Capitolo VII

«Perciocché Iddio ha fatto l’uomo

a sua propria immagine»

Quando De Vincenzi scese dal tassi davanti alla Chiesa Evangelica di Piazza Mentana, la facciata del fabbricato, sotto il sole, appariva ermetica. Tutte le finestre chiuse e la grande porta coi battenti di quercia scolpita.

De Vincenzi al primo momento si chiese come avrebbe fatto ad entrare. Poi vide che il corpo centrale della Chiesa continuava in una casettina più bassa e scorse il bottone del campanello tra gli intagli di una porticina rettangolare.

Venne ad aprirgli una donna in grembiule nero. Aveva il volto ossuto, energico, stranamente bianco, d’un biancore che si sarebbe detto argenteo, tanto era privo di toni caldi. I suoi capelli erano grigi e a metà coperti da una cuffia di pizzo nero. Lo guardò senza nulla chiedergli e si trasse da parte per farlo passare. Lo attendevano. La donna corse avanti ad aprirgli una porta in fondo al corridoio, a piè di una scaletta buia.

Il commissario si trovò in una sala vasta, divisa da un arco basso. Le pareti calcinose, nude; i pochi mobili scuri; un lungo crocefisso dietro lo schienale della poltrona, posta davanti a una larga scrivania coperta di opuscoli, di libri, di carte. Dalle inferriate della finestra alta da terra come quella di una prigione, attraverso i vetri coperti di tende opache, filtrava una luce sbiadita, da acquario. La stanza era piena di angoli bui.

Gli venne incontro un uomo ancor giovane, bruno, dagli occhi lucenti e vividi, dalle labbra carnose e troppo rosse sui denti smaglianti.

– L’aspettavo!... Mi hanno trattenuto più di due ore in Questura!

Aveva la voce calda e sonora; dura, però, e distaccava le parole in modo che ognuna vibrava da sola.

– Me ne dolgo... – disse il commissario, avanzando. – Ma la scoperta dei due delitti è stata fatta con una successione così rapida...

– I due delitti? – chiese il Pastore, con meraviglia. – Io non sono stato informato che della morte del povero Giobbe Tuama. Chi è l’altro ucciso? Spero che la giustizia divina non si sia accanita contro la nostra confraternita e che non si tratti di un altro fratello...

– Uno straniero... Un amico di Jeremiah Shanahan, però...

– Ah!

Gli occhi del giovane fissavano dirittamente l’interlocutore. Fece un gesto, con la mano e indicò il divano di cuoio nero, sotto la finestra. De Vincenzi sedette e il Pastore gli si mise accanto.

– Vuol darmi qualche particolare? È inaudito che abbiano ucciso un uomo a quel modo... in una pubblica piazza... e ne abbiano potuto nascondere il cadavere sotto il banco, senza che i sorveglianti si sieno accorti di nulla!...

– Lei sapeva che Giobbe Tuama si chiamava in realtà Jeremiah Shanahan?

– L’ho saputo da poco. Nel nostro culto non esiste il sacramento della confessione. Il fedele comunica direttamente con Dio e confessa al Signore i suoi peccati...

– E i suoi segreti.

Il Pastore lo guardò.

– I segreti dei nostri fratelli non riguardano che la coscienza di ciascuno di essi.

– La coscienza di Giobbe Tuama doveva essere particolarmente carica!

Di nuovo gli occhi del giovane dardeggiarono rapidi in volto al commissario.

– Perché insinua questo?

De Vincenzi eluse la domanda.

– Uhm!... È un’ipotesi... prodotta dalle prime impressioni...

Si guardava attorno. Cercava di rendersi padrone dell’ambiente, così come sempre era solito fare; ma questa volta l’impresa gli si presentava difficile. Il vasto stanzone, pieno di ombre, con quell’arco nel mezzo, che creava come un’altra stanza al di là del limite segnato dalla luce della finestra, si mostrava freddo e lo respingeva.

