Capitolo VI
L’eredità
Il silenzio, che seguì a quella dichiarazione preveduta da De Vincenzi, non fu lungo.
Dorotea Winckers Shanahan appariva adesso più umana. Più umana anche nel suo odio e nella sua volontà di vendetta. Le nebbie fosche del medioevo si erano un po’ diradate attorno al suo cappello di lustrini e alla sua ossuta persona pietrificata.
– Se ci sedessimo, signora Winckers?
Il commissario prese una seggiola e la pose accanto alla donna.
– Non vedo ragione alcuna di sederci. Qual era il vostro scopo, venendo in questa casa? È facile supporre che voleste procedere ad una perquisizione. Ebbene, nulla di meglio che io sia presente ad essa, dato che, come moglie del morto, sono la sua erede.
De Vincenzi non s’era ancora prospettato questa conseguenza. Infatti, tutto faceva ammettere che Giobbe Tuama lasciasse un’eredità. E assai cospicua, probabilmente.
Ma prima erano molti i punti da chiarire. Anche quello della sua morte e della morte di Giorgio Crestansen. Ed ecco che all’improvviso sorgeva dal nulla questa donna vestita di nero, diritta e rigida, che invocava tutti i fulmini della vendetta divina, per poi far valere i propri diritti all’eredità...
– Credete che... vostro marito lasci molto denaro, signora Winckers?
– Gli empi spostano i termini dei campi, menano a pascere greggi rubati, portano via l’asino dell’orfano, prendono in pegno il bove della vedova, cacciano i mendichi dalla strada...
Gli occhi le fiammeggiavano di nuovo. Parlava con le parole del Libro di Giobbe. Era grottesca e dava brividi.
De Vincenzi assentì col capo.
– Vedo... vedo... Tutto denaro male acquistato. Ma il denaro esiste. E voi lo reclamate.
Lei tagliò l’aria con un gesto rapido della mano, che per la prima volta distaccò dal sacco nero e rigonfio.
– Non avete il diritto, voi, d’insinuare nulla contro di me. Non ho spiegazioni da darvi.
– Certamente. Ma l’eredità, vi appartenga o meno, non è cosa che interessi in questo momento. A me spetta un solo dovere: trovare l’assassino di Giobbe Tuama e di Giorgio Crestansen.
Gli occhi le s’illuminarono, ebbero una festosa luce di gioia. Ma fu un attimo. Subito le palpebre si chiusero e De Vincenzi vide che le labbra di lei si muovevano silenziosamente, come se pregassero.
Comprese. Anche per l’acuta tensione nervosa, egli si sentiva dotato di chiaroveggenza. Era salito in quella casa, recando sotto il braccio la cartella rossa della «pratica» Crestansen. La pose sul tavolo e ne trasse la fotografia ingiallita.
– Signora Winckers, vorrei che guardaste questa fotografia e mi diceste, se conoscete l’uomo, che è a fianco di vostro marito.
La donna aprì gli occhi, protese lentamente la mano, afferrò il cartoncino.
– Sì, lo conosco. Anche lui dev’essere stato colpito dall’ira celeste – e lanciò la fotografia sul tavolo.
– Se per tale intendete uno spillone conficcatogli nel petto da mano assassina, Crestansen ha proprio conosciuto l’ira celeste!... Signora Winckers, in che anno vi trovavate nel Sud Africa con vostro marito e con...
Non poté continuare. La voce di lei scoppiò soffiata, fremente di sdegno, carica di disprezzo.
– In quel tempo, Jeremiah Shanahan non era mio marito!... Io ero la signora Winckers... Vi prego. Tutto questo non c’entra! Non sperate di ottenere da me la più piccola informazione sul conto di quegli uomini e delle loro azioni. Non siete voi che potete punire. È il Signore che ha provveduto e provvede a questo. Egli ha detto: «Io sterminerò sulla terra gli uomini che ho creati, perciocché io mi pento di averli fatti». Come volete voi mettervi attraverso i disegni divini? Voi, povera piccola creatura!... Basta!... Continuate a compiere i modesti e inutili atti del vostro ufficio. Essi non mi riguardano. Vi dirò di più. Io spero con tutto l’ardore del mio cuore che voi non riusciate mai a scoprire chi ha ucciso Jeremiah Shanahan e Giorgio Crestansen.
