Capitolo V

Il male in tutte le sue forme

Le rapide ricerche all’Agenzia «Radio» si svolsero sotto il segno della diffidenza.

Generalmente, quando un detective privato italiano si trova a ricevere la visita di un funzionario di polizia, come primo movimento istintivo ha paura. Subito dopo diffida e si mostra il più vanamente verboso possibile o laconico come un ammalato di denti.

De Vincenzi, ricevuto nell’anticamera da una specie di groom alto un metro e dieci centimetri, venne introdotto subito nell’ufficio del direttore-proprietario.

– In che cosa posso esserle utile?... Tutto a sua disposizione! Vuol vedere i registri?

Era un omaccione grosso e pesante, col volto glabro, rotondo, assai mobile. Parlava con enfasi, agitando la destra aperta sul tavolo, protesa in un gesto d’offerta.

La parete dietro le sue spalle era completamente tappezzata di certificati, premi d’esposizioni, diplomi d’onore e di merito, inquadrati in cornici dorate. Sotto al vetro di alcuni di quei quadri si vedevano grosse medaglie di similoro, croci, nastri. Tutto l’armamentario di un Dulcamara da fiera.

De Vincenzi trasse la lettera trovata nella valigia del morto e gliela porse.

– Questa è stata scritta dalla sua agenzia?

Subito l’uomo si mise sulla difensiva.

– Faccia vedere... Mi sembra... Non saprei dirle.. Si è anche verificato lo spiacevole fatto che si sieno serviti della nostra carta intestata...

Lesse la lettera e sembrò liberato da un peso.

– Sì, certamente. Questa lettera è nostra. Un servizio fatto con ogni cura. Perfettamente regolare... Non vedo come mai si trovi nelle sue mani... Proprio l’altro ieri è venuto il cliente nei nostri uffici a ringraziarci...

– Non si preoccupi. Nessuno ha nulla da rimproverarle... Ma desidero conoscere ogni particolare di questa pratica. E soprattutto quel che lei e i suoi uomini sono riusciti a sapere sul conto di questo Giobbe Tuama di cui si parla nella lettera...

– Nulla di più facile! Il casellario delle mie pratiche è in perfetto ordine!... Sono felice di poterlo dimostrare a un eminente rappresentante della nostra Autorità costituita.

Si alzò, andò a un vastissimo armadio a vetri e cominciò a cercare nelle caselle.

– Tuama... Tuama... Al T nulla... Naturalmente! La pratica non può trovarsi che sotto il nome del cliente... Crestansen... Crestansen... Eccola qui!

Tornò trionfalmente, tenendo una cartella rossa tra le mani. La depose sul tavolo e l’aprì.

– Che le dicevo? Qui c’è tutto! Tutto!... Dunque, nel novembre del 1932, ricevemmo una lettera dall’America... La nostra Agenzia è conosciuta in tutto il mondo!... Ha corrispondenti dovunque. Se le dicessi che...

– Non mi dica nulla e vada avanti!

– Bene. Come vuole... Ecco la lettera che ricevemmo...

E porse al commissario un foglio. Anche questo era scritto a macchina e in inglese. Conteneva poche righe. Giorgio Crestansen chiedeva notizie di certo Jeremiah Shanahan, irlandese, ch’egli riteneva stabilito a Milano. Secondo lui, Jeremiah era molto ricco e assai probabilmente commerciava in gioie e in pietre preziose. Univa un assegno di cento dollari per le prime spese.

De Vincenzi non restituì il foglio e sollevò lo sguardo verso il detective privato.

– Prosegua pure...

L’uomo fissava il foglio, che il commissario teneva in mano. La diffidenza e lo spavento tornavano.

Inghiottì la saliva e tentò sorridere.

– Cento dollari non sono molti...

– Prosegua, le dico! Non sono i cento dollari che m’interessano, né quelli che Giorgio Crestansen deve averle inviati in seguito...

