Capitolo IV
Un cliente senza distinzione
Sani lo raggiunse al principio di Corso Vittorio Emanuele e gli si mise al fianco. De Vincenzi, che per via Agnello aveva proceduto quasi di corsa, adesso si vide costretto a rallentare. Il marciapiede del Corso era pieno di gente e per di più loro due andavano contro corrente.
Nell’atrio dell’Hôtel d’Inghilterra, li accolse Micheli.
– È la giornata! – esclamò il pover’uomo, che aveva sperato di passare una domenica tranquilla e che s’era trovato preso nell’ingranaggio di quei delitti a ripetizione.
– Strangolato anche questo? – chiese De Vincenzi.
– No. A costui hanno piantato uno spillone nel cuore. Un delitto mostruoso. Debbono averlo prima cloroformizzato... Ho sentito l’odore del cloroformio, entrando nella stanza.
– C’è il dottore su?
– Sì. E anche il fotografo e il giovane delle impronte... Li ho fatti venire dal Gabinetto di Polizia Scientifica. Ho avuto l’intuizione che questo nuovo delitto fosse collegato a quello di Piazza Mercanti, appena ho sentito il nome straniero del morto... Poi ho trovato la lettera e ogni dubbio m’è scomparso...
Trasse una busta di tasca e la porse a De Vincenzi.
– Dove l’hai trovata?
– Nella valigia dell’assassinato. Vedrai. Non aveva che una sola valigia, con dentro indumenti personali e oggetti di toletta. In mezzo agli abiti c’era quella lettera.
De Vincenzi andò a sedere in un angolo del vestibolo e osservò attentamente la busta. Grande e pesante, bianca. Non recava alcuna intestazione. Portava il francobollo italiano ed era stata spedita da Milano a Detroit, in America. Lesse la data del timbro: 8-2-1933. Un anno e qualche mese prima. Era diretta: Mister George Crestansen – Post office C. 1250 – Detroit (Michigan). Chi l’aveva ricevuta, l’aveva aperta con cura, tagliandone con esattezza uno dei lati. De Vincenzi ne estrasse un foglio di carta pesante, scritto a macchina in inglese. Il foglio portava a stampa questa intestazione, in italiano: Agenzia di Polizia Privata «Radio» – Relazione strettamente personale, da non mostrarsi ad alcuno.
Lesse rapidamente.
«Abbiamo potuto rintracciare la persona da voi indicata col nome di Jeremiah Shanahan e che v’interessa. L’uomo in questione ha assunto il nome di Giobbe Tuama, ed è zelante membro della Lega Evangelica Cristiana, che ha il suo culto nella sede di Piazza Mentana, in Milano. Egli abita in via Bramante, 9. A vostra richiesta potremo continuare le indagini ed esservi precisi circa la vita che conduce. Per un servizio continuo di pedinamento, manteniamo i prezzi di tariffa comunicativi».
Magnifico! Quel foglio gettava una luce nuova su tutto l’affare.
De Vincenzi lo piegò lentamente e lo rimise nella busta. Così, questo Giorgio Crestansen era venuto a Milano per trovare Giobbe Tuama, il quale si chiamava Jeremiah Shanahan – o per lo meno era da lui conosciuto con questo nome – e, poco dopo il suo arrivo, Tuama veniva strangolato e lo stesso Crestansen soppresso!...
Si alzò e intascò la lettera. Micheli e Sani gli si avvicinarono.
– Interessante... Questa lettera ci darà, forse, la chiave del mistero.
– Non hai più bisogno di me, vero? – gli disse Micheli, che aveva un gran desiderio di andarsene. – Nella camera io non ho toccato nulla e il giovane Kruger avrà potuto fare tutti i rilievi che avrà voluto. Su ci sono anche due agenti.
– Sì, grazie.
– Ciao! – e Micheli scomparve.
De Vincenzi andò verso l’ufficio di direzione dell’albergo. Gli si fece incontro un giovanotto biondo, dalle membra armoniosamente atletiche, messe in rilievo da una elegante redingote attillatissima.
Guardò De Vincenzi con aria afflitta e fece un gesto di desolazione.
– Questa ci mancava! E con l’albergo pieno da scoppiare... È arrivata ieri una carovana d’inglesi... Una bella pubblicità davvero, per noi!...
– Lei è?
