo sarebbe venuta meno la devozione nei suoi confronti.
Nick accartocciò il foglio e si avvicinò alla stufa per sollevarne il coperchio e dare alle fiamme i sentimenti di quel farabutto. Le osservò lambire il foglio ed ebbe l’impressione che a bruciare fosse però il suo cuore.
«Non m’importa di ciò che dice o ha da offrire.» Hope aveva parlato con sicurezza. Si voltò per ammirarne lo sguardo sincero e si sentì travolgere dalle aspettative che vi lesse. «È con te che voglio creare il mio futuro, la nostra famiglia qui a North Platte.»
Ecco giunto il momento più temuto, ed era arrivato prima del previsto. Nick puntò gli occhi oltre la finestra, sul bagliore di una lampada a olio dietro il telo di una tenda. Era quella di una famiglia di mormoni, un marito e quattro mogli, due delle quali prossime al parto. Figli che si aggiungevano ad altri cinque
.
«Ci sono uomini fatti per un genere di vita, Hope, e uomini fatti per altro.» La vide aggrottare le sopracciglia e si sentì un verme per ciò che stava per dire, ma era la cosa giusta da fare. «North Platte è solo il primo dei molti posti in cui vivremo e non intendo creare una famiglia in questa precarietà. Sposarmi e avere dei figli non è mai stato un mio desiderio e mi dispiace che tu l’abbia creduto.» Azzerò la distanza tra loro, spinto dal bisogno di rassicurare entrambi. «Ma voglio stare con te, perché ti amo.» Si chinò per posare un bacio su labbra che sapevano di caffè e amarezza. «Perché io e te siamo nati per stare insieme e tutto il resto sono complicazioni che non ci possiamo permettere.»
«Che non ti vuoi permettere.» Precisò lei, scostandosi dal suo abbraccio. «Ma cosa farai se resterò incinta? Mi chiederai di abbandonare nostro figlio in nome della tua libertà?»
Non sapeva cos’avrebbe fatto in quel caso. C’erano mille risposte che si affacciavano alla mente e sentiva che nessuna gli apparteneva davvero. Rifiutava l’idea di abbandonare un figlio quanto quella di diventarne padre. Non voleva la responsabilità di una vita a cui badare, qualcuno per il quale avrebbe dovuto cambiare obiettivi e abitudini. Era consapevole che ciò avrebbe creato una voragine tra loro, perché lei era giunta fin lì con un obiettivo preciso e pareva decisa a non modificare i propri progetti.
«Non posso darti ciò che vuoi, mi dispiace.» Le voltò le spalle e andò a versarsi del caffè, ma solo per riempire il silenzio calato tra loro
.
L’aveva ferita e si maledisse per questo, eppure non tornò sui suoi passi. Era cocciutaggine? Paura? Difficile dirlo.
Per Hope, invece, era difficile mandar giù la delusione. Fissava la schiena nuda di Nick e intanto si dava della stupida per essersi illusa, per aver sperato che lui l’amasse tanto da volere una vita normale
per loro. Si domandò cosa la trattenesse dal rispondere a Andrew Scott e dirgli che, sì, accettava il futuro da mantenuta al suo fianco. La risposta giunse nell’angoscia salita a chiudere la gola.
Denaro, agi e tranquillità non valevano un solo brivido di quelli che Nick sapeva donarle.
Si strinse nello scialle e tornò a guardare oltre il vetro. La famiglia di mormoni stava uscendo dalla tenda alla spicciolata, caricavano i propri averi sul carro, pronti a lasciare la città come avevano già fatto in molti. Pian piano North Platte si stava spopolando ed era chiaro che presto non ci sarebbe stato di che vivere. Nick aveva ragione, pensare di restare era assurdo.
L’alba gettava riverberi rosati sui teli candidi. Vele nautiche, ecco cosa si era usato per creare quella città sorta nel nulla. Bianche e resistenti, avevano retto al vento e al gelo dell’inverno. Si sentì fatta della stessa stoffa. Quanto vento e quanto gelo aveva dovuto sopportare il suo cuore! Eppure riusciva ancora a sperare in un futuro migliore, in qualcosa che l’avrebbe ripagata di tutto quanto.