– Pochi, sa?... Pochi!... Qui è notato... Ogni pratica ha il suo conto di dare e avere... Cento... duecento... e trecento a saldo... In tutto seicento dollari. Rintracciare quel signore Sha... Shanahan... senza alcuna indicazione... anzi con quella erronea di uomo ricco, il che non corrispose, poi, come constatammo, al genere di vita che conduceva... non fu facile... Dovetti mettermi in campagna personalmente... e debbo riconoscere che fui anche assistito dalla fortuna... Come trovare Jeremiah Sha... Shanahan sotto il nome di Giobbe Tuama? Io lo trovai.

– È appunto questo che m’interessa sapere. Come fece a trovare Jeremiah Shanahan?

Il volto, del direttore-proprietario della «Radio» s’illuminò. Per un istante egli perdette la sua diffidenza.

– Ah! un bel lavoro! – esclamò, gonfiandosi; e atteggiò la bocca a un sorriso malizioso. – L’anagrafe, naturalmente, non ci aiutò. Eppure è sui cartellini dell’anagrafe che il nostro lavoro si compie di solito. Questa volta dovemmo farne a meno. Gliel’ho detto, commissario! I seicento dollari sono stati guadagnati da me, con l’aiuto del mio solo cervello!

Si batté una mano sulla fronte. Sembrava un guitto che magnificasse i suoi successi.

– Non è nel lobo frontale che si sviluppa il pensiero umano? L’ho sentito dire. Ebbene, cavaliere, io debbo aver molto sviluppato il lobo frontale. Come ho fatto a scovar Jeremiah Shanahan sotto il nome di Giobbe Tuama? Lo dirò a lei. Nella maniera più semplice; ma occorreva pensarci! Avevo l’indicazione che l’uomo da cercare era irlandese. C’era da scommettere, quindi, che fosse protestante. E, se tale era, si poteva supporre che frequentasse le funzioni del suo culto. I protestanti, anche questo l’ho sentito dire, sono credenti scrupolosi e non mancano di praticare, quando possono. Dovevo, quindi, cercare Jeremiah Shanahan in seno alla confraternita protestante di Milano. Nulla! Nessuno conosceva un irlandese di tal nome. Qui ci sono le lettere, che ho scambiate con il mio corrispondente di Detroit... Vede? Non si trova un Sha... Shanahan, gli scrivevo io. Può darsi che abbia mutato nome. Mandatemi una fotografia... Me ne mandò una, finalmente... Eccola...

E tese a De Vincenzi un cartoncino ingiallito. Una foto da dilettante, vecchia di molti anni. Si vedeva un grande spiazzo brullo, davanti a una fattoria. In primo piano due figure di uomini. Avevano gli stivaloni, il cappello a larghe tese e un’enorme cartuccera alla cintola. Sotto una di quelle figure era stata tracciata con la penna una croce.

– La croce indica colui che io dovevo ricercare...

De Vincenzi riconosceva il grande naso e la mascella quadrata di Giobbe Tuama. Un Giobbe Tuama di almeno trent’anni prima, ma con tutti i segni caratteristici dell’uomo, ch’egli aveva veduto cadavere. E riconobbe pure il compagno: era il morto dell’Hôtel d’Inghilterra.

– Che ne dice? Fu con quella fotografia, che mi misi a cercarlo. Frequentai le riunioni religiose della domenica in Piazza Mentana... E lo trovai. Con quei connotati non c’era da sbagliare! Fu facile, allora, conoscere il nome che aveva assunto e sapere dove abitasse.

Il direttore proprietario della «Radio» tacque, fissando il commissario. Aspettava gli elogi. Li meritava, del resto. Un «servizio» effettuato con intelligenza.

– Bene. E una volta comunicato il nome e l’indirizzo al suo corrispondente, ebbe occasione di occuparsi ancora dell’irlandese?

– Ma no! Avrei voluto e potuto farlo, naturalmente, e chiesi all’americano se desiderava che continuassi le indagini... La tariffa, che gli mandai era... molto modesta... come sempre... Non ebbi risposta. Misi, allora, la pratica a dormire e l’altro ieri sera fui davvero meravigliato, quando vidi comparirmi dinanzi il signor Crestansen... Non mi ricordavo neppure il nome e lui dovette mostrarmi la mia lettera... come ha fatto lei poco fa... perché io potessi riprendere la pratica.

