Capitolo 13
New York
Il passato era rimasto a miglia di distanza, insieme al suo cuore e alle lacrime versate, mentre Manhattan l’accoglieva nel più lussuoso dei quartieri. Mai aveva pensato di poter un giorno posare i piedi sulla via lastricata nella quale li aveva lasciati la carrozza presa a nolo. Immaginò sua madre e la vita che aveva sempre desiderato per lei, forse stava sorridendo lassù tra gli angeli di un paradiso che di certo aveva meritato.
«Eccoci arrivati, Hope.» Andrew indicò una delle villette a schiera di fronte a loro. La facciata in mattoncini rossi, l’elegante portone impreziosito da colonne simili a quelle dei templi antichi, sul quale sorgevano i tre piani della casa nella quale avrebbe vissuto.
Hope cercò di dissimulare lo stupore, ma l’incanto doveva essere palese nei suoi occhi.
«Non volete entrare?» domandò infatti lui, come divertito dal suo esitare.
Diamine, certo che lo voleva, solo che le gambe tremavano di fronte all’eleganza di quella zona. Mosse un passo sul marciapiede e sospirò nell’osservare la raffinatezza degli abiti sfoggiati da un paio di signore che
le passarono accanto. Probabilmente l’avevano scambiata per una domestica, ed era quello il posto che le sarebbe dovuto spettare in un simile quartiere. Ebbe l’impressione di essere fuori luogo, ma Andrew la esortò a seguirlo dentro casa e non poteva farlo attendere ancora.
«Va tutto bene, mia cara?»
«Mi sento solo un po’ stanca per via del viaggio.» Non era una menzogna. Aveva rifiutato di viaggiare nel comodo vagone di Durant e ora ne pagava lo scotto, ma l’alternativa sarebbe stata dividere il letto con Andrew e aveva preferito evitare situazioni sconvenienti.
Doveva stare attenta a ciò che faceva, ponderare le scelte e agire con prudenza. Per questo si mostrò gentile e grata con il suo spasimante, era l’unico appiglio al quale aggrapparsi in quel momento e lui lo sapeva. Stava giocando con lei in attesa del momento giusto per ottenere ciò che voleva, ma Hope aveva imparato a tenere a bada uomini molto più impetuosi di Andrew.
Quando rimase sola, disfò la valigia poi si guardò attorno nella casa spoglia. I mobili erano ricercati, ma mancavano le tende, le lenzuola e tutto ciò che avrebbe reso quelle mura la sua casa. Sua e di suo figlio. Quasi impazziva dalla gioia di poterlo crescere in un luogo tanto bello, lontano dalla vita che aveva conosciuto lei nei sobborghi di New York, tra fabbriche e occhi affamati.
Aveva adocchiato un paio di negozi lungo il tragitto, e fu lì che si diresse per fare compere, dopo aver indossato l’abito migliore. Per la prima volta in vita sua, varcò la porta di una bottega elegante e si lasciò servire fingendo di essere una signora agiata. L’anello di Bart di nuovo al dito,
come uno scudo contro le malelingue che presto si sarebbero chieste chi fosse la nuova arrivata, giunta da sola senza un marito e con un figlio in grembo.
Tende per camera e salotto, un completo di lenzuola ricamate, diamine le sognava da tutta la vita! Acquistò una tovaglia e una camicia da notte in mussola, leggera come una piuma.
«Potete consegnare tutto a questo indirizzo?» Aveva usato persino un tono regale.
La commessa annuì, prese il denaro e la salutò con il garbo dovuto alle clienti.
Si concesse il lusso di una passeggiata sotto gli ultimi raggi del sole, un’abitudine che avrebbe mantenuto perché amava quel momento della giornata, malinconico e magico con i colori del cielo che viravano al rosso di un tramonto ormai prossimo.
Quando giunse a casa, alzò lo sguardo verso le finestre buie, non c’era nessuno ad aspettarla, per la prima volta in tutta la sua vita si trovava a vivere da sola e un po’ la inquietava. Raccolse il coraggio ed entrò, forse accendere il camino avrebbe scaldato la casa e il suo cuore. Quasi esultò quando il garzone del negozio bussò per la consegna a interromperne la solitudine forzata.
«Entrate, potete posare tutto in salotto, vi faccio strada.» E intanto cercava qualche moneta da lasciare come mancia. Lo trattenne un istante con la scusa di farsi aiutare a sistemare le tende, ma appena ebbe finito, quello salutò, girò i tacchi e la lasciò di nuovo sola.
Bene, la sua vita ripartiva da lì, con un cuore da rattoppare e la prospettiva di meritare di più. Andrew le
stava offrendo un’opportunità che non poteva sprecare e si domandò cosa avrebbe preteso in cambio. Al momento non aveva alzato un dito su di lei, si era comportato da perfetto gentiluomo, come un benefattore che desiderava solo una compagnia platonica. Era ovvio che volesse riscattarsi ai suoi occhi, ma fin tanto che le cose fossero rimaste così, a lei sarebbe andato bene.