– Il figlio del proprietario. Sono io il direttore dell’albergo... Senta, commissario... La scongiuro! Cerchi di dar meno pubblicità possibile alla cosa... Ne va del nostro onore...
– Che camera?
– Il numero 143, al quarto piano. Quel... disgraziato... quel signore arrivò l’altro ieri...
– Venerdì?
– Sì, venerdì nel pomeriggio. L’albergo era già pieno... Gli dovemmo dare quel che avevamo... una camera all’ultimo piano di quelle che di solito diamo ai domestici...
De Vincenzi si volse a Sani.
– Sali su. Prega il dottore e Kruger di aspettarmi. Il fotografo mandalo pur via...
Sani si avviò alle scale, che si aprivano in fondo. Il direttore si precipitò.
– Venga qui... Prenda l’ascensore...
Un lift sorse come per incanto di dietro una colonna. La particolarità di quel luogo era il lusso severo e pesante e una disposizione dell’ammobiliamento e dei servizi fatta per togliere ogni impressione d’albergo. Il vestibolo sembrava un salotto e, a differenza di tutti gli altri alberghi, non vi si vedeva il banco del portiere, che aveva il suo santuario in una piccola stanza, la cui porta non differiva dalle altre e non recava tabelle e indicazioni.
De Vincenzi entrò nella direzione. Il giovanotto lo seguiva.
– Adesso, mi dica – e De Vincenzi sedette.
– Che cosa vuole che le dica? È spaventoso. Ne siamo tutti sconvolti. All’Hôtel d’Inghilterra! La casa più severa di Milano, frequentata dai più bei nomi d’Europa... Ah! lo so quel che lei vuol dirmi! In questi ultimi tempi abbiamo dovuto accettare qualche carovana anche noi... Che vuole? La crisi!
– Mi chiami il portiere, per favore. Immagino che sia stato lui a ricevere il viaggiatore, quando giunse.
Il giovanotto premette un campanello. Poi continuò a tenere la mano sul quadro dei bottoni elettrici.
– Vuole che le faccia venire anche il personale del quarto piano? È stata la cameriera a fare la scoperta.
– No. Li interrogherò di sopra...
L’altro ebbe un gesto.
– Avrei preferito... Se lei può fare in modo che i clienti non si accorgano... È molto spiacevole... Nessun assembramento pei corridoi, se le è possibile...
Entrava il portiere. Era un personaggio solenne, degno dell’Hôtel d’Inghilterra. Si guardò attorno e ostentatamente si rivolse al direttore:
– Desidera me?
– Venite qui, voi. Sono io che vi desidero. Ditemi tutto quello che sapete del signor Crestansen.
Il portiere si degnò avvicinarsi al commissario.
– Non potrò dirle molto. L’abitudine della casa...
– Lasciate andare l’abitudine della casa. Fu venerdì che giunse?
– Appunto. Verso le diciotto. Molto probabilmente col treno di Genova. Scese dal tassi e chiese una camera. Gli proposi il 143. Non ne avevo altre e avvertii il signore che era una camera modesta... Ricordo che gli consigliai anche di rivolgersi a un altro albergo... Avevo veduto subito che non era un cliente per l’Hôtel d’Inghilterra... Non avrei potuto dargli un’altra camera in tutti i casi, ma era evidente che quel signore non apparteneva al nostro genere.
– Che cosa intendete per vostro genere?
Il portiere ebbe uno sguardo di commiserazione.
– Il rango... la classe... dei nostri clienti è assolutamente superiore.
– E lui? – chiese De Vincenzi con un leggero sorriso.
– Mancava di distinzione – decretò l’importante personaggio. – Son cose che non si spiegano. Aveva un vestito di grossa stoffa e di taglio sgraziato, la catena dell’orologio troppo vistosa, un anello con un brillante smisurato... E poi il volto! Tratti fortemente segnati... pelle abbronzata... rughe profonde... E un modo di parlare e di muoversi assolutamente volgare... Doveva certamente disporre di mezzi, perché subito trasse il portafogli e volle depositare nella cassa della direzione diecimila dollari... Ma non è il denaro che può dare la distinzione!...
– Ho capito. Andate avanti.
– Non c’è altro da dire. Lo feci accompagnare al 143... Quasi subito scese di nuovo e mi chiese se via San Paolo fosse distante... avrebbe voluto prendere un’auto... Gli dissi che era qui dietro... e gli feci indicare il cammino da un lift...
