Capitolo IX

Chi di spada fere...

– Io torno al Presbiterio, commissario... Posso chiederle di accompagnarmivici?

De Vincenzi lo guardò. Erano già quasi al termine di via Torino e avevano camminato fin lì, senza scambiarsi neppure una parola.

Il Pastore andava tra la folla guardando diritto dinanzi a sé, con una tale sicurezza, che la gente quasi senza volerlo gli faceva largo.

– È impossibile parlare in mezzo a questa folla... – aggiunse.

Non era possibile, infatti. Ma lui s’era diretto subito da Piazza Mercanti in via Torino e aveva aspettato a parlare di aver quasi raggiunto via San Sisto. Era al Presbiterio che voleva condurre il commissario. Che cosa aveva da dirgli? Appariva chiaro che egli lo aveva cercato di proposito.

Che il commissario potesse trovarsi a quell’ora alla Fiera e proprio al banco delle Bibbie evangeliche non era difficile da indovinare; ma comunque l’essersi diretto subito lì rivelava uno spirito ragionatore e un’accorta cautela di movimenti. Non lo era andato a visitare in Questura; non gli aveva telefonato per chiedergli un convegno. Tutto questo avrebbe rivelato una certa ansia, sarebbe stato un gesto comunque impegnativo.

Quando furono davanti alla porticina rettangolare, il Pastore trasse una chiave ed aprì.

– Vado avanti per farle strada.

Girò il commutatore al principio del corridoio, che fu rischiarato dalla luce verde di una lampada di ferro.

Nella stanza vasta, si accesero due lampadine pendenti dal soffitto. Il Cristo bianco d’avorio si animò, enorme e vivo, sulla parete calcinosa.

De Vincenzi sentì il freddo umidore di quella sala troppo grande e troppo nuda, con le finestrine ad inferriata e i pochi mobili rigidi e neri.

Il giovane andò a porsi dietro alla scrivania e rimase diritto davanti alla poltrona, sotto il Cristo. Indicò un’altra poltrona al commissario, di fronte a sé. Quando lo vide seduto, sedette anche lui.

– Forse, ella ha riflettuto alle parole che io le ho dette qualche ora fa... Il sangue di colui che spanderà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo.

– Sì, ho meditato su quelle parole, infatti, e sono giunto alla conclusione che lei di Giobbe Tuama e di Giorgio Crestansen deve conoscere assai più di quanto non mi ha detto...

– Non tutto quel che si conosce è nostro; non tutto quel che si vede è la verità...

De Vincenzi volle tentare di rompere l’impaccio, che sempre più l’avvolgeva. Anche reagire contro quell’atmosfera di incubo.

– Mi permetta! – interruppe, alzando di scatto il tono della voce. – Vediamo di fissare alcuni punti importanti. Intanto questo: io sto conducendo le indagini per scoprire l’assassino o gli assassini di due uomini...

La mano affusolata, nervosa del Pastore si sollevò dal tavolo, per invitarlo ad ascoltare con pazienza.

– Lo so! Se l’ho pregata di venire qui, è appunto per questo...

– Ella vuol dirmi quel che non mi ha detto poco fa?

– Non creda che abbia da rivelarle qualche fatto decisivo!... Ma soltanto fornirle un filo conduttore... per la sua inchiesta...

Fece una pausa.

Il silenzio era solenne in quella grande sala, scarsamente illuminata dalle due lampadine. Ombre immobili occupavano gli angoli.

Ad un tratto si sentì uno scricchiolio forte e secco, proveniente dalla Chiesa, al di là della porta nera. De Vincenzi sussultò e si volse.

– Non è nulla!... Le panche nuove, che abbiamo fatto mettere da poco in Chiesa sono d’abete... Il legno non deve essere stagionato... Molto spesso nella notte, quando lavoro a questo tavolo, sento rumori simili... anche più forti, come colpi secchi di rivoltella...

– Non è allegro! – mormorò De Vincenzi.

Il Pastore alzò leggermente le spalle.

– Lei mi stava parlando di un filo conduttore.

