Capitolo X
Il terzo non riesce
I minuti che seguirono all’apparizione dell’innocente Abramo Lincoln furono per De Vincenzi decisivi. Egli sentì di trovarsi dinanzi al nodo del problema. Gli elementi di esso balzavano fuori all’improvviso e convergevano apparentemente tutti in una sola direzione. Ma occorreva non lasciarsi prendere dall’inganno delle apparenze.
I guaiti lamentosi del mops erano cessati. Il cane doveva esser stato accolto dalla vecchia Virginia o dal non ancora conosciuto Matteo e trasportato al primo piano della casa.
Chi altro si trovava lassù?
Certo, Abramo Lincoln, non era venuto solo da Foro Bonaparte a Piazza Mentana! E non era men certo che non poteva esser sua l’ombra che il commissario aveva veduta proiettarsi per un attimo contro la parete della Chiesa.
De Vincenzi si ritrovò sulla piazza, di fronte alla facciata buia. Era, oramai, sera. Il caffeuccio in cui era entrato al pomeriggio a far la posta a Dorotea Winckers Shanahan aveva acceso le sue lampade. Era quella l’unica macchia luminosa aperta sulla nera fascia circolare della piazza, al centro della quale l’oscurità si faceva fonda sotto i pochi alberi dello spiazzo.
Si allontanò in fretta. Attendere in agguato gli sembrò questa volta assolutamente inutile. A che scopo? Avrebbe veduto, forse, uscire dalla casa del Pastore la vecchia Shanahan con la sua borsa nera e il ridicolo cappellino di lustrini o miss Lolly dai colori radiosi. Che una delle due donne o entrambe si trovassero lì dentro era per lui oramai una certezza e averne conferma non lo avrebbe aiutato a penetrare il mistero. Quali erano i rapporti che correvano tra la vedova del fu Giobbe Tuama e il Pastore? Tra costui e miss Lolly Down? Non lo avrebbe evidentemente appreso, quando le avesse vedute uscire e avesse potuto seguirle.
In via Torino, salì in un tassi e diede l’indirizzo di Foro Bonaparte.
Trovò la portinaia e la nipote intente a preparare la cena nella cucina attigua alla stanza della portineria, che era un civettuolo tinello dai mobili moderni. La tavola aveva la tovaglia candida e quattro coperti.
La ragazza si affacciò per la prima e si volse a chiamar la zia, con una certa ansietà.
– C’è il commissario.
– Avete veduto uscire miss Lolly Down o la governante?
Le avevano vedute uscire tutte e due.
– Assieme?
– Sì, assieme.
– Col cane?
– Sempre, a quest’ora, escono col cane.
La donna aveva qualche lampo di maliziosa ironia negli occhi.
– Ma mi dica, commissario... Che cosa vuole da quelle signore?
De Vincenzi chiuse la porta a vetri dietro di sé. Avanzò verso la tavola apparecchiata.
Sedette. La portinaia lo guardava fare, con preoccupazione. Rimase in piedi dal lato opposto della tavola.
– Lei mi ha detto che miss Down non riceve mai visite di uomini.
– Ebbene?
– Crede di potermelo confermare?
La portinaia lo fissò.
– Che vuol dire, che qualche uomo è venuto a trovarla? Naturalmente! Sarà anche venuto... Lei mi ha chiesto se la signorina aveva un amante... io le ho risposto di no. È la verità! Nessuno può averle detto che...
– Nessuno mi ha detto nulla! Ma io desidero sapere se lei ha veduto qualche volta salire dalla signorina Down un uomo ancor giovane, bruno, coi lineamenti marcati, gli occhi scintillanti...
La nipote fece un gesto, che un’occhiata della zia fermò a metà.
– Mi ascolti bene... – riprese De Vincenzi dopo una pausa e cominciò a descriverle di nuovo il Pastore.
La donna taceva, col volto concentrato, le ciglia aggrottate. Era evidente che cercava di rendersi conto di come quel nuovo personaggio avesse a che fare con lei e con gli inquilini della casa, più ancora che non si sforzasse di richiamare i suoi ricordi. De Vincenzi si disse che un tale atteggiamento d’incosciente complicità con l’americana poteva non significar nulla. Per istinto la portinaia proteggeva le persone che le erano vicine. Tra un funzionario di Questura – che rappresentava sempre per lei un pericolo oscuro, un creatore pernicioso di noie e fastidi – e le due donne, la prima scelta non poteva esser dubbia.