Gli occhi le si velarono, come i pensieri. Ancora le sue labbra frementi si agitarono. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa di definitivo, di terribile, una maledizione che avesse la potenza degli anatemi biblici. Ma non le uscì dalla gola che qualche suono inarticolato. Le mani stringevano convulsamente il velluto nero della borsa. Sollevò il capo, sfidando l’uomo, che le stava dinanzi. Poi si voltò di colpo, raggiunse la porta, scomparve.
De Vincenzi non la trattenne e sentì il passo di lei, rotto, ineguale, sonoro ripercuotersi giù per le scale.
La donna scendeva con la testa in fiamme. Le parole roventi le si agitavano nel cervello. Che terribile prova questo passaggio sulla terra! Morire! Morire! Riposare per sempre nella grazia del Signore. All’ultimo gradino, inciampò e fece appena a tempo ad afferrarsi alla ringhiera.
Ma passò diritta, tagliente, dinanzi a Cruni, che s’era slanciato a sostenerla e che la guardò meravigliato.
In alto, De Vincenzi s’era messo a cercare con metodo, pazientemente, nella cucina e nell’unica camera, che costituivano la casa del fu Giobbe Tuama. Egli aveva aggiunto un’altra figura al puzzle macabro di quell’inchiesta, che aveva tutta l’aria di svolgersi sotto il segno della collera divina.
Per prima cosa, rivolse la sua attenzione ai registri e alla cassetta. Nei registri trovò i nomi che si aspettava e sorrise appena, leggendo quello di Ugo Piermattei. Il vecchio esercitava lo strozzinaggio a un tasso spaventoso. Se non avessero provveduto a mandarlo all’altro mondo, avrebbe dovuto provvedere De Vincenzi a farlo andare al confino. La cassetta era chiusa a chiave, ma bastò la lama di un robusto coltello che il commissario trovò sul tavolo, per far saltare la serratura e sollevare il coperchio. Separate in pacchi, a seconda della data di scadenza, giacevano lì dentro le cambiali di tutti i disperati clienti di Giobbe Tuama. C’era da chiedersi come avesse potuto costui stendere le sue reti su tante persone! Aveva ragione quel cinico e spassoso Maurizio Venanzi Jacobini; la morte del vecchio avrebbe ridato la vita a un numero infinito di disgraziati. Poiché una cosa era certa per De Vincenzi: egli avrebbe sequestrato quelle cambiali, togliendole così automaticamente dalla circolazione. Non le avrebbe certamente consegnate come facenti parte dell’eredità a quella allucinante signora Winckers, i cui riflessi egli conosceva ancora troppo poco per potersi affidare a essi, contando su di una generosità, che era soprattutto giustizia.
Null’altro nella cassetta, destinata evidentemente a quel solo ufficio di custode delle miserie altrui. Ma, sollevando i pacchi, il commissario vide brillare qualcosa sul fondo. Era una chiavetta. Il duplicato esatto della chiave trovata tra i due lastroni della piazza, ancora appesa un pezzo di catena da orologio. De Vincenzi l’aveva in tasca e le confrontò. Lo stesso numero: M. 368. Le chiavi, dunque, di una cassetta di sicurezza, che il morto doveva possedere in qualche banca cittadina.
La scoperta aveva la sua importanza. Anzi tutto, dimostrava che chi aveva strangolato Giobbe Tuama gli aveva anche, per una ragione qualsiasi, strappato la catena dell’orologio, facendone cadere in terra il pezzo con la chiavetta e, poiché in dosso al morto l’orologio non si era trovato, c’era da ritenere che fosse stato portato via dall’assassino. Ora, il furto non era certo il movente di quel delitto e dell’altro commesso all’Hôtel d’Inghilterra, così che s’apriva un vasto campo a ipotesi d’ogni genere.