– Che cosa le disse?

– Ah!...

Di nuovo la diffidenza e la paura! Gli sguardi del detective sfuggivano.

– Ma... nulla... Nulla d’interessante...

– Mi ascolti, signor... Signor?...

– Franceschi... Vittorio Emanuele Franceschi...

– Ebbene, signor Franceschi, è necessario lei sappia che tutti e due questi uomini tra iersera e stamattina sono stati uccisi...

– Che mi dice?! – esclamò l’omaccione, dando un balzo sulla seggiola. – Proprio questa mattina il... il mio cliente doveva tornare qui... Lo aspettavo... Sono venuto in ufficio apposta di domenica...

– Pena inutile, oramai. Ma invece è assolutamente indispensabile che lei mi dica tutto quello che sa...

– Oh!...

L’uomo era colpito. Con le sue grosse mani toccava i fogli della pratica, nella cartella rossa. La notizia datagli doveva avergli distrutto qualche calcolo di guadagno cospicuo. Gli avevano ucciso la gallina dalle uova d’oro.

– Aspetto che lei parli – disse De Vincenzi, bruscamente.

– Ma non è molto quel che posso dirle!... Si sarebbe trattato di fare... di compiere altre ricerche... Voleva che rintracciassi ancora una persona e che la pedinassi... Oh! Non lo avrei fatto! Rintracciarla, sì. Pedinarla, no. È proibito... Lei sa che i pedinamenti ci sono proibiti... La Questura ci dà la licenza d’informatori privati... ci autorizza a tutte le ricerche... ma pedinamenti, niente!... Oh! come possiamo raccogliere le informazioni, se non seguiamo la persona che c’interessa, domando io? È un assurdo!

Ecco: ridiventava loquace. La paura gli scioglieva la lingua. Si nascondeva dietro le parole.

– Non divaghi. Mi ripeta quel che le disse Crestansen. Esattamente e senza reticenze.

– Glielo sto dicendo, buon Dio! Entrò qui dentro, mi disse: Hellò boy, molto bene avermi trovato Shanahan, ma adesso son qui io e ho bisogno che mi facciate un altro small work...

Senza volerlo, De Vincenzi sorrise e dovette trattenersi per non ridere. Un guitto, quel Vittorio Emanuele Franceschi! Adesso, s’era messo ad imitare l’atteggiamento duro e brusco di Crestansen e pronunciava le parole inglesi, stringendo i denti e mordendosi la lingua.

– Immagino che parlasse inglese un po’ meglio di lei!

– Era un inglese americano, sa?

– E poi le avrà detto di che small work si trattava... Continui!

– Un piccolo lavoro di ricerche, appunto. E poi...

– Il nome.

– Come dice?

– Il nome della persona che voleva ritrovare.

– Ah!...

Ma questa volta non esitò. Fece passare i fogli, si fermò a uno di essi, che conteneva alcuni appunti scritti a matita.

– Mi dia quel foglio.

– Ma, cavaliere... Io non so... Il segreto d’ufficio... A meno che ella abbia un regolare mandato...

De Vincenzi alzò le spalle.

– Chi ha ucciso Tuama e Crestansen non aveva un mandato regolare!... Mi dia quel foglio...

Franceschi glielo diede, facendo il volto di chi si toglie un dente. Il commissario lesse gli appunti con attenzione. Eran stati presi in fretta, con parole abbreviate e segni convenzionali: la facile stenografia di cui si serviva il detective per proprio uso.

Anzi tutto un nome: Olivier O’ Brien... Era il clan degli irlandesi questo? E tutti venivano dall’America. E c’era da giurare ch’eran stati tutti nel Sud Africa. Anche Crestansen, perché no?... E De Vincenzi pensò a Beniamino O’ Garrich, che s’era fatto livido quando gli aveva ingiunto di tornare alla Fiera. Di chi aveva paura il colosso? Era evidente: dell’uomo che aveva ucciso Giobbe e Crestansen. E lui ignorava ancora l’assassinio dell’Hôtel d’Inghilterra! Ma lo ignorava?