– Ho detto questo?... Evidentemente, ho esagerato...

I rumori nella Chiesa continuavano. Il commissario avrebbe giurato che lì dentro c’era qualcuno a muoversi. Anche gli parve di sentire il leggerissimo stropiccìo di un passo sul pavimento.

– La Chiesa è vuota?

– Senza dubbio!

– Non può darsi che vi si trovi qualcuno... a pregare?

– Nessuno vi entra, senza che io lo sappia.

– Ma nella sua assenza? Lei era fuori, adesso...

– La mia governante e il custode della Chiesa non lasciano entrare alcuno... Neppure i membri del Consiglio...

Del resto, i rumori erano cessati.

Il Pastore riprese a parlare con quella sua voce mordente, dura; ma al commissario parve che forzasse un poco il tono e che precipitasse le parole.

– Non si può parlare di filo conduttore... e neanche di un vero e proprio indizio... Ma poiché quanto sto per dirle può forse aver connessione coi delitti... o per lo meno con le persone dei due uccisi... sento il dovere di riferirle una vecchia storia... Una vecchissima storia...

S’interruppe. Adesso, fu lui che guardò l’uscio nero della Chiesa.

De Vincenzi colse l’opportunità che gli offriva quell’interruzione e lo sguardo e si alzò.

– Ci dev’essere qualcuno in Chiesa – affermò con decisione.

L’altro sorrise.

– Le ho detto di no!

– Non pertanto ci costerà poco assicurarcene... – e fece qualche passo verso la porta.

Il Pastore balzò in piedi.

– Andremo a vedere, se le fa piacere...

Ma perché aveva alzato la voce, come se gridasse?

Il commissario fu il primo a trovarsi davanti alla porta; ma il Pastore lo raggiunse e mise la mano sul saliscendi.

Aprì. La vasta sala della Chiesa era buia. Qualche riflesso, prodotto dall’aprirsi dell’uscio, apparve sulla fila delle panche e in fondo sull’alto pulpito e sulle colonne.

– Vede che non c’è alcuno!

Ed avanzò, dirigendosi nel buio verso la parete di fondo, che si stendeva subito a sinistra della porta.

Accese le lampade. Erano otto lampade d’ottone pendenti dal soffitto e disposte a semicerchio sulle panche.

Il pulpito alto, elevato contro la parete di testa, fra due colonne, aveva una lampada da tavola, che non s’accese. La luce delle otto lampade era chiara ma blanda e batteva verso il soffitto a volta.

Le pareti bianche e nude eran corse tutt’attorno al cornicione da lunghe scritte in caratteri gotici. Versetti biblici. Dietro il pulpito, era una grande croce col Cristo trafitto e coronato di spine e un altro Cristo si rizzava snello e sottile, di legno nero, da un angolo del pulpito, sul piano del quale posava un’enorme Bibbia. Il Libro dei Libri!

– Non c’è nessuno! – ripeté e si avvicinò a De Vincenzi, che aveva avanzato anche lui e che si dirigeva verso il pulpito.

– Torniamo!...

Ma questa volta il commissario aveva veduto un’ombra muoversi sulla parete di destra, di fronte a sé. Era stato un attimo. Una lunga ombra, uscendo dal rettangolo del pulpito, s’era proiettata sul muro. Ed era sparita.

De Vincenzi si lanciò. Aveva cacciato la mano in tasca e aveva estratto la rivoltella.

– No! – gridò il Pastore con voce imperiosa. – Non in Chiesa!

E seguì la corsa del commissario attorno al pulpito.

Non c’era nessuno. De Vincenzi guardò dovunque. Nell’interno dell’alta cattedra, negli angoli, dietro le colonne. Nessuno! Eppure non poteva ammettere che fosse stata un’allucinazione.

Il Pastore s’era immobilizzato e lo guardava con severità. Gli occhi, che sembravano di vetro, gli brillavano come due carboni accesi.

– È convinto adesso che qui non c’è alcuno?