Vedeva di scorcio la scrivania, la poltrona, il Cristo gigantesco con le piaghe sanguinanti al costato. Di fronte una porta nera, chiusa.

Anche il Pastore appariva freddo e per nulla accogliente. Il volto abbronzato dalla mascella pesante e sporgente, gli occhi così lucidi da sembrare di vetro, non avevano una sola vibrazione che non fosse di attesa circospetta e di diffidente riserbo.

De Vincenzi tentò rompere quell’atmosfera di ghiaccio. Cercò dare al colloquio un calore umano, un’intensità magari drammatica con quei due morti – poiché, continuando a quel modo, non poteva sperare di recar con sé dalla visita una sola sensazione, per non parlare d’informazioni, utile al suo scopo.

– Mi ascolti, la prego, reverendo. Ci troviamo di fronte a un dramma quanto mai complesso e misterioso.

Il Pastore l’interruppe.

– Io non so nulla di quel che è avvenuto. Perciò le ho chiesto d’illuminarmi.

– Sono pronto a farlo; ma... in compenso ella deve darmi il suo aiuto.

– Non vedo in che modo potrei aiutarla nel compito di ricercare l’uccisore di Giobbe Tuama.

– Perché d’ora innanzi non chiameremmo il morto col suo nome... Jeremiah Shanahan?

– L’abitudine me lo rende difficile...

– Da quanto tempo conosceva l’ucciso?

– Ho raccolto i ricordi, in vista di questo interrogatorio... Due ore di attesa nel corpo di guardia della Questura mi sono state largamente sufficienti... Fu nel 1929, che Giobbe Tuama... o, come lei preferisce, Jeremiah Shanahan, cominciò a frequentare regolarmente le nostre riunioni...

– Lei era già Pastore nella Chiesa di Milano?

– Lo sono dal ’14...

De Vincenzi calcolò rapidamente: eran passati vent’anni. Il Pastore doveva aver trascorsa la quarantina. Eppure, dimostrava molto meno.

– Ma nel ’19 avevo appena ripreso il mio posto dopo aver combattuto al fronte...

– Capisco... E in quale conto teneva l’irlandese?

– Era un perfetto cristiano.

– Apparteneva al Consiglio della Chiesa?

– Da un anno soltanto. La sua assiduità, la sua fede, lo zelo dimostrato nel far proseliti giustificavano pienamente l’elezione.

– Non ha mai cercato di sapere di dove venisse, quale fosse la sua vita passata, che cosa facesse a Milano?

– E perché lo avrei fatto?

– Perciò ella non sa nulla di Giobbe Tuama?

– Mi dica lei, commissario, come sono avvenuti i fatti.

– Qualcuno ha ucciso il vecchio, strangolandolo. Deve ammettersi che sia stato un conoscente della vittima, perché altrimenti questa non si sarebbe fatta coglier di sorpresa, avrebbe gridato, ci sarebbe stata lotta... Forse, un intimo soltanto ha potuto compiere il delitto.

Il Pastore ascoltava attentamente.

– Giobbe Tuama conduceva un’esistenza solitaria. Non mi sarebbe facile dirle chi potevano essere i suoi intimi.

– Beniamino O’ Garrich, per esempio.

– Perché proprio lui? – ma a De Vincenzi sembrò che il nome del colosso non lo avesse sorpreso.

– Perché si conoscevano da molto tempo. Tutti e due nati in America da genitori irlandesi, avevano lavorato assieme nel Sud Africa, impiegati nella medesima società.

– Ha già fatto molto cammino con la sua inchiesta, lei!

– Non tanto, ad ogni modo, da sapere tutto quello che lei non mi dice.

Il Pastore sorrise.

– Può darsi ch’io sappia molto meno di quanto lei crede.

– Da chi ha appreso il vero nome di Giobbe Tuama?

– Dalla moglie di lui.

– Quando?

Ancora un sorriso apparve sulle labbra tumide e coralline dell’uomo.

– Se io le dico che non è neppure mezz’ora, lei è tentato di non credermi.

– Non mi permetto pensare ch’ella menta.