De Vincenzi continuò a decifrare gli appunti. Questo Olivier O’ Brien doveva essere un uomo alto, magro, coi baffi neri e leggermente zoppicante della gamba destra.

– Sono tutti qui i connotati forniti da Crestansen?

– Sì. E non sarebbero serviti a niente, del resto. Crestansen ricordava l’uomo com’era trent’anni fa!... Andarlo a riconoscere oggi, dopo tanto tempo!... E questa volta nessuna fotografia, per aiutarci. Crestansen mi dichiarò di non averne...

– E allora? Che cosa pensava di fare, lei? Si sarebbe ancora affidato all’ispirazione del suo lobo frontale?

– Ah!

Lo guardava, scrutandolo. Non sapeva se fosse ironico.

– Perché doveva tornare, stamattina?

– Per portarmi qualche maggiore indicazione. Diceva che avrebbe veduto un suo amico, il quale forse ne sapeva di più sul conto di questo O’ Brien...

– Giobbe Tuama?

– Può darsi.

– Lei sa quando Crestansen si sia incontrato con Tuama?

– Credo ieri alla Fiera...

– Come fa a crederlo?

– È una supposizione. Venerdì sera, Crestansen volle che lo facessi accompagnare da uno dei miei uomini in via Bramante. Non trovarono Tuama. La portinaia disse che sarebbe tornato assai tardi alla sera... Lo attesero fino alla mezzanotte inutilmente... Alle sette del mattino, il mio uomo era al portone di via Bramante. Crestansen gli aveva dato incarico di assicurarsi che Tuama si trovasse a casa e di avvertirlo per telefono. Sarebbe accorso subito. Ebbene, il vecchio quella notte non rincasò. La portinaia stessa ne fu meravigliata. Era la prima volta che accadeva. Allora, il mio impiegato cercò d’informarsi alla Chiesa Evangelica di Piazza Mentana. Sapevamo che quel Tuama faceva parte del Consiglio della Chiesa... Lì seppe che a mezzogiorno il vecchio si sarebbe trovato in Piazza Mercanti per vendere le Bibbie alla Fiera... Ecco tutto. Poiché diedi io stesso l’informazione a Crestansen, ne deduco che si sieno incontrati alla Fiera...

– Dunque, lei vide l’americano anche ieri?

– Sì. Verso le undici. Era furibondo, perché non poteva metter la mano sopra Shanahan, come diceva lui... Manifestò la convinzione che il vecchio si nascondesse, per sfuggirgli... Ma poi la trovò lui stesso ridicola. Tuama non poteva umanamente sapere che lui fosse a Milano...

De Vincenzi si alzò.

– Trattengo queste lettere e la fotografia. Anzi, sarà bene che lei mi consegni tutta la pratica. Gliene rilascerò ricevuta.

Il detective non fece obiezioni. Oramai, bene o male aveva vuotato il sacco e quelle carte non significavano più nulla per lui: il cliente era morto! Consegnò la cartella rossa con un sospiro.

– Il mio praticario avrà un vuoto!

De Vincenzi diede un’occhiata al casellario. L’Agenzia «Radio» era antica e lì dovevano trovarsi le pratiche di almeno vent’anni d’esercizio. Tutta dinamite. A gettar quelle carte per la strada, c’era da far saltare mezza città.

– La saluto, signor Franceschi. Se avrò ancora bisogno di lei, la manderò a chiamare...

Appena in Piazza Crispi, saltò in un tassì.

– Via Bramante, 9.

Poi mutò idea.

– Fermate prima a San Fedele.

In Questura, fece salire Cruni accanto a sé e l’auto partì.

– Ha fatto colazione, cavaliere?

– Non ancora...

– Neppur io!... – sospirò il brigadiere. – Ci stavo andando...

