Prologo

Le caprette

L’uomo andava pei viali del giardino pubblico, interessandosi a tutto con placidità contemplativa.

Si fermava a guardare i cigni nel laghetto, il pellicano sull’erba, le scimmie nella gabbia, la foca a piatto sulla riva. I bimbi, che giravano a tondo; le bimbe che a passetti misurati avanzavano e cantavano, tenendosi per le manine: «Ecco l’ambasciatore col trallarillallero...». Non si curava affatto però degli uomini e delle donne sulle panchine, come se per lui non contassero che le anime innocenti – cigni, pellicano, scimmie, foca, bimbi – e anco gli alberi e l’erba dei prati, l’acqua e il giuoco del sole tra le fronde.

Ma tutti guardavano lui, che passava lentamente pei viali. Erano sguardi ironici, brevi sorrisi. E i bimbi e i fanciulli mandavan franche risate e ammiccavano ed emettevano gridi repressi.

Un buffo tipo. Una maschera di carnevale. Uno spauracchio da notte di Natale.

Il cappello duro, a tese rotonde piatte, nero, lucido per la spazzola, era senza un grano di polvere. La giacca a coda, di taglio antico, di stoffa rigida e spessa, nera essa pure, appariva lustra ai gomiti e alle bordure filettate di saia. I pantaloni neri, troppo lunghi e troppo stretti, che ricadevano a mantice sulle scarpe, gli fasciavano le gambine sottili come quelle d’un uccello. E le scarpe a punta quadra, opache, a elastici, dovevano avere almeno 42 di numero o forse più, un numero che non si trova nelle botteghe.

Sotto le tese del cappello, un naso a clava, rosso, dai fori tondi, aperti, irsuti di pelo nero. Una bocca larga, dalle labbra sottili, esangui. I pomelli sporgenti, la mascella quadra e potente, una mascella anglosassone, di quelle che Charlot ha preso per modello delle sue scarpe. Gli occhi azzurri, piccini piccini, a succhiello, sotto le sopracciglia folte. E le orecchie ad ansa, coi lobuli carnosi polputi paonazzi.

Poiché il sole di maggio in quel pomeriggio senza nubi riscaldava l’aria, l’uomo si toglieva di tanto in tanto il cappello, come se volesse dar respiro al cranio, e allora si vedevano i capelli tagliati corti, d’un nero assurdo, tendente al verde, il nero di una cattiva tintura o forse egli non adoperava per tingerseli che la cenere di sughero fissata con un oscuro processo di brillantina e di gomma.

L’uomo doveva esser alto almeno un metro e settanta ed era magro, di ossa massicce. Un’impalcatura umana da specimen trogloditico.

Andava così pel giardino pubblico, con le mani dietro alla schiena, il passo lento, guardando i bimbi e le bestie, le chiazze del sole sull’erba e sulla ghiaia, lo specchio dell’acqua che rifletteva le piante. Passò davanti a una statua di bronzo e non la guardò, intento a osservare il pellicano, che allungava il collo sinuoso, piluccando l’erba col lungo becco smisurato. Uscì sul largo spiazzo davanti alla latteria. Le panchine attorno erano gremite. Tutta l’aria risuonava di gridi, di risate, di trilli, di voci.

Sotto un albero, la carrozzella delle caprette, vuota, attendeva i suoi clienti minuscoli, fatta come un veicolo d’altri tempi, con la serpa alta, il corpo centrale a giardiniera, un ultimo sedile posteriore. Tutta fiorita di trombette a pompa, dipinta di giallo, coi cuscini di cuoio sbiadito.

L’uomo dal cappello duro procedeva diritto verso il centro dello spiazzo. A un tratto esitò. Si guardava attorno, dietro la schiena batteva il dorso di una mano sulla palma dell’altra, con un moto nervoso. Riprese qualche passo indeciso, procedette a zig zag. Vide la carrozzella delle caprette e vi si diresse, affrettandosi.

Poi fece una cosa stupefacente. Salì in quella carrozzella lillipuzziana, sedette nell’interno della giardiniera, che occupò tutta. Per farlo, dovette piegare le gambe, rattrappendole ed ebbe le ginocchia sotto il mento.

Un mormorio gioioso di meraviglia si sollevò attorno a lui. Qualche bimbo gridò e batté le mani.

Il padrone delle capre intervenne, sollevando la frusta.

L’uomo lo fissò con le sue pupille a succhiello, azzurro mare.

– Mi conduca a fare un giro!

Lo stupore del padrone delle capre fu tale, che non proferì parola.

– Pagherò per quattro, poiché occupo quattro posti.

E porse una moneta d’argento.

Le capre protesero il muso barbuto, quel loro muso da poeta, fiutando e sollevando le labbra sui denti lunghi. Ridevano anch’esse.

La carrozzella si mosse. Il mormorio attorno s’era fatto schiamazzo. La gioia dei bimbi scoppiava incontenibile. I grandi guardavano, senza comprendere. Un pazzo! Un numero d’attrazione di un circo da fiera.

Qualcuno disse:

– È una trovata pubblicitaria. Adesso, parlerà per magnificarci il Brill o per annunziare un nuovo film...

Ma l’uomo non parlò. Si manteneva serissimo in volto. Fissava attorno a sé con gravità, quasi con preoccupazione.

Dietro, la turba dei bimbi gridava, frenetica, in preda a una gioia irrompente. Le bimbette, tenendosi per la mano, cantavano: «Ecco l’ambasciatore col trallarillallero...».

Da una panchina all’altra s’inseguivano i commenti. Mamme e balie traversarono correndo i prati e i tappeti verdi, per assister da vicino allo spettacolo straordinario. I vigili bianchi dovettero intervenire a rattenere la gente.

La carrozzella fece il giro dei viali principali. Quando si trovò davanti a uno dei cancelli, che si aprono su Piazza Cavour, l’uomo discese con un salto, varcò il cancello, traversò a passo rapido la piazza, salì sul primo tranvai che si fermava.

Scomparve.

Fino a sera il giardino pubblico fu pieno di commenti, di esclamazioni, di grida.

Un signore, che aveva assistito alla scena, si ostinava a ripetere:

– Non c’è nulla da ridere. Noi siamo stati spettatori di un dramma. Lo avete guardato negli occhi? Quell’uomo aveva paura...

Gli altri alzavano le spalle. In fondo non era il primo pazzo in libertà che capitasse loro d’incontrare.

Anche colui che parlava, del resto, completamente sano di mente non aveva da essere, perché toccava di continuo un cornetto di corallo che gli pendeva dalla catena dell’orologio e qualcuno lo udì mormorare:

– E per di più oggi è proprio venerdì!