– Infatti! Non è più di mezz’ora che io ho conosciuto la signora Shanahan. È stata lei a presentarmisi.

– Allora, quando io sono giunto, era appena andata via?

– Non è andata via.

Indicò la porta nera di fronte a loro.

– È in Chiesa che prega.

– Per l’anima di suo marito?

Il Pastore si alzò.

– Forse per noi non è facile comprendere un dramma come questo, commissario! Quella donna sembra avere terribili ragioni di odio contro suo marito.

– Lo so.

Seguì un silenzio. Anche De Vincenzi si era alzato.

– Tornerò da lei, reverendo. Pensi alla necessità di dirmi tutto quello che sa.

– Tutto quello che so o tutto quel che suppongo?

– Non posso sperare ch’ella intenda mettermi a parte delle sue supposizioni.

– Crede che io voglia intralciare la giustizia degli uomini?

– Per lo meno non aiutarla. Lei ha fede nella giustizia del Signore.

– Iddio ha detto: «Io domanderò conto della vita dell’uomo a qualunque suo fratello».

– Ma la giustizia sociale...

Il Pastore alzò una mano.

Il sangue di colui che spanderà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo; perciocché Iddio ha fatto l’uomo alla sua immagine.

– È una legge di vendetta, che lei sancisce in tal modo.

– Iddio ha detto: «Facciasi morire ciascuno per il suo proprio peccato».

De Vincenzi non trattenne un gesto d’impazienza. Anche questo come la vecchia! E con le stesse citazioni! Da tre ore che si trovava a combattere con quei pietisti cominciava a perdere il controllo di sé.

– Tornerò e lei mi dirà qualcosa di più preciso.

– Ma lei non mi ha parlato del secondo delitto.

Il commissario alzò le spalle.

– Un certo Giorgio Crestansen è stato trovato ucciso in una camera dell’Hôtel d’Inghilterra. Gli hanno conficcato un lungo spillone nel cuore, dopo averlo cloroformizzato. Crestansen era venuto a Milano per trovare Jeremiah Shanahan e c’è ragione di credere che si sia incontrato con lui, ieri alla Fiera del Libro.

Il Pastore taceva. Aveva impallidito. A più riprese contrasse la bocca convulsamente.

– Anche lui! – mormorò.

L’impressione era stata forte. Dovette appoggiarsi allo schienale del divano. Poi sedette e si strinse le ginocchia con le mani. Aveva il volto immoto. Lo sguardo fisso. De Vincenzi comprese che nel cuore e nel cervello di quell’uomo si stava combattendo una battaglia. Forse, avrebbe parlato. Occorreva dimostrare di non volerlo spingere. Ma perché quella volontà di silenzio? Non era possibile pensare che fosse soltanto la solidarietà dello stesso credo che lo inducesse a negare la propria collaborazione all’opera della polizia. Quel servo del Signore era evidentemente un uomo onesto e in buona fede e non doveva ammettere omertà e patteggiamenti.

De Vincenzi fece qualche passo per la stanza.

– Conosceva Giorgio Crestansen? – chiese di colpo, voltandosi.

Il Pastore si alzò. Era tornato padrone di se stesso.

– Un dramma terribile! – scandì con voce interrotta. – Non voglio mentire con lei, per quanto sia convinto che quel che posso dirle io non le gioverà molto. Sì, conoscevo Giorgio Crestansen. Era stato da me, qui in questa stanza, ieri e mi aveva parlato. Era venuto a cercare Giobbe Tuama. Gli dissero che il vecchio non c’era e allora volle parlare col Pastore. Lo ricevetti.

Andò a sedere nella poltrona, davanti alla scrivania e il Cristo giganteggiò sulla sua testa.