– Il lift vide dove andava?
– Non mi sono curato di chiederglielo; ma si può chiamare il ragazzo...
– Non importa... So benissimo dove andava...
Il portiere sollevò le sopracciglia, incredulo. De Vincenzi sapeva, infatti, che l’Agenzia «Radio» aveva i suoi uffici in via San Paolo.
– Ieri Crestansen che fece?
– Come posso saperlo? – esclamò l’uomo, allargando le braccia con un gesto teatrale. – Nella nostra casa è legge la discrezione!
– Avrà notato – interloquì il figlio del proprietario – che il portiere non ha il suo banco nel vestibolo. Data la nostra clientela, ci siamo sempre preoccupati di conferire all’ambiente un carattere di casa privata...
– Capisco – troncò il commissario. – E iersera? È venuto qualcuno a chiedere di Crestansen?
– Può darsi – rispose il portiere. – Per quanto un visitatore sarebbe stato notato. Nel vestibolo si trova sempre qualche lift e non avrebbe fatto passare uno sconosciuto, senza chiedergli dove si recasse e senza condurlo da me...
– Eppure, Crestansen è stato ucciso!
Il portiere fece un altro gesto d’olimpica indifferenza, mentre il direttore si agitava nervosamente.
– Si deve ammettere, dunque, che a compiere l’assassinio sia stato uno degli ospiti dell’albergo...
– Impossibile!
– Ma che dice, commissario?!
– ... a meno che non vogliate supporre che possa esser stato uno del personale!
I due apparvero schiantati. La conclusione era logica. Crestansen non poteva essersi cloroformizzato da solo, per poi cacciarsi uno spillone nel cuore.
– Sta bene. Vedremo. Intanto, preparatemi l’elenco di tutti gli ospiti dell’albergo da venerdì a oggi... E sappiatemi dire se qualcuno di essi si è allontanato.
– Non vorrà mica!... – gridò il giovanotto, impallidendo.
– Farò quel che debbo – proferì freddamente De Vincenzi e si alzò. – Mi faccia accompagnare al quarto piano.
Fu lo stesso direttore che lo accompagnò, mentre il portiere tornava a rinchiudersi nel suo ufficio, visibilmente scosso dall’idea che gli ospiti dell’Hôtel d’Inghilterra potessero venir sottoposti a un interrogatorio della polizia.
Sul pianerottolo del quarto piano c’era Sani.
– Il dottore e Kruger ti aspettano nella camera...
– Grazie. Tu fermati qui – gli disse il commissario. – Avrò bisogno di te fra poco.
Il corridoio sul quale si apriva la camera n. 143 era lungo. De Vincenzi contò le porte: otto da un lato e otto dall’altro. Il 143 era la seconda a destra, venendo dal pianerottolo. Il corridoio terminava a cul di sacco. Dall’altra parte delle scale se ne vedeva uno uguale. Trentadue camere su quel piano.
– Tutte occupate?
– Tutte. Abbiamo messo quassù i viaggiatori della carovana. Sono una quarantina... Con le coppie nelle camere matrimoniali, siamo riusciti ad alloggiarli tutti...
De Vincenzi s’era fermato davanti all’uscio della camera del delitto. Tutte le porte erano di noce scura. Uno spesso tappeto in terra. Una grande pendola col basamento monumentale in fondo al corridoio e tra una porta e l’altra scanni intagliati. Il corridoio era illuminato da due lampade di ferro battuto, appese al soffitto. Un lusso pesante e severo... Tutta clientela scelta... Rango, classe superiore!... A ogni modo, su quel piano erano soltanto quelli della carovana. Poco probabile che uno di essi...
– Che cos’è questa carovana?
– Cook. Proviene da Londra ed è diretta in Oriente. È giunta giovedì e ripartirà domattina... Oh! gente modesta... Debbono essere impiegati e dattilografe... C’è un pastore non conformista con la moglie e due figli...
– Ho capito.
E De Vincenzi cancellò subito di colpo tutti i membri della carovana dai possibili sospetti. Il non farlo avrebbe voluto dire una perdita assolutamente inutile di tempo.
Girò la maniglia e aprì.
– Non ho più bisogno di lei. Grazie. Mi mandi la cameriera, il cameriere, il facchino.