Lui non ne era affatto convinto o altrimenti avrebbe dovuto ammettere che i suoi sensi gli giuocavano dei gran brutti scherzi... Ma, ad ogni modo, come accanirsi contro quell’apparenza?

Rimise in tasca la rivoltella e ritornò lentamente sui suoi passi. Tentò sorridere, ma ebbe la sensazione sgradevole di non esser riuscito che a fare una smorfia pietosa.

– In questo luogo si prega il Signore!

– Già – mormorò il commissario. – Mi perdoni...

Ma doveva esservi qualche porticina nascosta, un passaggio segreto, una botola a molla... Roba da romanzo!... Perché non ammettere che si era ingannato? In fondo la luce era proprio quella che ci voleva per favorire le allucinazioni e la sala immensa, con le colonne, il pulpito gigantesco, le pareti bianche come schermi aveva generato l’inganno.

Non poteva esser stata l’ombra del suo stesso corpo a proiettarsi sulla parete?

Tornarono nella prima sala e il Pastore richiuse la porta dietro di sé, dopo aver spento le luci nella Chiesa.

Si trovarono di nuovo seduti uno di fronte all’altro.

– Vuol riprendere la sua storia, signor Pastore?...

L’uomo si passò una mano sulla fronte, che aveva alta e spaziosa e velò così per qualche istante il fuoco delle pupille.

A De Vincenzi l’intensità di quello sguardo, stranamente penetrante, dava una sensazione di vero malessere.

Approfittò dell’istante di tregua, per tentar di coordinare i propri pensieri.

S’era fatto vincere dai nervi, questa era la verità. Aveva voluto forzare quella soglia, guardare al di là della porta nera, sbarrata, e aveva messo in sospetto la diffidenza dello strano individuo che gli stava di fronte e che certamente in quel momento aveva tutti i vantaggi.

Se lo aveva condotto di sua propria volontà al Presbiterio, se spontaneamente aveva provocato quel colloquio, non poteva non avere un piano da svolgere oppure era sincero e sapeva di non aver bisogno di nasconder nulla. In entrambi i casi, lui aveva agito precipitosamente e senza alcuna abilità.

Notò che adesso dalla Chiesa non proveniva più alcun rumore. Il legno delle panche non stagionate aveva trovato la propria sistemazione!

– Le ho detto che quanto sto per riferirle può non avere alcuna connessione col presente...

– Sì me lo ha detto!

– E non sempre si può e si deve giudicare gli uomini dal loro passato... La redenzione delle anime si opera anche nel corso di questa nostra vita mortale...

De Vincenzi acconsentì col capo. Perché tutte quelle premesse oratorie? In lui era soltanto l’abitudine alla predica, la preoccupazione di catechizzare?

E fissò il Cristo gigantesco, dietro all’uomo immobile adesso, con quel suo volto duro, patinato di un pallore caldo, che sembrava di metallo chiaro, pieno di riflessi agli zigomi.

– Prenda la storia per quel che vale e sappia anche dimenticarla, se del caso... Quando le ho detto che sapevo poco o nulla di Giobbe Tuama...

– ... di Jeremiah Shanahan...

Gli lanciò un’occhiata quasi irosa.

– Come vuole!... Mi riferivo ai fatti che lo concernevano e che si erano svolti attorno a me... Il passato!... Non doveva riguardarmi, se Giobbe Tuama si era accostato al Signore...

– Già... La grazia mediante la fede!...

Ma perché sentiva quell’irresistibile bisogno di pungerlo, di provocarne le reazioni, perché si teneva contro di lui, pronto sempre a discutere?

L’altro mostrò di non rilevare l’interruzione.

– Le ho detto che fu nel 1919 che l’irlandese venne a Milano o per lo meno fu in quell’anno che io lo conobbi e che lui entrò nell’orbita dei nostri fedeli. Non sapevo nulla di lui in quell’epoca, se non che era nato e vissuto fino allora in America... I suoi genitori, emigrati dall’Irlanda nel Michigan dovevano essere morti e per lo meno fu questo che egli mi disse... Faceva vita appartata e non mi risultò che avesse una professione o un mestiere definiti... Ma ben presto mi accorsi che si era legato d’amicizia con un altro americano di origine irlandese...