Ignorava cosa il destino avesse in serbo per lei e Nick, ma sapeva che non sarebbe diventata l’amante di Andrew Scott
.
«Quando partiremo?» domandò, senza staccare gli occhi dal carro dei mormoni.
«Presto. Una settimana, forse due.» Il tono era distante.
Qualcosa si era spezzato tra loro, le pareva quasi di scorgere lo squarcio nel proprio cuore. La speranza di poco prima si scontrò con la realtà dalla quale troppo spesso decideva di fuggire. Nick non sarebbe cambiato, tra loro tutto sarebbe rimasto uguale al presente, spettava a lei decidere se restare o andarsene. Cosa avrebbe perso, dopotutto? Forse lui nemmeno l’amava, di certo le responsabilità erano una scommessa che Nick temeva di giocare. Doveva essere comodo averla nel letto e come socia, soprattutto dopo il bel lavoro svolto nel reclutare le ragazze di New York. Ora la casa da gioco vantava un’ala in cui gli uomini potevano ballare e corteggiare belle ragazze. Quei poveretti pagavano un dollaro per acquistare un’illusione. Non erano troppo diversi da lei.
«Bene, sarà interessante veder sorgere una città.» Si strinse nello scialle, afferrò la cesta con il bucato e si avviò alla porta. Aveva bisogno di prendere un po’ d’aria e sgranchire le gambe, ne avrebbe approfittato per lavare i panni. Varcò l’uscio senza voltarsi, non era necessario guardarlo per immaginarne lo sguardo contrariato.
L’aria frizzante del mattino le diede il buongiorno portando con sé l’odore di erba bagnata, così diverso dal miasma delle vie cittadine di New York in cui era cresciuta. Accennò un saluto al nuovo barbiere, se ne stava sulla soglia della bottega appartenuta a Bart e le doveva ancora parte del denaro per la cessione, ma pareva essersene scordato. Forse era giunto il momento di rinfrescargli la
memoria.
«Come vanno gli affari, John?» domandò nel raggiungerlo.
«Da quando le donne si occupano di certe cose?» ribatté lui, suscitando l’ilarità dei tre tizi seduti sotto alla tettoia.
«Da quando mi dovete metà dei soldi pattuiti.» Sorrise, affabile, anche se avrebbe voluto gettargli contro la cesta e tutto il suo contenuto.
«Perché non torni a mostrare il culo ai tuoi clienti, fiorellino?» Un’altra grassa risata.
Impossibile essere accomodante con quel tizio, così come con la maggior parte degli uomini di North Platte. Si voltò attirata da un movimento alla sua destra e scorse un individuo uscire dal bordello, l’aria soddisfatta e le dita ancora impegnate a richiudere la patta dei calzoni. Ecco cos’erano lei e le ragazze per tutti loro: oggetti con i quali trastullarsi.
«Non mostro il culo da un po’, strano che non ve ne siate accorto, trascorrete intere serate a perdere ai dadi il denaro che mi dovete!»
Questa volta, la risata del trio fu tutta per il suo avversario.
«Ti ho pagato abbastanza per questo buco, ragazzina.» Non c’era più traccia di divertimento sul volto barbuto. «Ora smamma, non ho tempo da perdere con una puttanella da quattro soldi.»
«Siete disonesto, sapete Mr. Doyle?» Non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da un simile farabutto. «Quel negozio era di mio marito e ve l’ho ceduto a un prezzo stracciato. Staremo a vedere se non mi darete il dovuto.»
Girò i tacchi senza attendere risposta e ignorò l’insulto che l’altro le ringhiò dietro.
Al fiume trovò un paio delle ragazze di Rachel e un altro crocchio di donne intente a strofinare i panni sotto l’occhio vigile di alcuni soldati. Lei, però, si mise in disparte senza troppa voglia di chiacchierare. Le mani immerse nell’acqua gelida, le ginocchia sulla sponda fangosa, ascoltava frammenti di discorsi mentre la mente sondava pensieri nei quali infine si rinchiuse.
Cosa ci faceva in quel posto?