E dolcemente richiuse la porta dietro di sé.
Il dottore, che era lo stesso di Piazza Mercanti, gli andò incontro e lui guardò il biondo e timido Kruger, che inginocchiato in terra soffiava polvere di grafite sopra una valigia di cuoio scuro.
La camera era ammobiliata con la medesima severità del corridoio e dava subito un’impressione di tetraggine, per quanto la finestra fosse spalancata.
– Un momento, dottore! Kruger, chi è entrato qui dentro pel primo?
Il giovane si sollevò e volse verso il commissario il volto infantile, coperto di rossore.
– Siamo entrati tutti assieme, cavaliere. Ma nella stanza si trovava già il commissario Micheli.
– La finestra era chiusa?
– Sì, cavaliere. Persiane e vetri. La camera era illuminata dalla luce elettrica, che aveva accesa il commissario. Sono stato io ad aprir la finestra. Ma prima ho fatto tutti i rilievi. Una quantità d’impronte confuse sul telaio e sulla maniglia. Niente da tirarne fuori!
– Lei ha sentito odor di cloroformio?
– Ma questo son qui io per dirglielo, commissario!
Il dottore s’impazientiva. Anche per lui due cadaveri nella stessa mattina erano troppi.
– Mi scusi, dottore... – fece De Vincenzi, sorridendo. – So che Kruger osserva tutto.
– Uhm! – mugolò il medico. – Vediamo di sbrigarci. Guardi. Il cadavere si trovava press’a poco come lo vede adesso. Data la natura della ferita che l’ha ucciso, io ho dovuto appena toccarlo. Sul volto aveva quell’asciugatoio piegato, che lo bendava.
E gl’indicò sul tavolo un asciugatoio piegato per lungo. De Vincenzi lo prese e sentì alle narici una zaffata, per quanto leggera, acre e nauseante di cloroformio. Era un asciugatoio dell’albergo e recava in un angolo, a ricamo, lo stemma d’Inghilterra e le cifre: H. d’A.
De Vincenzi lo rimise sul tavolo e fece qualche passo verso il cadavere. Crestansen era disteso sul letto, che appariva completamente rifatto, con la coperta di seta a fiorami e i cuscini sotto la coperta. L’uomo giaceva composto con le braccia incrociate sul ventre, le gambe distese e unite. Anche qui, come per Giobbe Tuama, chi aveva ucciso si era preoccupato di dare al cadavere un aspetto dignitoso, da camera mortuaria. Il medesimo assassino, indubbiamente! Ma Crestansen, a differenza del vecchio sulla piazza, aveva gli occhi chiusi e un’espressione di perfetta serenità sul volto rigido. Strano volto di uomo! Un potente naso a rostro, la bocca dura dalle labbra sottili, la mascella quadrata, gli zigomi salienti. Gli occhi chiusi dalla morte s’incavavano nel profondo delle vaste orbite, sotto l’arco sporgente delle sopracciglia grigie. I capelli eran tosati, dando rilievo al cranio a punta.
De Vincenzi interrogò con lo sguardo il dottore.
– Il più atroce delitto della mia carriera! – rispose questi, facendo una smorfia di disgusto. – Non avevo mai assistito a un tale esempio di raffinatezza criminale! Guardi!
Si avvicinò al letto, scostò il panciotto, alzò la camicia. De Vincenzi vide un punto nero sulla carne bianca. La capocchia di uno spillone. E una gocciolina di sangue raggrumato, una sola gocciolina, nerastra, cristallina.
– È semplice, no? Ma è spaventoso! Per uccidere un uomo in tal modo ci vuole l’insensibilità e la crudeltà di una iena. O l’incoscienza di un folle. La ricostruzione del delitto è presto fatta. L’assassino deve aver sorpreso la vittima alle spalle. Era certamente conosciuto da colui che voleva uccidere... un amico forse.. perché altrimenti non avrebbe potuto operare come ha fatto. Gli ha messo di colpo l’asciugatoio impregnato di cloroformio sotto il naso, rovesciandolo all’indietro e costringendolo all’immobilità, fin quando non lo ha visto addormentato. Calcoli pure che deve averlo tenuto a quel modo almeno dieci minuti, se non di più. Poi, sentitolo inerte, lo ha trasportato sul letto, gli ha coperto il volto con l’asciugatoio, perché l’azione del cloroformio non cessasse, e gli ha conficcato lo spillone tra le costole, lentamente, cercando il cuore, traforandolo, immobilizzandolo per sempre... Ecco!