– Era febbrile. Indovinai subito in lui l’uomo abituato alla lotta e che non tollera ostacoli davanti a sé. Gli dissi che avrebbe potuto certamente trovare Giobbe Tuama in Piazza Mercanti, alla Fiera del Libro. «Lo so», mi rispose. «È da ieri che faccio cercare Tuama e questa indicazione era già stata data al mio incaricato. Ma ho voluto controllarla. Mi preme troppo non lasciarmelo sfuggire». Poiché nelle sue parole c’era come una minaccia, gli chiesi se conoscesse bene Giorgio Tuama, se fosse suo amico. Mi guardò in modo strano, con un cattivo sogghigno. «Sono trent’anni che lo cerco» disse. Poi aggiunse con un sorriso beffardo: «Sarà molto contento di rivedermi! Che cosa fa adesso?».

Il Pastore s’interruppe. Alzò lo sguardo in volto al commissario, poi lo abbassò sulle carte. Ne mosse qualcuna con movimenti meccanici.

– Lei può aver creduto, commissario, che io abbia voluto mentirle poco fa, quando le ho detto che ogni fratello cristiano non deve rendere conto che alla propria coscienza. La verità è che io mi occupo assai poco di quello che fanno gli altri, anche coloro che mi sono vicini. Come Pastore d’anime avrei, forse, il dovere di saper qualcosa di più sul conto loro. Ma non lo faccio. Questa è la verità. Le cure della propaganda religiosa e del mio ministero, i miei studi mi assorbono... Così, io non sapevo e non so davvero nulla della vita di Giobbe Tuama. L’uomo da molti anni frequentava con assiduità le nostre riunioni. Da un anno, come appartenente al Consiglio della Chiesa, aveva naturalmente intensificato la sua presenza. Gli era stato affidato il lavoro di diffusione dei libri sacri e lui se ne occupava con amore assieme a Beniamino O’ Garrich. Sapevo che godeva d’una certa agiatezza, ma questo era tutto. Perciò alla domanda di quel Crestansen risposi semplicemente, come a lei: «Tuama è un ottimo cristiano, che si occupa di diffondere la parola del Signore». L’uomo alle mie parole accentuò il sogghigno sardonico. «Bene – disse. – Lo troverò alla Fiera». E se ne andò. Questo è tutto quello che posso dirle...

De Vincenzi lo guardò. In fondo, lo compiangeva. Era evidente che egli non diceva tutto. L’abbattimento, che lo aveva invaso alla notizia dell’assassinio di Crestansen ne era la prova. Non avrebbe esclamato: «anche lui!», se non avesse conosciuto qualche maggiore particolare sui legami che univano i due uomini. Ma era altrettanto evidente che aveva qualche ragione molto forte per non parlare, almeno subito, e che il silenzio a cui si sentiva costretto lo faceva soffrire. Insistere sarebbe stato inutile.

– Bene! – disse. – Contavo ottenere da lei un po’ di luce... Invece esco di qui, brancolando ancora fra le tenebre. Speriamo che riesca ugualmente a trovare il mio cammino.

Il Pastore si alzò.

– Non vuole vederla? – chiese, indicando la porta nera della Chiesa.

– Non ora, a ogni modo.

Ma si fermò.

– Che cosa le ha detto la signora Shanahan?

– Poco o nulla di concreto. Voglio dire che non ha citato alcun fatto, oltre quello che io ignoravo del suo legame coll’ucciso.

– Legame, che le consentirà di ereditare da lui.

– Crede che l’eredità sia cospicua? – e nella sua voce era una punta d’ironia.

– Piuttosto...

– Vuol scherzare?

– Non sarebbe il caso. Ignoro che cosa abbia lasciato Giobbe Tuama nella cassetta di sicurezza, che aveva alla banca; ma posso dirle che il vecchio dava denaro a usura e poteva disporre di grosse somme.

– Infatti... – mormorò il Pastore e diede una occhiata alla porta nera.

– A rivederla – fece De Vincenzi.

Il Pastore s’inchinò.

Sulla piazza, il commissario si volse a guardare la Chiesa. Lì dentro stava pregando Dorotea Winchers Shanahan. Ah! se quella donna si fosse indotta a parlare! Quanta fatica di meno e fors’anche quante incognite pericolose tolte di mezzo! E le reticenze del Pastore!... Perché anche costui doveva sentire il bisogno di chiudersi nel silenzio?