– Chi è quest’uomo? Che cosa vuole che ne sappia, io?
– Badi! la cosa è grave. Ci sono due morti.
La donna impallidì e diede uno sguardo sgomento alla nipote.
– Perché non dici, zia, che il Pastore veniva ogni sabato e ogni domenica...
– Lo conoscete, dunque! Sapete che è un Pastore evangelico...
– Ma sì!.. Soltanto, non c’era nulla di strano che venisse... Non avevo alcuna ragione per credere che la cosa avesse importanza e per dirgliela...
– Ebbene, mi dica adesso tutto quel che sa...
– Ma non so nulla! Il Pastore veniva il sabato sera a cena, credo, e la domenica a colazione... Penso io che miss Down lo trattenesse a colazione e a cena, perché lo vedevamo arrivare alle sette del pomeriggio, il sabato, e alle dodici e mezzo, la domenica, e non scendeva che dopo un paio d’ore...
– Oggi è domenica... È venuto iersera?...
Le due donne si guardarono.
– Ma no, zia! Non è venuto né iersera, né stamane...
– Infatti! – fece la portinaia e involontariamente la sua voce ebbe un impreveduto accento grave. – Non è venuto né ieri, né oggi...
La sera prima erano stati commessi i due assassinii e la domenica la signora Winckers Shanahan si era recata in casa di Giobbe Tuama... Vero è che De Vincenzi l’aveva trovata sul pianerottolo ad attenderne il ritorno...
– Lei è sicura che non può dirmi null’altro?
La donna alzò le spalle.
– E poi, lei non mi ha detto neppure di che si tratta! Che cosa è accaduto, insomma?
Il commissario si levò.
– Bene. Tornerò. Non parlate a nessuno... a nessuno, capite?... di queste mie indagini. Ve ne potreste pentire.
In istrada, De Vincenzi cercò di non pensare a quanto aveva visto e sentito nelle ultime ore. Era stanco. Aveva bisogno di far riposare il cervello. Non era possibile trarre ancora alcuna conclusione. Soprattutto sarebbe stato troppo avventato e pericoloso trarne.
Oramai, era sera inoltrata.
Quando passò davanti all’Olimpia, il largo marciapiede del teatro era pieno di gente che entrava. I tranvai della periferia rovesciavano sul Largo Cairoli il loro carico di famigliole e di coppie, che scendevano al centro a godersi la serata domenicale nei caffè e nei cinema. Anche la Fiera del Libro doveva essere affollata.
Quando fu al termine di via Dante, De Vincenzi fece forza su se stesso e piegò per via Broletto. Non voleva andare alla Fiera. Era illogico quel che faceva. Il suo dovere gli avrebbe imposto di andarvi, eppure, lui, sentiva di dover reagire. Non voleva veder Beniamino, quella sera, non voleva veder Bertrando, non voleva saper più nulla di quanto aveva attinenza con l’assassinio di Giobbe Tuama. E così ripeteva a se stesso che non sarebbe andato neppure all’Hôtel d’Inghilterra. Aveva bisogno di esser solo. Non per pensare a quanto aveva appreso, ma appunto per non pensarvi.
Una notte di tranquillità assoluta. Una notte di completo riposo. E alla mattina avrebbe ripreso le sue indagini, dal principio.
Tra poche ore la Fiera si sarebbe chiusa. A mezzanotte avrebbero portato via banchi e libri, schiodato paratie di legno e tolti festoni e bandiere. Certo, così, sarebbe scomparsa per sempre la scena del delitto. L’atmosfera di esso si sarebbe rarefatta. Lui voleva appunto non soggiacere alla suggestione di quella scena e di quell’atmosfera.
Dopo una buona nottata di sonno, avrebbe potuto proiettare nel vuoto i suoi ricordi. Considerare avvenimenti, uomini e cose dall’alto e da lontano. Soltanto in tal modo avrebbe forse scorto i legami che univano – invisibili e segreti – le varie persone di quello strano dramma.