Le dita arrossate per il freddo, il vento che portava con sé polvere e odori di un luogo che non le apparteneva. Avrebbe apprezzato ogni attimo vissuto lì, se la prospettiva fosse stata quella di vivere come desiderava. Conquistare le terre selvagge insieme a Nick e insieme creare il loro futuro, qualcosa da lasciare ai loro discendenti per non rendere vano il proprio passaggio sulla terra.
Perché per lui era così difficile da comprendere e accettare?
Le dita smisero di strofinare la stoffa, e sbuffò nel dirsi che no, tutta quella polvere e fatica non le sarebbero piaciute comunque. Se Bart non fosse morto, con ogni probabilità ora sarebbe stata l’infelice moglie di un barbiere sempre sbronzo e pronto a sperperare nel gioco ogni loro avere e avrebbe odiato North Platte molto più di adesso.
Strizzò la camicia appena lavata e la ripose nella cesta insieme al resto del bucato ormai pulito. Sulla strada del ritorno avrebbe raccolto qualche fiore da posare sulla tomba del marito, pentita di quei pensieri poco gentili
.
Quando raggiunse il cimitero stava ancora rimuginando sulla discussione avuta con Nick. La mattina era iniziata piuttosto male e si maledisse per avergli rivelato la verità sulla lettera di Andrew. Forse, in futuro, sarebbe stato meglio tacere ed evitare così nuovi scontri tra i due e malumori tra loro. Era ovvio che non avrebbe risposto alla lettera né alimentato in alcun modo le speranze dell’altro, ma aveva imparato a tenere socchiuse le porte che un giorno avrebbero potuto offrire riparo.
Nick era tutto ciò che desiderava, il brivido nel cuore, lo sguardo ardente in cui perdersi, il mascalzone che sapeva farla ridere persino tra le lenzuola... ma sapeva anche distruggere i suoi sogni con una sola parola.
Si mise a sedere accanto alla lapide del marito e sistemò una pietra uscita dal perimetro che delimitava la sepoltura.
«Mi hai messo in un bel guaio, Bart.» Sospirò portando le mani in grembo. «Cosa devo fare con Nick?»
Non giunse alcun segno a indicare la direzione da prendere, solo un gran trambusto di voci concitate che la costrinse a voltarsi verso i binari. Scorse il treno degli operai fare ritorno in città, qualcuno saltava giù dai vagoni ancor prima che la locomotiva arrestasse la corsa, mentre la cavalleria scortava il convoglio con i fucili che luccicavano sotto il sole del mattino.
Si alzò, allarmata, e scrutò il caotico riversarsi della gente in direzione del convoglio. Scorse un paio di barelle e uomini sorretti dai compagni, sembrava ci fossero parecchi feriti. L’idea di un attacco indiano la fece rabbrividire, ma trovò il coraggio di raggiungere la città
ripetendosi che forse era accaduto un incidente al cantiere. Sentì le gambe tremare e un freddo sudore solcare la fronte, quando giunse in mezzo al caos di feriti e soldati che aveva reso la banchina un ospedale da campo.
«Hope!» Rachel comparve al suo fianco con un secchio d’acqua in una mano, un mestolo nell’altra. «Il dottore ha chiesto a me e alle ragazze se potevamo renderci utili, ti vuoi unire?»
«Cosa dovrei fare?» Si guardò attorno e fissò lo sguardo sulla freccia che fuoriusciva dalla spalla di un poveretto. Nessun incidente ma un attacco indiano avvenuto a poche miglia dalla città. Guardò meglio l’uomo ferito e lo rivide seduto al tavolo della casa da gioco, sorridente e rilassato a gustarsi uno dei suoi balletti, e ora eccolo con il volto distorto dalla sofferenza.
La vita era un attimo in quel posto dimenticato da Dio.
Immaginò i volti dipinti di quei selvaggi. Sui giornali aveva letto della loro ferocia, ma non ne aveva mai incontrato uno nemmeno lì, nella loro terra. Doveva essere facile per gli indiani ingaggiare scaramucce con gli operai, conoscevano il territorio meglio di chiunque altro ed erano in netto vantaggio.
Si sentì chiudere la gola.