Nonostante queste buone premesse, la prima notte nella casa nuova trascorse insonne. Non aveva toccato cibo e si sentiva stanca, avvolta nella camicia di mussola che ora non pareva più così bella. L’orologio ticchettava in salotto, al lume fioco della lampada a olio che rifletteva bagliori dorati sulla tappezzeria a motivi floreali. La mente era lontana, tra l’erba alta di una prateria quasi prossima all’autunno, tra profumi che lì non potevano raggiungerla.
Cosa stava facendo Nick?
La notte era una cattiva consigliera, suggeriva di salire sul primo treno e ritrovare la felicità tra braccia che amava. Braccia che però l’avevano rifiutata. Gettò il volto tra le mani e pianse, finalmente libera di farlo senza dover celare lacrime e singhiozzi. Era sola e così sarebbe stato per molto tempo ancora.
Il silenzio era assordante, rotto solo dal monotono ticchettio che pareva penetrarle nel cervello. Paura, impotenza e rabbia. Sentiva il bisogno di fuggire, di aprire la porta e scappare lontano ancora una volta, ma non sarebbe servito a nulla perché dal dolore non si poteva fuggire. Si alzò di scattò, decisa a cercare rifugio tra le lenzuola, ma un dolore sordo al ventre le strappò un grido inchiodandola al suolo. La stanza vorticò attorno a lei con
un senso di nausea, tutto si fece incolore e un freddo innaturale l’avvolse. Persino il ticchettare dell’orologio terminò di battere nella sua testa e, mentre il pensiero andava al figlio che portava in grembo, si sentì trasportare nell’oblio accolta dal divano sul quale cadde svenuta.
*
Le teneva la mano da quando il dottore se n’era andato. Andrew osservava il volto di Hope e non sapeva cosa fare per arrestare le lacrime che rotolavano sulle guance immobili. Stesa nel letto, pareva svuotata di ogni emozione, non aveva quasi aperto bocca, accettando con arrendevolezza l’idea di aver perso il bambino. Eppure, il dolore era palese nei suoi occhi e tenerlo dentro le avrebbe fatto solo più male.
«Perché non mi dici qualcosa, Hope?» I convenevoli ormai scordati, non c’era più alcun muro di formalità tra loro dopo che l’aveva trovata svenuta e sanguinante. «C’è qualcosa che posso fare per te? Per farti stare meglio?»
«Mi dispiace per tutti i problemi che ti sto causando, Andrew.» La voce era un sussurro, piatta e incolore come lo sguardo.
«Sai bene che non è un problema per me averti qui... Perdio, sai che non desidero altro!»
«Credo desiderassi qualcosa di diverso da questo.»
«Ogni attimo con te per me è prezioso.» Le posò un bacio sulla mano e sorrise nella speranza di confortarla. «Non ho mai smesso di desiderati con il cuore e con il corpo e non mi sono mai arreso davvero all’idea di non poterti
avere. Adesso sei qui, Hope, e io posso offrirti ciò che non avresti mai potuto avere con Miller. Questa casa, il mio denaro, la vita di una donna agiata.»
«Ti prego...» La vide chiudere gli occhi con disgusto. «Ho appena perso un figlio e già vuoi infilarti nel mio letto?» Parole dure quanto il tono usato.
Doveva avere più pazienza con lei o avrebbe rischiato di vederla scappare in un attimo.
«Voglio solo averti accanto e farti sapere che potrai contare su di me per qualsiasi cosa, mi basta questo. Ho perso la testa per te, lo capisci? Farei qualsiasi cosa pur di tenerti al mio fianco e vederti felice.» Queste ultime parole, almeno, erano la pura verità. Aveva perso la testa per lei e non sarebbe stato facile accettare l’ennesimo rifiuto.
«Allora, ti prego, non lasciarmi sola oggi.» Lo sguardo tornò a posarsi nel suo.
«Come potrei farlo?» Le strinse la mano con più forza, a infonderle coraggio. Ora che l’aveva per sé non l’avrebbe lasciata andare per nulla al mondo.
Le carte da giocare erano tutte a suo favore. Sola e triste, gli si sarebbe gettata tra le braccia e avrebbe accettato la vita che lui le poteva offrire. Poco importava se il desiderio non era corrisposto, la voleva così tanto da poter sopportare il compromesso.
Non la lasciò sola quel giorno, né quella notte. Sua moglie era abituata a non vederlo rincasare, non doveva renderle conto fin tanto che le lasciava condurre la vita di una regina. Presto sarebbe venuta a conoscenza di quell’amante che viveva a pochi passi da loro, ma come
sempre se ne sarebbe fatta una ragione. Il loro matrimonio era finito da tempo, a unirli c’erano le figlie, l’interesse del denaro e l’apparenza. Andrew sapeva però che Georgina non avrebbe sopportato lo scandalo di un’amante con il passato di Hope, e lui avrebbe rimediato facendo di quella ragazza una donna capace di celare ciò che era stata.
Era questo che lo faceva impazzire di lei, il suo passato. L’idea che fosse cresciuta in un bordello senza divenire una prostituta. Hope aveva le idee chiare e sapeva cosa non voleva dalla vita. Steso accanto a lei la osservava dormire, il lento sollevarsi del seno a ogni respiro e la smania di sfiorarla che lo divorava.
Avrebbe atteso, paziente come solo un predatore sapeva essere.