– Mangerai tra un’ora. C’è stato nulla di nuovo?

– Quei tre che aspettano. Il Pastore ha anche protestato...

– Che uomo è?

– Un giovanotto, gliel’ho detto. Quando si è presentato, sembrava molto cortese... timido, persino... Ma poi...

– Poi?

– Uhm! aveva un certo sguardo! Gli occhi gli brillavano come due carboni accesi...

– Come si chiama?

Cruni fece un gesto.

– Non gliel’ho chiesto. Lì in Chiesa tutti lo chiamavano il Pastore.

De Vincenzi guardava la strada davanti a sé. Aveva fretta d’arrivare. In casa di Tuama, forse, avrebbe trovato qualche indizio. Cominciava a veder chiaro, del resto. Chiaro per modo di dire, s’intende. Tuama era stato trent’anni prima nel Sud Africa con Beniamino O’ Garrich. Appartenevano alla medesima società per la ricerca e l’estrazione dei diamanti. Poi s’erano divisi. Come? Perché? C’era il fatto che Crestansen supponeva ricco il vecchio.

Doveva commerciare in gioielli e in pietre preziose, aveva scritto... E anche Crestansen s’era trovato con Tuama, e quindi con O’ Garrich, nel Sud Africa: la fotografia inviata lo dimostrava. Che cosa era avvenuto laggiù? Avevano compiuto un grosso furto assieme? Complici tutti e tre? O che altro?

E Beniamino s’era ritrovato in Italia con Tuama. A Milano. E vendevano le Bibbie assieme.

Un giorno – il sabato, ieri – compariva improvvisamente Crestansen. E quella stessa notte Tuama veniva strangolato e Crestansen ucciso con uno spillone nel cuore.

Poteva esser stato Beniamino O’ Garrich? A strangolare il vecchio era ancora possibile; ma a uccidere Crestansen, no. L’americano era stato ucciso all’Hôtel d’Inghilterra tra le dieci e le undici di sera e a quell’ora Beniamino si trovava in Piazza Mercanti, davanti al banco del Libro dei Libri, a raccoglier monete d’argento nel sacchetto dei poveri.

E quell’altro Olivier O’ Brien, che Crestansen voleva far cercare? Era lui il feroce giustiziere? Quale nome aveva dato che esistesse realmente?

Tutto un romanzo! De Vincenzi avrebbe potuto far lavorare la sua fantasia come voleva. Non c’era nulla di sicuro, nessun indizio, neppure psicologico! Lui non aveva conosciuto né Giobbe Tuama, né Giorgio Crestansen. Aveva veduto i loro cadaveri e null’altro. Troppo e troppo poco...

Una brutta storia. Sentiva che avrebbe dovuto rimestare il fango, tanto fango, prima di arrivare alla fine.

Sospirò! Che mestiere il suo! E fatto come lui lo faceva, poi!

L’auto s’era fermata. Cruni aveva aperto lo sportello. De Vincenzi diede un foglio da cinquanta al brigadiere.

– Paga il tassì e aspettami sul portone.

De Vincenzi entrò nel portone.

Una casa popolare. Un grande cortile corso tutto d’attorno ai piani da ballatoi stretti, con le ringhiere di ferro. Panni tesi ad asciugare. Bambini mocciosi, seminudi, donne discinte. Un uomo in maniche di camicia a leggere il giornale.

Aprì la porta a vetri della portineria. Un odore nauseante di zuppa al lardo e di cavoli. Una vecchia e un vecchio seduti davanti a due scodelle fumanti. I bicchieri pieni di vin rosso denso come mosto.

– A che piano Giobbe Tuama?

– Non è in casa...

Ma la vecchia s’era alzata e lo guardava.

– Potete dire a me. Gli riferirò. Se avete qualcosa da lasciare per lui...

Un’abitudine. Quando il vecchio era assente, la portinaia riceveva i clienti. Forse, si raccomandavano a lei per il rinnovo di una cambiale, per ottenere un altro prestito. Questo qui, però, lo guardava con curiosità. Una faccia nuova.