De Vincenzi si guardò attorno. Un oscuro istinto gli diceva che non doveva allontanarsi da quel luogo. Vide un piccolo caffè all’angolo della Piazza con via del Circo e vi si diresse. Sedette in un tavolo interno da cui per la vetrata della porta scorgeva benissimo la porticina della Chiesa. Il caffeuccio era deserto. Una giovane polputa e rubiconda gli chiese di dietro al banco che cosa desiderasse. Ordinò un liquore – lui che non beveva mai – per far salire il prezzo della consumazione. Non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto trattenersi lì dentro e credette opportuno rendersi amica la proprietaria.

Ma l’attesa non fu lunga, invece. Dopo una diecina di minuti, vide aprirsi la porticina e apparire sulla soglia l’alta e ossuta figura della vedova di Giobbe Tuama. La vecchia diede un’occhiata scrutatrice per la piazza, poi si diresse rapida, con quel suo passo rigido e pesante, verso via del Circo. Passò davanti al caffeuccio, scomparve piegando a sinistra. Camminava diritta, col cappello lucente di lustrini al sole; il volto risecchito così contratto in una determinazione testarda da sembrare un pugno chiuso; le mani sul petto, che stringevano l’eterna borsa nera.

De Vincenzi uscì in fretta e volse anche lui a sinistra per via San Sisto, giusto in tempo per vedere la donna che sbucava sul Carrobbio e scendeva per via Torino.

La filatura fu facile, perché non erano ancora le tre del pomeriggio e la domenica cominciava appena a riversare per le strade la folla consueta. Facile e rapida: la signora Winckers teneva un tal passo, che De Vincenzi calcolò a meno di dieci minuti il tempo impiegato a raggiungere il largo Cairoli. Passò davanti all’Olimpia, piegò per Piazza Castello, a destra, fiancheggiando la distesa semicircolare dei grandi palazzi marmorei.

La sua figura nera sembrava scorresse sul largo marciapiede lastricato, contro lo scenario della contrada lussuosa, col verde del Parco e la immensa mole del Castello rossastro.

Dove andava per quei luoghi, che non sembrava potessero avere alcun punto di contatto coi protagonisti della tragica vicenda, ai quali fino allora aveva servito di sfondo la miseria certosina delle stanzucce di via Bramante e l’austerità di un presbiterio?

Poteva credersi che la vecchia abitasse in uno di quei palazzi?

Eppure, fu proprio il portone di un fabbricato di Piazza Castello che ella varcò, scomparendovi.

De Vincenzi si fermò sorpreso e imbarazzato sul marciapiede. Che cosa avrebbe fatto, adesso? Naturalmente, poteva interrogare i portinai, ma era quello il mezzo migliore? O non più tosto conveniva attendere con pazienza che la donna tornasse a mostrarsi per riprendere a seguirla? Ella poteva ricomparire da un momento all’altro, e, se si fosse incontrata con lui dentro il portone, si sarebbe necessariamente messa in sospetto.

Decise di attendere e andò a mettersi dal lato opposto, tra le piante del Parco.

Attese più di mezz’ora. La signora Winckers Shanahan non compariva. Era il compito di un agente o di un giovane commissario agli esordi, quello che lui stava facendo. Una filatura delle più semplici e un piantonamento esasperante! E ancora senza che lui stesso ne sapesse la ragione. Perché aveva seguito la donna? Che cosa sperava che potesse rivelargli? Era la moglie legittima di Giobbe Tuama, sicuro; ma per questo quale luce le sue parole e i suoi atti potevano gettare sui delitti e sull’autore di essi? Le parole di lei, sia pure, se si fosse indotta a parlare, avrebbero potuto forse rivelare qualcosa del lontano passato di quell’uomo, che con tutta probabilità doveva proprio al suo passato la morte; ma i suoi atti? Perplesso, De Vincenzi rimaneva lì, davanti a quel palazzo bianco, nel portone del quale la vecchia era entrata e in cui era anche possibile ch’ella abitasse, sicché ad attenderla c’era da correre il rischio di non vederla ricomparire che all’indomani! E, invece, lui avrebbe potuto far qualcosa di molto più utile alla Fiera di Piazza Mercanti o nel suo ufficio o altrove, all’Hôtel d’Inghilterra, per esempio...