«Stai bene, tesoro?» La voce di Rachel era giunta ovattata dal battito folle del cuore.
Cercò di regolare il respiro e di distogliere lo sguardo dalla manovra di estrazione della freccia, ma il grido del ferito straziò le orecchie. Portò una mano alla bocca per soffocare l’urlo e il conato salito alla gola, poi si sentì vacillare e tutto si fece nero
.
Nelle orecchie un ronzio intenso, le membra molli, e la sensazione di trovarsi stesa a terra mentre il cuore riemergeva dall’oblio e la voce di Rachel penetrava nel cervello chiamando il suo nome.
«Hope! Apri gli occhi, tesoro!»
Aprire gli occhi... un’impresa che le costò fatica perché il suo corpo pareva non volerne sapere di obbedire ai comandi della mente. Avvertì il fresco di una pezza d’acqua a tamponarle la pelle e il respiro farsi più regolare. Quando schiuse le palpebre si trovò a fissare il volto preoccupato dell’amica.
«Che diavolo, mi hai fatto prendere un colpo! Potevi dirlo che ti fa impressione il sangue.»
«Io non...» iniziò a giustificarsi, ma infine rinunciò. Era ovvio che l’amica avesse più familiarità con certe cose. Ripensò alla cicatrice che Nick aveva sul fianco e non le fu difficile immaginare chi lo avesse soccorso. Le parve quasi di vederli, giovani e spaventati alle prese con la ferita, il sangue e tutto il resto. «Perché fai questa vita, Rachel?» domandò a bruciapelo, confusa dai propri pensieri. «Cosa ti trattiene qui?» Ma forse la domanda era rivolta a se stessa.
Lo sguardo dell’altra tremò un istante prima di farsi risoluto come sempre.
«Tieni, bevi un po’ d’acqua.» Le porse il mestolo che lei rifiutò.
«Scusa, è meglio se vado a casa.» Si rimise in piedi, frastornata e stanca, ma raccolse la cesta con il bucato e cercò di ignorare quanto accadeva intorno. «Non sarei di grande aiuto.
»
Si sentì una codarda mentre raggiungeva la casa da gioco senza voltarsi. Nel petto la paura per quanto accaduto, per la consapevolezza che la minaccia di un attacco indiano non fosse remota quanto aveva sperato. Erano a un passo da loro, forse li stavano osservando nascosti tra l’erba alta, fieri delle vite che avevano strappato al mondo.
Stava per aprire la porta e cercare rifugio nel tepore della cucina, ma l’uscio si spalancò per lasciar uscire Nick. Il fucile in mano e il cinturone che risaltava sull’abito elegante. Aveva il portamento di un principe e lo sguardo di un furfante.
«Hope... dov’eri? Mi hai fatto stare in pensiero.»
«Davvero?» Sentì l’ironia creparsi nel disprezzo che gettò in quelle parole.
«Certo che sì; cosa credi?» Calcò il cappello in testa e le posò un bacio sulle labbra mentre la cingeva a sé. «Dimentichiamo quanto accaduto prima, per favore, non essere arrabbiata con me. Possiamo considerare chiuso quel discorso?»
Aveva forse alternativa? Sospirò, impigliata in un amore che non le concedeva via di fuga. Dopotutto, bastava un suo abbraccio a liberarla dal malcontento, lo sentiva fluire tra i brividi che esplosero nel petto spazzando via pensieri e preoccupazioni.
«Sei pallida come un cencio, ti senti bene?» fece ancora lui, accigliandosi.
«Non troppo a dire il vero. Sono appena svenuta come una stupida nel vedere i feriti.»
«Diavolo, ci dovrai fare l’abitudine, tesoro.» L’abbraccio si fece protettivo e lei si lasciò cullare dalla tenerezza di
quell’attimo. «Va’ a riposare, ti farà bene. Io rientrerò il prima possibile.» La lasciò e sistemò il fucile in spalla.
«Dove stai andando?» chiese preoccupata.
«Mi unisco ai soldati e agli altri uomini per controllare che i dintorni siano sicuri.»
«Devi proprio andare?» La sola idea di saperlo lontano dalla città e da lei la terrorizzava.