– Beniamino O’ Garrich...

– Già...

– E costui da quanto tempo si trovava a Milano?

– Non so con precisione... Quando io, dopo aver fatto la guerra nelle Fiandre, venni a stabilirmi a Milano...

– E perché venne a stabilirsi a Milano, lei?

L’uomo sollevò un poco le sopracciglia, lucenti e regolari come due pennellate di turchino di Prussia.

– Crede che sia suo diritto interrogarmi anche su quel che riguarda me solo?

Infatti! Adesso lo vedeva: erano proprio turchini i riflessi, che patinavano stranamente il volto del Pastore, ai colori del quale era servita la tavolozza di Zuloaga...

De Vincenzi fece un gesto vago. Poteva esser di scusa. Era certamente d’indifferenza. Come avrebbe potuto insistere?

– Venni a Milano... presi a reggere questa Chiesa... E Beniamino O’ Garrich vi apparteneva già... Lo riconobbi animato da sincero fervore religioso... si dimostrava pronto e servizievole... Mi valsi di lui. Noi abbiamo bisogno di fedeli, che si adoperino a diffondere il verbo... Ma anche soprattutto di uomini adatti alle mansioni delicate e pur pesanti... Diedi a O’ Garrich l’incarico della diffusione del controllo della buona stampa... Giobbe Tuama si aggiunse a lui e io me ne dichiarai soddisfatto... Fu così che il nuovo arrivato, pressoché sconosciuto a tutti fino allora, venne notato e avvicinò la massa dei cristiani evangelici di questa nostra Chiesa milanese... Dopo qualche mese ch’egli si recava nelle case e negli uffici a propagandare i buoni libri e a diffondere il nostro giornale, mi pervenne una lettera... Debbo dichiararle subito che essa era anonima...

Aspettò un’interruzione da parte del commissario, ma essa non venne.

De Vincenzi lo ascoltava e nel medesimo tempo era tutto teso verso la porta nera, dietro alla quale lui era sicuro si nascondesse un mistero. La pausa di silenzio che fece il Pastore lo richiamò interamente a sé ed egli si scosse.

– Era anonima – riprese la voce del narratore, con maggior forza – e io non avrei dovuto prenderla in considerazione... Ma, prima di accorgermi della mancanza della firma, l’avevo letta... e non potei più interdirmi di meditare sul contenuto di essa... Riguardava Giobbe Tuama, appunto...

De Vincenzi continuò a fissarlo, tacendo. Il Pastore mostrò un leggerissimo senso d’impaccio. Quel silenzio inatteso lo infastidiva.

– Ebbene, mi si avvertiva che il nuovo nostro impiegato era un ex-coatto, il quale proveniva dalla prigione di Sing-Sing...

Fino allora s’era parlato del Transvaal. O per lo meno ne aveva parlato pel primo Beniamino O’ Garrich. Poi era venuta la scoperta del corpo di Crestansen... Crestansen risiedeva a Detroit, nel Michigan... De Vincenzi ebbe quasi un sussulto. Poco prima, quando il Pastore gli aveva parlato dei genitori irlandesi di Giobbe Tuama aveva detto che essi erano emigrati nel Michigan... Miss Down era di Louisville, nel Kentucky... E adesso questo qui gli tirava fuori Sing-Sing... per un delitto o per un reato evidentemente commesso in America...

Ma continuò a tacere.