In secondo luogo, quelle chiavi – una volta rintracciata la banca e questo era facile – avrebbero permesso di mettere le mani su quanto Tuama possedeva di prezioso e c’era da sperare che tra i valori e le carte di lui si potesse trovare anche qualcosa che servisse ad illuminare la sua vita passata, tanto piena di segreti e di misteri avvelenati.
De Vincenzi si mise le due chiavi in tasca e richiuse la cassetta.
Aprì la porta del corridoio ed entrò nella camera da letto.
Giobbe Tuama, avesse o meno una sostanza, come Crestansen credeva, era ad ogni modo in grado di disporre di alcune e forse di molte migliaia di lire. I pacchetti delle cambiali costituivano di per sé soli un capitale ragguardevole. Eppure viveva nella miseria.
La sua camera da letto, più ancora che la cucina, lo dimostrava. I muri bianchi. Una branda di ferro per letto. Pochi mobili di legno dipinto. Non era sordido, era squallido. Uno squallore da cella francescana. Si sarebbe detto che l’abitatore di quella camera vivesse di proposito nell’austerità. Abolito il superfluo, anche il necessario era ridotto al minimo. Si pensava alla macerazione della carne. Se De Vincenzi avesse trovato un cilicio, non se ne sarebbe meravigliato.
Trovò, invece, gli abiti del vecchio accuratamente disposti nell’armadio, la biancheria nel cassettone. Non una carta, una lettera, una fotografia, un libro. Neppure la Bibbia: Giobbe Tuama vendeva il Libro dei Libri, ma non lo leggeva nell’intimità della sua casa.
C’era da chiedersi come facesse a funzionare il cervello di quell’uomo. Forse, si nutriva di ricordi. Forse, egli rimaneva il più possibile in giro per la città. Lo squallore della sua abitazione faceva pensare ad una capanna sorta in un luogo deserto e selvaggio, dove fosse impossibile procurarsi alcun conforto. C’era in lui il proposito di rivivere l’esistenza del Sud Africa?
De Vincenzi rimase lunghi istanti in piedi in mezzo alla stanza, a guardarsi attorno. Le persiane e i vetri erano chiusi e il sole meridiano, che batteva contro la facciata della casa, riusciva appena a far entrare, un diffuso chiarore rossastro. Lui di proposito non aveva aperto la finestra, per potersi render conto dell’ambiente. Cercava di vedere lì dentro Giobbe Tuama, con il suo tait nero, i pantaloni troppo lunghi e troppo stretti, che gli ricadevano sulle scarpe interminabili, scarpe da clown. Ma non riusciva ad immaginarselo. L’ambiente non mandava vibrazioni, non lo accoglieva; chiuso e freddo, difendeva il segreto di un’esistenza, che s’era tragicamente spenta sotto un banco di libri, sui lastroni di una piazza.
Il commissario si scosse, perché sentì rumore di passi nella cucina.
Era Cruni, che veniva a chiedere se avesse bisogno di nulla. In realtà il brigadiere, irretito da quell’attesa prolungata, era meravigliato che il suo superiore se lo fosse trascinato seco, per poi lasciarlo in istrada, mentre lui effettuava una perquisizione, che di solito non compiva mai da solo.
– Hai veduto uscire una vecchia signora vestita di nero?
– Ma sì, cavaliere... Più buffa di quella!... C’entra anche lei?
De Vincenzi guardava ancora la cucina. Decisamente, la casa gli aveva rivelato tutto quanto aveva in sé. Poco o nulla, vale a dire. Vero è che, col recarvisi, aveva conosciuto la moglie del fu Giobbe Tuama... E aveva trovato la chiave... e le cambiali...
Aprì di nuovo la cassetta e trasse i pacchi. Li mise sul tavolo, assieme alla cartella rossa. Si guardò attorno. Non c’era da sperare di trovar lì un giornale, un foglio qualunque di carta.
– Prendi tutta questa roba... Ma come farai a portarla senza avvolgerla?
Cruni aveva veduto una sporta di paglia, che doveva servire al vecchio per le provviste...
La prese e vi cacciò dentro la cartella rossa e tutta quella raccolta di lacrime, che avevan fatto stillar dalla penna i debitori dello strozzino.