Nick annuì. «Starò attento, prometto.» Un altro bacio, languido e dolce. «Fammi un sorriso, amore mio» le sussurrò sulle labbra che obbedirono all’ordine nonostante tutto.
Ferma sulla soglia lo osservò allontanarsi consapevole di quanto grande fosse il potere che esercitava su di lei. Era stato così fin da subito, dal primo balzo che il cuore aveva compiuto nel vederlo al suo arrivo in città.
La loro storia era scritta nel destino e solo il destino poteva deciderne il corso.
*
La osservava dormire, rapito da pensieri che facevano a pugni tra loro.
Com’era finito invischiato nell’amore?
Come aveva fatto a vivere senza di lei fino al dannato giorno in cui Hope aveva messo piede a North Platte?
Sussurrò una bestemmia all’indirizzo di Bart. Quel farabutto d’un ubriacone gli aveva lasciato proprio un bel regalo.
Bella era bella, perdio, pensò nello sfiorarle le labbra con la punta delle dita. Stupenda
sarebbe stato il termine
adatto, ammise tra sé nel vederle schiudere gli occhi in un battito di ciglia assonnato.
«Nick...» mormorò Hope, gettando uno sguardo al lume che rischiarava la stanza. «Quanto ho dormito?»
«Molto, è sera ormai.»
«Allora devo andare in sala! Mi hai lasciato riposare troppo!» Si tirò su di scatto ma lui la trattenne dall’alzarsi.
«Siamo chiusi questa sera. Rachel e le ragazze hanno trascorso la giornata ad aiutare il dottore e sono a pezzi, inoltre ho deciso che domani inizieremo a smontare la tenda per trasferirci a Julesburg.»
«Domani? Avevi detto tra una settimana o due.»
«Meglio togliersi il pensiero subito.» Le prese la mano e la invitò ad alzarsi. «Vieni, ho una sorpresa per te.»
Lo sguardo interrogativo di Hope brillò di curiosità.
«Qualcosa che ti piacerà» disse nel condurla verso la stufa accesa sulla quale spiccava il coperchio forgiato dal fabbro su sua commissione. Ne afferrò i manici di legno per sollevarlo e l’espressione incredula di Hope ripagò di ogni soldo speso. «Così potrai cucinare le tue torte senza rischiare di bruciarti armeggiando con quel vecchio tegame.»
Sperava servisse a risanare in parte lo strappo. La discussione di quella mattina era stata dimenticata solo in apparenza e aveva messo in chiaro questioni difficili da ignorare. Hope poteva fingere di accontentarsi di quella vita, così come lui poteva continuare a rifiutarsi di assumersi le proprie responsabilità, ma la verità era che fin quando uno dei due non avesse ceduto alla volontà dell’altro, la loro storia sarebbe stata un’altalena in bilico
tra felicità e malcontento.
«Sono incredula» fece lei, con meraviglia.
«Guarda, c’è il tuo nome inciso.» Indicò il bordo decorato con motivi floreali.
«È stato un pensiero davvero tenero, Nick.»
«So quanto ami sfornare torte.» Posò il coperchio per prenderla tra le braccia. Era tempo di spazzare via ogni pensiero cupo e ritrovare la serenità tra i baci che già sentiva sulla pelle. «E volevo farti un regalo per ringraziarti di essere qui, al mio fianco.» Le labbra su quelle di Hope, le dita ad abbassarle le spalline dell’abito.
«E dove altro potrei essere, ormai?» Il capo rovesciato per concedergli la linea delicata del collo.
«Posso solo dire dove ti vorrei adesso» rispose, mentre il volto affondava tra i seni ormai nudi. «Nel mio letto... senza tutta questa stoffa addosso.»
«Sembra una buona idea, in effetti.» Un sorriso malizioso le accese gli occhi, mentre le dita gli sbottonavano svelte la camicia.
Era sempre così tra loro, la scintilla di un istante dava vita all’incendio che già li divorava. Al diavolo i pensieri, i litigi. Al diavolo persino i Cheyenne che da qualche parte stavano festeggiando mostrando gli scalpi presi quel giorno. Avrebbero potuto essere i loro e, allora, tanto valeva godersi la vita e berla d’un sorso. Gli abiti a terra in un disordinato miscuglio di colori e stoffe, i corpi stretti in un abbraccio tra le lenzuola stropicciate, nel silenzio rotto solo dal crepitare del fuoco.