– Pesai con serena obbiettività l’importanza che quel fatto poteva avere per Giobbe Tuama nei confronti degli altri appartenenti alla Chiesa... Intanto, la lettera non diceva di quale delitto o reato si fosse macchiata la coscienza del nostro fratello... Occorreva che questo punto mi fosse chiarito... Chiamare lo stesso Tuama a rivelarmelo sarebbe stato certo il modo più retto... Ma confesso che cedei ai pregiudizi e alle restrizioni mentali, che sempre ottenebrano il cervello degli uomini... Non lo feci. Mi rivolsi, invece, a Beniamino O’ Garrich, il quale mostrava di conoscere il suo compagno da lungo tempo... O’ Garrich si dimostrò schietto con me e io non ebbi ragione alcuna, come non ne ho oggi, per dubitare che egli dicesse la verità... Aveva conosciuto Giobbe Tuama al Transvaal, dove erano stati impiegati nella medesima ditta... ma mi asserì che fin dal 1903 l’irlandese aveva lasciato la Colonia del Capo, per far ritorno in America... In appresso lui non ne aveva saputo più nulla, fino al giorno in cui lo aveva incontrato di nuovo a Milano... Nel 1919, vale a dire. Gli parlai, allora, della lettera anonima e del contenuto di essa... Non ne fu meravigliato oltre misura... Osservò soltanto: «il mondo è pieno di pericoli ed è facile anche per uno spirito retto cadere nelle imboscate, che ci tende il demonio!»...

Tacque e si mise a battere dolcemente con le dita sul tavolo.

De Vincenzi comprese che non sarebbe andato avanti, se non fosse stato stimolato.

Quella storia – a parte la rivelazione di Sing-Sing – non voleva dir gran cosa e non gli recava alcun lume.

A quale scopo aveva voluto narrargliela?

L’umidore ghiaccio della stanza si faceva sempre più intenso e penetrante. De Vincenzi, senza soprabito, si sentiva prendere dai brividi.

– Questo è tutto? – chiese con accento quasi ironico. – Aveva ragione lei! L’esser stato Giobbe Tuama un coatto non spiega il suo assassinio, né quello di Giorgio Crestansen...

E si alzò. Voleva uscire al più presto di lì dentro. Aveva la sensazione di perdere il suo tempo.

Perché mai il Pastore aveva voluto condurlo con sé e perché lo tratteneva tanto a lungo, mentre avrebbe potuto dargli quella notizia in quattro parole?

Per impedirgli di rimanere al banco delle Bibbie e di far parlare Beniamino O’ Garrich? Ma non poteva credere che lui non sarebbe tornato a interrogarlo!

– La ringrazio, signor Pastore!...

Un leggero bagliore ironico lampeggiò negli occhi dell’uomo.

– Non vuole ascoltare il seguito?

– Ah! C’è un seguito?

– Fu lo stesso Giobbe Tuama che mi disse perché era stato condannato a tre anni di prigione...

– Per furto?

– O’ Garrich gli aveva subito parlato della lettera anonima e l’irlandese mi chiese spontaneamente un colloquio... Mi doveva delle spiegazioni. Non avrebbe voluto rimanere sotto il peso del mio sospetto. Egli a Detroit...

– Dove? – gridò quasi De Vincenzi.

– A Detroit, nel Michigan...

– Giorgio Crestansen risiedeva a Detroit!...

– Me lo ha detto... Ella non ignora che Crestansen era venuto a trovarmi... qui... ieri mattina...

– Ebbene? Vada avanti! A Detroit...?

– Giobbe Tuama a Detroit era stato arrestato per ricettazione. Ma lui era in buona fede... Aveva acquistato un piccolo lotto di diamanti, senza supporre che essi fossero di provenienza furtiva...

– Questo è tutto?

– Si può supporre...

– Che cosa?...

Cominciava ad avere i nervi stanchi. E la sua sensibilità gli diceva che il Pastore aveva uno scopo e tentava di fuorviarlo.

– Si può supporre che Crestansen non fosse estraneo a questa storia... Tuama non mi fece il nome di lui, tuttavia... Tenne a dirmi, invece, che fu liberato prima che la pena fosse terminata... Perché era stata riconosciuta la sua innocenza...

– Non le disse altro?

Il Pastore ebbe un leggerissimo sorriso. Accennò col capo lentamente, per dire di sì, che gli aveva detto qualch’altra cosa. Fece una pausa. Preparava il suo effetto.

– Aggiunse che un altro aveva preso il suo posto a Sing-Sing... Il vero colpevole...

– Ah!