– Andiamo.
De Vincenzi chiuse a chiave la porta e discese.
– Ricordati di telefonare al giudice, dandogli l’indirizzo di questa casa, perché venga a mettervi i suggelli.
Lui sentiva un violento bisogno di respirare aria pura. Eppure, non aveva ancora finito con quella casa. Doveva interrogare la portinaia. Forse, c’era qualcosa da tirar fuori da lei, ch’era stata senza dubbio la persona di fiducia e probabilmente la confidente del vecchio.
Cruni gli lanciava sguardi pietosi. Il brigadiere non conosceva quasi nulla di quell’inchiesta. Non l’aveva seguita col suo commissario, era entrato in iscena all’improvviso e tutta la sua opera fino allora si era limitata a rimanersene fermo in un portone, a far la guardia a due vecchi, che avevano continuato a brontolare fra loro. Non poteva, quindi, essersi appassionato al giuoco complesso delle indagini. E aveva fame!
– Cruni, adesso vattene a San Fedele. Manda a casa il Pastore e i due vigili notturni, pregandoli di tornare verso le tre...
– E lei, dottore?
– Io ho ancora qualcosa da fare qui... – ebbe un’esitazione. – Al Pastore dì, invece, che andrò io da lui, nel pomeriggio di oggi... Hai capito?
Il brigadiere assentì e scomparve fuori del portone, col passo rapido delle sue gambe troppo corte.
De Vincenzi trovò i due vecchi sempre seduti davanti alla tavola apparecchiata.
– Eccovi la chiave. La consegnerete al giudice, quando verrà.
La vecchia la prese e andò a riappenderla al chiodo. Tremava tutta. Il colpo era stato forte per lei. Si voltò a guardare il commissario con occhi smarriti.
– Come... come è morto?
– Quando lo avete veduto per l’ultima volta?
– Ieri mattina...
Tormentava il grembiule con le mani.
De Vincenzi avanzò nella stanza angusta.
– Sedetevi... Dobbiamo parlare tranquillamente...
Sedette. Il commissario le si teneva dinanzi. Il vecchio rimaneva immobile con le braccia distese sul tavolo e quel suo sguardo spento, annegato negli occhi acquosi.
– Dunque, dicevate che ieri mattina vedeste Giobbe Tuama, quando rincasò dopo aver trascorso la notte fuori di casa...
La vecchia trasalì.
– Come lo sapete?
– So questo e molte altre cose sul conto di Giobbe Tuama. Sarà bene, quindi, che mi diciate la verità.
– Se sapete tante cose, che bisogno avete di interrogarmi? Che cosa posso dirvi, io?...
– Da quanto tempo abitava in questa casa?
Un gesto largo indefinito della mano ossuta fu la risposta.
– Molto tempo?
– Appena dopo la guerra...
– Ne siete sicura?
– Come volete che mi ricordi con precisione?
– Ha vissuto sempre solo?
– Che volete dire? Solo... in che modo?
Che fatica strapparle le risposte!
– Voglio dire proprio quel che dico. Qualche altra persona ha abitato con lui, in questa casa?
– Per un certo tempo veniva un giovinetto a far la pulizia... Aveva la chiave... Si tratteneva quanto voleva...
– Ma vi dormiva anche?
– No! Oh! dove volete che si mettesse? Non avete veduto le due camere?
– Bene. Molta gente veniva a trovare il vecchio?
– Qualcuno...
– Ascoltatemi e cercate di capirmi! Io so perfettamente quale specie di traffico facesse il morto... Prestava danari ad usura...
– Io non c’entro! Non so nulla! Lui mi diceva: signora, deve venire il tale, ditegli che ritorni... Oppure: ditegli che lasci detto a voi... Io faccio la portinaia e nient’altro... Gl’interessi dei miei inquilini non mi riguardano... Se crede che ci abbia guadagnato qualcosa...
– Non credo nulla! – troncò De Vincenzi. – Che Giobbe Tuama facesse l’usuraio è cosa che oramai non interessa più. E neppure m’interessa sapere quali furono i vostri rapporti con lui pel suo commercio... Ma il vecchio è stato ucciso, capite?