– Lo so che non è in casa. Che piano?

– Ma se non c’è?

– Non ci sarà mai più. È morto.

Tolse di tasca il distintivo della polizia e glielo mostrò.

La vecchia si mise a tremare.

– Morto! E voi... e voi...

Dovette sedere di nuovo, perché le gambe le si piegavano.

Il marito continuava a mangiare. Era più vecchio di lei. Un teschio coperto di pelle dura, coriacea, livida. Volse gli occhi acquosi, senza sguardo, verso la moglie.

– Digli che abita al terzo piano... – e masticava lentamente, battendo le labbra e le gengive senza denti.

– Datemi la chiave della porta. So che voi l’avete.

La vecchia tornò ad alzarsi, si trascinò fino alla parete, staccò una chiave da un chiodo.

– Vi accompagno. La responsabilità ce l’ho io...

De Vincenzi le tolse la chiave dalla mano.

– Non importa. Continuate a mangiare.

Uscendo sotto l’androne, per imboccare le scale, chiamò Cruni.

– Rimani davanti alla portineria... Non farla salire... – e indicò la vecchia, che s’era messa sulla porta.

Fece le scale quasi di corsa. Quando fu sul ballatoio del terzo piano, vide subito una figura nera contro una delle tre porte.

Era una donna. Vestita tutta di nero, con un cappello coperto di lustrini sul capo grigio. Il volto piccino, risecchito. Una castagna secca con due occhietti traforanti.

Guardò le altre due porte. Sopra entrambe si vedevano le targhette con due nomi, che non erano quello di Giobbe Tuama. La donna si teneva proprio contro la porta, che lui doveva aprire.

Egli avanzò con la chiave in mano. Quella si eresse sul busto. Lo fronteggiò. Non parlava. Gli occhi le fiammeggiavano.

– Permettete?

– Chi siete, voi?

Una voce di petto, profonda e l’accento era spiccatamente straniero.

– Commissario De Vincenzi della Questura Centrale.

La donna corrugò la fronte. Tutte le rughe le si addensarono agli angoli degli occhi. S’era irrigidita. Alta e sottile com’era, sempre più sembrava legnosa, tutta punte.

– Che cosa volete? Perché?

Era evidente che non capiva e si sforzava di trovare una spiegazione a quell’uomo, che diceva di appartenere alla polizia e che tendeva una chiave davanti a sé.

– Ditemi voi, piuttosto, che cosa fate qui!

– Aspetto.

– Chi?

– Qualcuno che deve venire...

Aveva tra le mani una grossa borsa nera e la stringeva.

– Giobbe Tuama?

La vecchia non toglieva lo sguardo dalla chiave.

– Perché volete entrare in casa di Giobbe Tuama? Chi siete?

De Vincenzi con una mano, dolcemente, fece per allontanarla.

– Lasciate che io apra. Dentro potremo parlare.

Gli occhi della donna ebbero un lampo.

– Dentro... – mormorò e si trasse da parte. – Entrerò con voi...

La chiave girò e la porta si aprì.

Apparve subito la cucina, con un fornello a gas proprio di fronte alla porta. In mezzo, il tavolo con avanzi di cibo abbandonati sopra un tovagliolo pieno di macchie. Qualche seggiola di paglia. Una credenza nell’angolo, vicino alla porta a vetri, che era aperta. Si vedeva un breve corridoio buio e poi un’altra porta.

De Vincenzi andò alla finestra e l’aprì. L’odore di polvere, d’umidità, di rancido era insopportabile.

La vecchia lo aveva seguito e si guardava attorno. I suoi sguardi si fissarono su qualche registro e sopra una cassettina di legno, che si trovava sulla credenza.

– Volete dirmi adesso chi siete, signora?

Volse gli occhi verso di lui.

– Voi siete proprio della polizia?...

De Vincenzi annuì.

– Lo avete arrestato?