De Vincenzi si passò la mano sulla fronte e la ritrasse umida di sudor freddo. Dalla bocca gli uscì un suono tronco, rauco. Si sentiva soffocare, invaso da un impeto d’indignazione inesprimibile. Qual era la belva umana che poteva uccidere, così, con quella fredda determinazione, cercando materialmente il cuore della vittima con la punta di uno spillone?
Il dottore lo guardava.
– Incredibile, eh! Ho letto in una rivista di criminologia che adesso in America i cosidetti gangsters hanno introdotto questo metodo per uccidere. Non si può negare che sia silenzioso e sicuro!
Kruger aveva abbandonato la valigia e si teneva ritto in mezzo alla stanza, ascoltando.
De Vincenzi fece qualche passo per allontanarsi da quello spettacolo.
– Ha trovato nulla lei, Kruger?
– Niente! Sulla valigia si vedono impronte, ma sono quelle del morto o quelle del commissario Micheli, che l’ha aperta e frugata poco fa... Debbono avere operato coi guanti... Anzi...
Esitò e il rossore gli crebbe.
– Ebbene? Avanti... vada avanti! – De Vincenzi, che lo conosceva oramai, gli parlava come a un bambino, per incoraggiarlo.
– È una mia idea... non è fondata su nulla di particolare e di visibile... soltanto alcune lucentezze del cuoio della valigia... come se fosse stato strofinato... Ma posso sbagliarmi!
– Vada avanti, Kruger! Dica questa sua idea!
– Ebbene, cavaliere, ho l’impressione... che l’uomo che ha agito qui dentro portasse guanti di lana... Sa? Quei grossi guanti neri...
– È un’idea! – fece De Vincenzi, ma dal modo con cui guardò il giovane si capiva che lo ammirava. Un ragazzo di valore, quello lì, con tutta la sua timidezza da collegiale.
– In quanto all’ora della morte... Poiché lei certamente me la chiederà... posso dirle che deve essere stato ucciso tra le dieci e le undici di iersera... Il cadavere è già quasi rigido, eppure la temperatura della stanza, con la finestra chiusa, doveva essere abbastanza alta. Non possono esser passate meno di dodici o tredici ore...
Guardò l’orologio.
– Sono le undici e mezzo – e si affrettò ad afferrare la sua busta nera, che aveva deposta sopra una seggiola. – A rivederci! Mandi subito anche questo cadavere all’Obitorio... Domani avrò da divertirmi!...
Sulla soglia si volse.
– E procurate di non farmi correre per un terzo morto... Due in un giorno dovrebbero bastare, no ?
Scomparve, richiudendo la porta dietro di sé.
De Vincenzi guardò ancora l’uomo ucciso. Era venuto dall’America a farsi ammazzare a Milano! Se non altro, questo qui, non doveva aver sofferto; lo avevano ucciso nel sonno.
Sentì bussare alla porta e disse avanti. Apparve per primo il cameriere, a cui seguivano la cameriera e il facchino. La cameriera, quando vide che sul letto c’era ancora il corpo dell’ucciso, volle indietreggiare. Era una donna di una certa età, coi capelli quasi bianchi sotto la cuffietta di pizzo. Il facchino la trattenne.
– Venite avanti – ordinò De Vincenzi; ma soltanto il cameriere fece un passo verso di lui.
– Cominciamo da voi, allora. Come vi chiamate?
– Antonio Olmi.
– Di dove?
– Bergamo.
– Siete stato voi a scoprire il corpo, stamane?
– No... lei... – e indicò la cameriera, che s’era coperto il volto con le mani.
– Che cosa sapete, voi?
– Niente. Ieri mattina ho portato il caffè in camera a questo signore... Si stava facendo la barba e non m’ha guardato neppure, dicendomi: «Posate lì». Questo è tutto quello che so di lui. Quando ho veduto Palmira entrare nella stanza del servizio tutta sconvolta, le ho chiesto che cosa avesse e lei mi ha detto che il numero 143 era morto. Ma credeva a una morte naturale e soltanto poco fa abbiamo saputo che c’era la polizia e che si trattava di un assassinio...