De Vincenzi si alzò. Dunque, tutta la faccenda poteva riassumersi così: Giobbe Tuama, ovvero Jeremiah Shanahan, s’era trovato coinvolto, assieme a Giorgio Crestansen, in una losca storia di diamanti rubati e scoperti dalla Polizia in casa sua. Ma egli era innocente e il colpevole era stato finalmente arrestato e imprigionato, mentre a lui veniva ridata la libertà.

La conclusione che quella storia, così narrata, voleva insinuare era questa: il vero colpevole, credendo d’esser stato scoperto a causa e forse su denuncia di Tuama e di Crestansen, una volta uscito di prigione, aveva raggiunto i due e li aveva uccisi per vendicarsi.

Era questo che gli voleva far credere il Pastore?

Certo, la storia, se pur vera, doveva esser molto più complicata e c’erano i precedenti di Pretoria... E c’era Dorotea Winckers Shanahan con tutto il suo implacabile odio... E Lolly Down, che della vecchia era, forse, figlia...

De Vincenzi si mosse per la camera. Il Pastore si alzò e rimase ritto, immobile, sotto il Cristo. Sembrava attendere che il commissario si congedasse. Il colloquio per lui era terminato.

– Le ho detto tutto quanto so, commissario...

– E lei crede...?

– Io non credo nulla! Può darsi benissimo che tutto questo non abbia alcun nesso coi fatti tragici di oggi...

– Un senso, ad ogni modo, lo ha!

– Che cosa vuol dire?

– Che adesso anche l’ombra di Sing-Sing si profila sul dramma...

Il Pastore alzò le spalle.

– Io non faccio lavorar mai la fantasia...

– Non ha forse detto proprio lei che il sangue dell’uomo ricadrà sull’uomo? Perché lo ha detto?

– Oh! Due omicidi di questa sorta non vengono commessi se non per vendetta!

– Chi di spada ferisce... vero!

De Vincenzi era sarcastico.

L’altro gli rispose con voce solenne:

– Perisce sempre di spada. È fatale!

Il commissario trasalì e lo fissò attentamente. Sul volto di lui, così pieno di ombre, si scorgeva una determinazione freddamente crudele. Gli occhi gli lucevano. Ma egli abbassò le palpebre e li spense. Si mise a toccar qualche foglio sul tavolo.

Di colpo un rumore vicino, netto e preciso, venne dalla porta nera della Chiesa. Qualcuno sembrava grattasse contro il legno.

I due uomini sussultarono.

Questa volta il Pastore fu rapidissimo a lanciarsi. La sua prima impressione aveva rivelato la sorpresa e quasi la paura. Quel rumore per lui era certamente inaspettato e incomprensibile.

Ma quando ebbe raggiunto l’uscio, De Vincenzi lo vide fermarsi. Si era voltato e sorrideva.

– Anche i miei nervi devono essere un po’ scossi! Avevo dimenticato che in casa c’è un piccolo cane...

Aggrottò le ciglia e contrasse le mascelle.

– Tuttavia, non dovevano farlo penetrare nella Chiesa!

Aprì la porta e pronunciò con voce irosa:

– Avanti!... Chi ti ha cacciato lì dentro? Via!

Il piccolo mops fu sbalzato da un calcio attraverso tutta la camera e il Pastore lo inseguì fino all’altro uscio, cacciandolo nel corridoio. Il cane, dopo il primo grido acuto, si allontanava adesso guaendo lamentosamente.

– Virginia!... Matteo!... Prendete il cane!... Come avete fatto a farlo entrare in Chiesa?... Faremo i conti dopo!...

Chiuse la porta e tornò verso De Vincenzi. Era ancora fremente.

– Non ci si può mai fidare di nessuno!

– Quel cane è suo?

– Sì. È il dono che ha voluto farmi un nostro amico... Io amo molto i cani...

Non lo si sarebbe detto a giudicare dal calcio che aveva dato alla bestiola!... E quel cane, De Vincenzi lo aveva perfettamente riconosciuto: era Abramo Lincoln.