Era bizzarro. Quel colloquio tra loro due, nella cucina lurida di un appartamento in cui egli penetrava per la prima volta, gli dava la sensazione di una fatalità insfuggibile. Aveva l’impressione di essersi recato lì, non per perquisire la casa di Giobbe Tuama, ma per incontrarsi con quella donna.

– Che cosa direste, se vi rispondessi che Giobbe Tuama è stato arrestato?

– La giustizia degli uomini non può punire a sufficienza le colpe commesse contro Iddio.

– Conoscete molto bene Giobbe Tuama?

– L’ho conosciuto.

– Lo aspettavate?

– Sì. Debbo incontrarmi con lui.

– Non potrete farlo, signora... Non potrete incontrarlo mai più...

– Volete dire ch’egli è morto?

– Appunto. Lo hanno ucciso.

– Ah!

Ma non fu neppure un’ esclamazione di sorpresa. Appena un suono inarticolato, che poteva essere di assenso, di conclusione. Come un punto fermo dopo la frase del commissario.

– Vedo che la notizia non vi turba...

– Perché dovrebbe turbarmi? Non posso che gioire, quando vedo Iddio colpire il male in tutte le sue forme.

– Anche in quella di un essere umano?

– Sì. Anche in quella di un essere umano.

– Giobbe Tuama aveva, dunque, in sé molti peccati mortali?

– Era una bestia immonda.

De Vincenzi ebbe un brivido. Il senso dell’irreale e del tragico lo invase. Quella donna s’era sbagliata di secolo. Veniva dalle profondità del medioevo.

– Egli è morto, signora.

– Il Signore ha detto: facciasi morire ciascuno per il suo proprio peccato.

Anche questa una puritana! Ma più terribile, più spietata. Atroce.

– Chi siete voi, signora?

– Volete sapere il mio nome? Io mi chiamo Dorotea Winckers...

Lui ebbe un’intuizione.

– E come vi chiamavate un tempo?

La vecchia strinse le labbra esangui.

– Che importa!

– Moltissimo, invece.

L’altra tacque sempre più irrigidita, chiusa come un’ostrica.

– Signora! Iddio può punire a suo agio; ma qui c’è un delitto... e non uno solo... Io debbo trovare l’assassino e lo troverò. V’invito a rispondere alle mie domande. Perché vi ho trovata davanti alla porta di Giobbe Tuama, che questa notte qualcuno ha strangolato?

– Lo aspettavo.

– Per quale ragione? Che rapporti avete con lui?

Un sorriso bieco, carico di sarcasmo, le apparve sulle labbra.

– Oh! non avrebbe avuto piacere di vedermi. Sono tre giorni che lo seguo e lui se ne era accorto. Ha tentato fuggirmi. Io non volevo altro che questo: che lui mi vedesse. Se non fosse morto, avrei continuato ad apparirgli dovunque. Sarebbe bastato.

– E lo attendevate davanti alla porta della sua casa?!

– Sì. Avrebbe capito che non poteva sfuggirmi più.

– Lo odiavate, dunque?

– Come si odia il male. L’empio dev’esser tormentato tutti i giorni della sua vita.

Una pazza lucida. De Vincenzi si sentiva sempre più invadere da un malessere strano. Anche a lui la ragione cominciava a vacillare. Tutto era già allucinante. Il corpo del vecchio sotto il banco. Lo spillone cacciato nel cuore di quell’altro. La cucina in cui si trovava col suo odore di tomba e d’immondezzaio. E adesso questa donna vestita di nero, col cappello di lustrini, che stringeva la borsa al petto con dita adunche. E le parole apocalittiche di lei. Un sogno incubo.

– Signora! È ora che questa commedia finisca. Ho avuto pazienza abbastanza. Intendo che voi mi rispondiate. Che cosa volevate da Giobbe Tuama?

– Che mi vedesse.

– Ma perché? Chi siete voi?

Finalmente, la donna sembrò animarsi. Alzò le spalle.

– Io mi chiamo Dorotea Winckers Shanahan. Per mia disgrazia, sono stata la moglie di Jeremiah Shanahan.