Le mani di Hope sulla sua schiena, il calore che lo avvolgeva in quella danza di gesti e sospiri. Sentiva di
appartenerle, di desiderare la dolcezza che leggeva nei suoi gesti. Provocante e ingenua in un unico sguardo, se non fosse stato per la paura di concederle troppo, le avrebbe confessato che una parte di lui voleva trascorrere la vita al suo fianco in quella famiglia che però rifiutava di creare.
Perché non darle retta? Pensò nel tremare di piacere quando le spinte si fecero più profonde e i gemiti della sua donna gli colmarono le orecchie.
Perché non lasciare che fosse il destino a decidere per lui, almeno quella volta?
Non ebbe il tempo di darsi una risposta, rapito dal vortice di emozioni che saettò dai lombi al cuore fino a offuscare la ragione per la frazione di quell’attimo sospeso nel tempo.
«Diamine...» riuscì a dire soltanto, mentre le si stendeva accanto, ansante e appagato.
Hope gli si accoccolò contro, le dita sottili intrecciate alle sue e l’aria rilassata.
Le posò le labbra sulla tempia, chiudendo gli occhi per scacciare i pensieri di un istante prima. Non poteva lasciare libero arbitrio al destino, sarebbe stato lui l’unico artefice della propria esistenza e aveva un piano preciso per il futuro. Un piano in cui i desideri di Hope non potevano trovare soddisfazione.
Denaro, soldi, una vita da avventuriero in giro per il paese.
«Sono sicuro che ti troverai bene a Julesburg» disse, sollevandole la mano per sfiorarla in un bacio.
«Di’ la verità... partiamo per via dell’attacco di questa mattina, non è così?
»
«North Platte non mi fa più sentire al sicuro, preferisco seguire la ferrovia e i soldati che la proteggono, e poi dobbiamo andar dietro ai nostri affari. Qui non c’è più nulla per cui restare, sono rimaste trecento anime delle cinquemila che vi abitavano e noi dobbiamo seguire gli operai e il loro denaro.»
Hope gli rivolse un sorriso nel rigirarsi puntellando il mento sul palmo della mano. Era una visione di dolce lussuria, con il volto incorniciato da ciocche scure che ricadevano in morbide onde sul lenzuolo. A prima vista pareva serena, ma lui riusciva a scovare la paura agitarne le iridi, celata dal bisogno di far apparire perfetto quel momento tra loro. Lo sapeva perché provava lo stesso anche lui.
Aveva paura.
Paura di perderla, paura di deluderla.
Paura di perdere se stesso e finire per diventare come quel padre che aveva sempre disprezzato. Infelice e disgustato da una vita che non lo gratificava.
Era troppo difficile assecondare il cuore per chi aveva scommesso tutto sulla ragione.
«E sia» fece lei, allungando il collo per baciargli le labbra, di certo ignara del suo tormento. «Partiamo per questa nuova avventura, allora... Dopotutto sarà un bene per me lasciare qui certe questioni» concluse, accigliandosi.
«Quali questioni?»
«Doyle.» Sbuffò, buttandosi sul cuscino. «Oggi gli ho chiesto il denaro che mi deve e lui mi ha trattato come una nullità.
»
«Avresti dovuto parlarne prima con me.» Il tono di rimprovero mitigato dalla carezza che lasciò scivolare lungo la linea del braccio di Hope. «E, comunque, ritroverai Doyle a Julesburg.»
«È un gran farabutto.»
«Ma anche un buon cliente.»
«Mi ha offeso, Nick...»
«È solo un irlandese scontroso, e io non ho voglia di parlare di lui.» L’attirò a sé stringendola in un abbraccio. «Voglio solo addormentarmi stretto a te, amore mio.»
Sapeva che Hope non aveva gradito quel suo chiudere il discorso, ma la sentì rilassarsi pian piano mentre esausti scivolavano nel sonno.