– Venite avanti voi, adesso... Fatevi coraggio! Un morto è un morto e mettono più paura i vivi dei morti!
– Oh! – gemette la donna, scoprendosi il volto. – Dice bene lei! Ma se avesse ricevuto il colpo, che ho avuto io questa mattina!...
– Raccontatemi.
– È stato il destino a volere che fossi proprio io a far la scoperta!... Alle otto circa, ho sentito suonare il campanello del telefono interno. Era il portiere che mi dava le «sveglie». Ho cominciato a prendere i numeri, ma erano tanti. «Tutto il piano, insomma?» gli ho detto, per far più presto. «Sì, tutto il piano» mi ha risposto quello. Si vede che credeva che tutte le camere di questo piano fossero occupate dalla carovana ed era appunto la carovana, che aveva messo la sveglia alle otto... Allora, ho cominciato a picchiare a tutte le porte e finalmente sono giunta anche a questa. Picchia picchia, non rispondeva nessuno. Siccome so che i direttori delle carovane vogliono vedere tutti presenti nel vestibolo, quando debbono muoversi, e s’impazientano e se la prendono con noi se ne manca qualcuno, ho pensato che questo qui avesse il sonno più duro degli altri e ho aperto la porta. La stanza era al buio. Ho scorto una figura sul letto e ho sentito un odore acutissimo, come di alcool... uno strano odore, però. Mi son detto: «Questi inglesi! Certo, questa notte si è ubriacato e s’è messo a dormire tutto vestito». Sentivo la nausea salirmi alla gola... doveva essere quell’odore... Ho chiamato: «Signore! Signore!»... Alla fine, ho acceso la luce. Subito mi sono accorta che aveva il volto coperto dall’asciugatoio... Certo si sente male, ho pensato, e mi sono avvicinata al letto. Ho scosso l’uomo. Ho sollevato l’asciugatoio... Era pallido da metter paura e immobile... Gli ho toccato una mano e l’ho sentita di ghiaccio... Allora, mi son gettata nel corridoio senza più fiato, col cuore che mi batteva in petto... e ho chiamato Camillo...
Indicò il facchino, il quale assentì col capo.
– Io sono accorso... e ho capito subito che era morto... Non ci voleva molto! Ho trascinato via Palmira, che non si reggeva più sulle gambe, e ho avvertito il portiere e il direttore... Non so altro.
De Vincenzi aveva ascoltato con attenzione. Era il racconto che si aspettava. Che cosa avrebbero potuto dirgli di diverso, quei tre?
– Chi era di servizio iersera, su questo piano?
– Io – rispose il facchino. – Fino alla mezzanotte.
– E nessun cameriere o cameriera?
– Dopo le otto, c’è una sola cameriera e un solo cameriere di servizio per tutti i piani. Si danno il turno. Ieri toccava a quelli del secondo piano.
– Sicché su questo piano, c’eravate voi solo?
– Sì.
– E dove vi mettete, quando siete di servizio?
– Nella nostra camera, in fondo a quell’altro corridoio. Lì c’è il quadro dei campanelli e, se qualche viaggiatore chiama, io son pronto.
– E iersera non chiamò nessuno?
– Fino alle undici, no. Poi ci furono due o tre partenze al terzo piano.
– Naturalmente, dalla stanza del servizio voi non potete vedere chi sale e chi scende, chi entra nelle camere.
– A meno che non esca nel corridoio...
– Iersera non avete sentito alcun rumore, qualche scoppio di voci?
– No... Però...
– Però...
– Poco dopo le nove sono venuto da questa parte... andavo nella camera 148 a prendere un paio di scarpe di una signora, che mi aveva ordinato di pulirgliele... Me lo aveva detto nel pomeriggio e io me ne ero scordato...
– Ebbene?
– Ebbene, passando davanti a questa camera, ho sentito un mormorìo di voci... Indubbiamente, c’erano qui dentro due o più persone che parlavano. Ma io non avevo alcuna ragione per preoccuparmene...
– Ed erano le nove?
– Sì. Press’a poco. Ma le nove erano suonate di certo, perché io prendo servizio a quell’ora.
– E quando siete tornato a passare davanti a questa porta, le voci?...