La donna aveva il volto livido e non era possibile, quindi, che impallidisse di più; ma fu ripresa dal tremito convulso.
– Madonna!... Ucciso!...
Si voltò al marito.
– L’hanno ucciso, hai sentito?
L’uomo volse lentamente lo sguardo verso il commissario.
– Doveva finire così! – borbottò.
La vecchia ebbe uno scatto.
– Non gli badate! Lui non sa quel che si dice. Il signor Tuama era un brav’uomo. Chi è stato l’infame?...
– È proprio quello che vogliamo sapere: chi è stato! Voi non avete nessuna idea? Non avete veduto qualcuno, che possa avervi destato sospetto?
– No. Non so niente. Non ho veduto nessuno!
– Era accaduto altre volte che Tuama rimanesse fuori di casa tutta la notte?
– No, mai.
– E ieri mattina, quando rincasò, che vi disse?
– Ah!
Gli occhi della vecchia brillarono.
– Aspettate. La sera prima erano venuti due signori a cercarlo... Non li avevo veduti mai... e non vollero dirmi nulla... Io aspettai Tuama per avvertirlo, ma alle undici non era rincasato e mi decisi a chiudere il portone... Ebbene, nel chiudere, vidi uno di quei due che stava fermo sul marciapiede di fronte... Lo riconobbi benissimo...
Si trattava dell’uomo dell’Agenzia «Radio». De Vincenzi lo sapeva. Le informazioni della portinaia non servivano a niente. Si alzò.
– Ho capito...
La donna lo afferrò per un braccio.
– Aspettate!... Ieri mattina, verso le sette, vidi di nuovo quell’uomo. Venne a chiedermi se Tuama fosse in casa. Gli dissi che certo doveva esservi. Salì sopra e tornò, dicendomi che la porta era chiusa e che nessuno rispondeva. Mi sembrò impossibile. Volli salire con lui, e vidi, infatti, che la casa era vuota. L’uomo se ne andò. Verso le 10, comparve il signor Tuama...
– Non vi disse perché aveva dormito fuori?
– Mi disse che era stato a Varese, che gli si era fatto tardi e che aveva preferito non tornare... Ma quell’uomo che lo cercava!...
– Avvertiste Tuama?
– Lo avvertii, naturalmente. Non sapeva chi potesse essere. Del resto salì appena un momento in camera e tornò subito fuori. Non lo vidi più da allora. Quando mi sono accorta stamane che neppure la notte scorsa era rincasato, ho pensato che fosse andato a Varese di nuovo.
De Vincenzi capì che, pel momento almeno, non c’era più nulla da tirarle fuori. Chi aveva ucciso il vecchio non doveva essersi mostrato in via Bramante. E l’ipotesi che potesse essere uno dei debitori, uno dei tanti digraziati, che avevano lasciato lembi della loro carne nella cassetta di legno, non era più sostenibile da quando all’assassinio del vecchio si era aggiunta l’uccisione di Giorgio Crestansen, infittendo il mistero e rendendo il problema unico.
Il commissario si ritrovò finalmente per la via piena di sole, quasi deserta in quell’ora meridiana della domenica.
Si fermò ad attendere il tranvai, che lo avrebbe ricondotto al centro. Aveva molte cose da fare, urgenti. Parlare col Pastore evangelico, interrogare le due guardie notturne e soprattutto tornare in Piazza Mercanti, dove avrebbe ritrovato Beniamino O’ Garrich. Aveva sentito subito che quell’ercole dal volto testardo e duro come pietra chiudeva in sé, forse, la spiegazione dell’enigma. Egli si era trovato nel Sud Africa con Tuama e con Crestansen. Legato alla stessa galera di quei due doveva essere! Il terrore evidente, per quanto avesse tentato di dissimularlo, che lo aveva invaso quando si era reso conto che il vecchio non doveva essere stato ucciso da un malfattore volgare e per rapina, lo dimostrava. Anche lui temeva adesso la vendetta di quel feroce assassino, che operava nell’ombra senza fallire il colpo. Se De Vincenzi fosse riuscito a far parlare l’irlandese, avrebbe fatto un gran passo. E per indurlo alle rivelazioni non c’era che un mezzo: spingere al parossismo il suo terrore. Scosse la testa: il fatto di non aver parlato subito dimostrava che in lui la paura della morte non era tanto forte da superare quella delle conseguenze di una rivelazione. Quale poteva essere il passato di quei tre strani individui, venuti a naufragare proprio a Milano, dopo chissà quali vicende fortunose? E il quarto di essi, quell’Olivier O’ Brien, che Crestansen voleva ritrovare, come aveva ritrovato il vecchio Jeremiah Shanahan, sotto le spoglie di Giobbe Tuama? Era lui l’assassino?