Rifletteva a tutto questo e nello stesso tempo sentiva che alcunché d’impreveduto e d’essenziale stava per accadere e che la sua fatica non era perduta.

Passavano i minuti. Lenti e uggiosi. Le panchine di quella striscia esterna del Parco, al di là del fossato, si andavano popolando di famigliuole rumorose, di soldati, di giovanette dai varii dialetti, che mostravano mani rosse e piedi troppo grandi.

Alle sedici, il commissario ebbe la convinzione che Dorotea Winckers Shanahan si fosse rifugiata in casa sua e che sarebbe uscita quando sarebbe uscita, a tutto suo comodo.

Traversò lentamente il viale ed entrò nel portone, che un’ora prima era stato varcato dalla vecchia. Una giovane donna con un bimbo in braccio e una giovanetta erano sedute davanti alla vetriata della portineria.

– Abita qui la signora Winckers Shanahan?

La giovane lo guardò, meravigliata.

– No – rispose. – Lei deve aver sbagliato numero. Nessuno degli inquilini di questa casa ha un nome come quello lì...

– Circa un’ora fa, è entrata in questo portone una signora vestita di nero, con un cappello carico di lustrini... piuttosto anziana... diritta, rigida...

Negli occhi della portinaia lampeggiò la diffidenza.

– Uhm!... Ma lei...

La giovinetta toccò vivamente il braccio della donna ed esclamò:

– È la governante della signorina Lolly, zia!

– Zitta, Agnese! – le impose la portinaia e si volse di nuovo verso il commissario. – Come dice mia nipote, forse si tratta della governante di una inquilina del palazzo; ma lei come fa a sapere che è rientrata un’ora fa?

De Vincenzi sorrise.

– Assai probabilmente, perché l’ho veduta entrare. E l’ho veduta entrare, perché l’ho seguita. Non mi chieda la ragione per la quale l’ho seguita, dacché non potrei dirgliela.

Tese la mano aperta e sulla palma mostrò il distintivo.

– Polizia... – aggiunse, accentuando il sorriso e ancor più soavemente continuò: – Nulla di grave e nulla di preoccupante per lei e per la sua inquilina. Ma occorre che mi dia qualche informazione. Questa signorina Lolly chi è?

Le due giovani erano state a sentire il suo breve imbonimento ad occhi spalancati.

– Ho capito! – fece la portinaia e tacque.

– Dunque?

– Ah!... La signorina Lolly è un’americana... Il cognome è Daun... Aspetti... – e si volse alla nipote: – Va’ a prendere il registro degli inquilini...

La giovinetta sprizzò in portineria e tornò col registro.

– Ecco, guardi qua...

La donna porse il quaderno aperto al commissario, che lesse: Lolly Down, 28 anni, New York.

– Sola?

– Con la governante... quella vecchia sempre vestita di nero, che lei ha veduta entrare... la cameriera e il cane...

– Che cosa fa?

– Nulla. Dev’essere ricca.

– Riceve molte persone?

– Quasi nessuno.

– Intendiamoci. Neppure una persona... di frequente, con regolarità, in modo che si possa credere...

– ... che sia il suo amante? No. La signorina non è quello che lei può supporre.

– Da quanto tempo abita in questa casa?

– Un anno o poco più.

– È in casa adesso?

– Sì. È rientrata a mezzogiorno e non l’ho più vista uscire.

– Dov’è il suo appartamento?

– Scala a destra, secondo piano... Non c’è nome sulla porta.

– Grazie.