– Si sentivano sempre. Io poi me ne sono andato nella mia camera e non sono tornato qui che poco prima di smontare, a mezzanotte. Tutto era silenzio e io ho spento una delle due lampade del corridoio e sono disceso.
– Potete andare. Sì, anche voi due. Non allontanatevi, però, perché di voi avrà bisogno il giudice.
I tre si affrettarono a uscire.
De Vincenzi si affacciò all’uscio e chiamò Sani.
– Telefona al giudice istruttore. È assai probabile che lo trovi in Tribunale, perché starà ancora facendo il verbale del delitto di Piazza Mercanti.... Dopo sali ad aspettarlo qui nel corridoio e aprigli tu la porta di questa camera...
Accennò a Kruger di seguirlo, chiuse l’uscio e fece girare la chiave, che poi diede a Sani.
Si avviarono.
– Dì al giudice che mi occupo io anche di quest’altro assassinio... Gli farò sapere qualcosa domattina.. Tu provvedi poi pel trasporto del cadavere in via Ponzio... Quando avrai finito, vattene a colazione e poi torna a San Fedele. Non muoverti dall’ufficio. Nel caso abbia bisogno di te, ti telefonerò.
Sani si fermò davanti all’ascensore.
– Non vieni giù anche tu?
– Sì, ma io faccio le scale. Va’ pure. A rivederci.
– A rivederci – e Sani entrò nell’ascensore, che subito prese a discendere.
De Vincenzi sostò a tutti i piani, per interrogare camerieri, cameriere, facchini. E, finalmente, trovò un indizio. Il cameriere del secondo piano, verso le undici della sera avanti, aveva veduto scendere dalle scale un uomo, il cui atteggiamento e soprattutto l’aspetto lo avevano colpito.
Era vestito di nero e portava in testa un curioso cappello di paglia col nastro bianco e azzurro: una di quelle «pagliette», che si portano al mare o che mettono gli equipaggi di uno stesso club alle regate.
L’uomo scendeva in fretta e, quando vide il cameriere, voltò il viso dall’altra parte, come se non volesse esser riconosciuto, non tanto presto però che il cameriere non vedesse una lunga barba bionda e gli occhiali di tartaruga.
De Vincenzi interrogò lungamente quel testimonio prezioso, per strappargli qualche altro connotato, ma ottenne soltanto di sapere che l’individuo sospetto era alto e forse sottile. Lo aveva veduto troppo poco e troppo rapidamente, per aver notato altro e per esser sicuro di nulla. Poteva anche darsi che non fosse alto e che non fosse sottile. Di sicuro non c’erano che la barba e gli occhiali. E niente impediva di supporre che la barba fosse finta.
Con quel magro bottino d’informazioni e d’indizi e con la preziosa lettera in tasca, De Vincenzi uscì dall’Hôtel d’Inghilterra e si avviò verso via San Paolo, assieme a Kruger, che gli camminava silenzioso al fianco, recando in mano la valigetta delle sue polveri e dei suoi strumenti.
– Prese le fotografie, Kruger?
– Sì, cavaliere.
– Ma impronte, niente!
– Niente, ohimè!
– I guanti di lana, eh, Kruger?
– Un’idea mia!... Mi perdoni...
– Anzi! È un’ottima idea. E i guanti di lana vanno magnificamente d’accordo con l’abito nero, col cappello di paglia e... con la barba bionda... Peccato che...
– Che? – chiese il giovane con ansia, perché aveva una grande ammirazione per De Vincenzi e, quando si trovava con lui, cercava sempre di farlo parlare per trarne qualche insegnamento.
– Che tutta quella roba sia proprio quanto l’assassino aveva interesse a mostrare, per apparire diverso di quello che è realmente.
Erano arrivati davanti a un grande portone carrozzabile. De Vincenzi si fermò.
– A rivederci, Kruger...
– A rivederla, cavaliere. E... buona fortuna!
– Non si dice buona fortuna a un cacciatore, Kruger! I cacciatori sono superstiziosi e vogliono sentirsi dire: in bocca al lupo! E io da questo momento mi sono messo a dar la caccia a una belva umana particolarmente pericolosa, giovane amico mio!...
E scomparve sotto l’androne di quell’antico palazzo, in cui si trovavano gli uffici della «Radio», Agenzia di Polizia Privata specialmente raccomandabile per informazioni prematrimoniali e riservate.