Seduto in tranvai, con lo sguardo assente, il volto concentrato, De Vincenzi rifletteva intensamente, tutto teso nello sforzo di non dimenticare alcun particolare, di elencare senza omissione tutti gli elementi, che gli si erano mostrati fin allora.
Lui non prendeva mai appunti; ma aveva il dono d’incasellare indelebilmente nel cervello le osservazioni che faceva.
Giobbe Tuama era stato strangolato da un uomo forte, che lo aveva stretto alla gola con mani simili ad artigli, e così pronto e sicuro da non consentire alla vittima neppure un grido. L’assassino gli aveva tolto l’orologio dalla tasca, con tanta violenza da strappargli la catena e anche con tanta fretta da non accorgersi che la chiavetta era caduta in terra. Perché proprio l’orologio e non il denaro o altro? E poi, invece, per quanto si trovasse necessariamente nella condizione di doversi allontanare al più presto dal luogo del delitto – coi due vigili notturni, che certo erano sulla piazza – ecco che aveva voluto indugiarsi a distendere il corpo sotto il bancone e a ricomporgli le membra, piegandogli le braccia sul petto! La stessa cura dell’uccisore di Crestansen, che aveva lasciato il cadavere sul letto perfettamente composto, come se dormisse. Ma dalla camera dell’Hôtel d’Inghilterra l’assassino non aveva portato via nulla e, seppure aveva aperto la valigia, non si era curato d’impadronirsi della lettera dell’Agenzia «Radio» che pure evidentemente conteneva qualche indizio non trascurabile.
De Vincenzi ricordò l’ipotesi, senza dubbio abile, del giovane Kruger: l’assassino recava alle mani guanti di lana nera. E quando era disceso per le scale, s’era messo una paglietta col nastro bianco e azzurro, la barba bionda e gli occhiali di tartaruga.
Il cervello del commissario incasellava sempre... Olivier O’ Brien era alto, magro, coi baffi neri e leggermente zoppicante. Almeno, così appariva trent’anni prima...
Perché lui non aveva parlato di Olivier O’ Brien a Dorotea Winckers Shanahan?
Corrugò la fronte. Aveva lasciato libera di andarsene la moglie di Giobbe Tuama, senza chiederle dove abitasse, senza farla seguire, con l’intima ed inespressa convinzione che la vecchia sarebbe riapparsa, che anzi gli avrebbe imposto la sua presenza per tutto il corso delle indagini. Ma, se invece quella lì avesse creduto opportuno scomparire, dove sarebbe andato a pescarla? No! Impossibile. C’era anche l’eredità a trattenerla e a ricondurla in via Bramante.
Scese in Piazza Cordusio ed entrò nel primo ristorante, che gli si presentò. Mangiò in fretta, sempre assorbito nei suoi pensieri.
Poco dopo le due, varcava il portone di San Fedele e si dirigeva al suo ufficio. Ma non vi si trattenne che pochi minuti. Non interrogò neppure i due vigili notturni, lasciando che li interrogasse il vice commissario Sani, a cui affidò anche la cura di ricevere quel comico tipo di Maurizio Venanzio Jacobini, quando si fosse presentato nel pomeriggio.
Era convinto che tutto quello fosse un lavoro inutile.
Sulla piazza, salì in un tassi e si fece portare in Piazza Mentana. Adesso, quel che premeva era il Pastore e subito dopo Beniamino O’ Garrich, alla Fiera del Libro.