De Vincenzi s’avviò. Quando fu per le scale, cominciò a chiedersi quale ragione mai avrebbe trovata, per giustificare la sua visita alla signorina Lolly Down, ventottenne, da New York e padrona di un cane, di una cameriera e di Dorotea Winckers Shanahan.

Intanto, lui stesso non sapeva perché avesse di colpo deciso di salire a far la conoscenza di quella americana, che non avrebbe certo potuto apprendergli alcunché riguardo ai delitti, per il solo fatto di avere quale governante la moglie di uno degli assassinati.

Ancora uno dei suoi movimenti istintivi, dettatogli dal suo subconscio. Non era una ragione che lo spingeva; era una sensazione indistinta, vagamente coercitiva per lui, che alle proprie sensazioni non voleva mai o quasi mai sottrarsi.

Si trovò davanti alla porta senza nome, che era la prima sul pianerottolo. Le altre due avevano targhe d’ottone lucente.

Non aveva trovato alcuna scusa decente; ma premette senza esitare il bottone del campanello. L’essenziale era che non si presentasse ad aprirgli la lugubre vedova dal frasario biblicamente apocalittico.

Ma fu la cameriera, invece, che comparve nel riquadro della porta. Una biondina sottile e svettante, nell’abito di satin nero, col colletto e i polsi bianchi e il musettino incipriato.

– Desidera?

– Parlare con la signorina Down, se è possibile...

La biondina contrasse le labbra.

– La signorina attende la sua visita?

– Non credo.

– Vuoi dirmi di che si tratta, allora? Il suo nome?

Ma intanto si traeva da parte, per farlo entrare.

De Vincenzi si trovò nell’anticamera, e poi in un salottino. L’ammobiliamento era quanto di più modernamente americano si potesse immaginare. Vide subito in un angolo un mobile di legno lucido, sul quale sfavillavano caraffe e bottiglie d’ogni forma e colore e uno shaker d’argento: il bar.

La cameriera attendeva.

De Vincenzi sedette. La giovane si passò le palme sulle anche, con un movimento civettuolo. Svettava sempre più col corpicino agevole, ma non sorrideva. Quel visitatore dal fare punto impacciato cominciava a preoccuparla.

– Dica alla signorina che un commissario di Polizia desidera chiederle qualche informazione di carattere privato – questa era la frase che il cervello di De Vincenzi aveva formulata, ma che le sue labbra non pronunziarono.

– Carlo De Vincenzi... – disse, invece. – ... dottor Carlo De Vincenzi.

La camerierina non disarmò.

– Di che cosa si tratta? Se miss Down non la conosce, vorrà certamente sapere...

– Ebbene, lo saprà senza dubbio, se mi concede l’onore di accordarmi il colloquio, che le chiedo. Potete dirle che si tratta di cosa urgente e... grave.

– Ah!

La biondina girò su se stessa, per dirigersi alla porta. Ma si sentì il tintinnio di un campanellino, che scorreva sul tappeto dell’ingresso. Apparve un piccolo mops dal musetto schiacciato e dagli occhi largamente cerchiati di nero.

E subito una voce stranamente aspra, una voce esotica lo raggiunse:

Darling... Darling...

E Lolly Down fece la sua comparsa dietro il cane, ch’ella teneramente appellava: – Caro...

Vide il visitatore e levò le mani in alto, in segno d’esultanza.

De Vincenzi era balzato in piedi.

– Finalmente!... – gridò miss Lolly, in un italiano duramente pestato dai suoi dentini d’avorio. – Vi siete fatto attendere! Mistress Winckers non sperava più che veniste per oggi... Abramo Lincoln ha urgente bisogno delle vostre cure...

E chiamò ancora:

Darling... Darling...

Si chinò sul cane che le era corso fra i piedi, lo sollevò, lo baciò, gli sussurrò all’orecchio con voce carezzevole:

– Darling, I love you... – e poi alzò il volto verso il visitatore: – Questo è Abramo Lincoln, che ha assoluto bisogno delle vostre cure.

E rise largamente. De Vincenzi vide che il secondo molare in basso era di platino.