Ma in Questura doveva andare. Sarebbe passato a fare un rapporto sommario al suo Capo e poi subito a casa.
Girò per via Santa Margherita, traversò Piazza della Scala, costeggiò Palazzo Marino.
Si sentiva insolitamente leggero e inspiegabilmente lieto e sereno.
Entrò nel portone vasto, passò pel cortile deserto. Sani era seduto al proprio tavolo.
– Sei qui? Come vanno le cose?
– Il Questore mi ha cercato?
– Ha chiesto di te, per telefono. Ma quando ha saputo che eri fuori, mi ha detto che se ne andava a casa e che ti avrebbe veduto domattina.
– Meglio!
Si guardò attorno. Sul tavolo erano gli oggetti trovati in dosso a Giobbe Tuama. La catena dell’orologio spezzata, con la chiavetta, il fazzoletto, un libricino di appunti. E poi quel che Cruni aveva portato dalla casa di via Bramante, la cassetta con tutte le lacrime del prossimo, tenute in serbo dall’usuraio. Sopra una seggiola la valigia di cuoio scuro, che aveva appartenuto a Giorgio Crestansen e che Sani aveva fatto portare lì dall’albergo.
De Vincenzi si tolse di tasca la chiavetta della cassaforte, dalla quale pendeva il pezzo della catenina di platino. Lesse macchinalmente il numero: M. 368. L’indomani avrebbe verificato alla banca. Quale banca?
Squillò il telefono.
De Vincenzi ebbe un sobbalzo. Sani s’avviava per rispondere.
– Aspetta. Rispondo io.
Col cornetto in mano, dopo aver detto pronto, Sani lo vide contrarre i muscoli del volto, stringere le labbra con forza, come per impedirsi di bestemmiare.
– Vengo – disse e depose il cornetto sulla scatola nera.
Rimase per qualche istante contro il tavolo, immobile, assorto.
Il vice-commissario non osava interrogarlo.
De Vincenzi lo fissò e accennò a un sorriso amaro.
– Novità?
– Sì. Hanno tentato di accoppare il Pastore!...
– Che dici?
– Dico che ho fatto bene a venir qui... per non pensare...
Si aggiustò il cappello sul capo e fece qualche passo verso la porta.
– Vengo con te?
Non gli rispose subito.
– Ma come hanno fatto a supporre che io mi trovassi in Questura?
Sembrava allegro. Prese Sani sotto il braccio.
– Vieni con me.
Sani, nel passare per la sua stanza, afferrò il cappello dall’attaccapanni. Il commissario lo trascinava quasi e andava in fretta.
– Occorre far presto.
Presero un tassì.
– Piazza Mentana! – gridò all’autista. – E non fermarti ai segnali di arresto. Penso io ai vigili.
– Sono quasi le dieci – gli osservò Sani. – Oramai i semafori non funzionano più.
– Già – mormorò.
Ma perché avevano fatto il suo nome? E lo avevano trovato nel suo ufficio! In fondo era proprio lì che lui non doveva andare, ma piuttosto in Piazza Mercanti o all’Hôtel d’Inghilterra.
Possibile che... Di nuovo, con violenza, s’interdisse di formulare alcuna ipotesi. Tutto, dopo. Tutto proiettato nel vuoto. Adesso, era ancora il momento dell’azione.
– Che cosa è accaduto, insomma? – chiese Sani.
Il tassì passava veloce per la piazza illuminata. I passanti fermi davanti ai caffè, sotto l’orologio, a gruppi, si scostarono disordinatamente. Scoppiò qualche imprecazione.
– È accaduto questo... Ma in realtà, che cosa è accaduto? Io non lo so. Posso ripeterti quel che mi ha detto Matteo al telefono. Conosci Matteo? Neppur io l’ho mai visto. È il custode della Chiesa e del Presbiterio. E Virginia è la vecchia governante del Pastore...
– Che ti ha detto Matteo?
– Mi ha detto: signor commissario, le telefono dal caffè di Piazza Mentana. Sono il custode della Chiesa Evangelica. Corra subito qui. Ho trovato il Pastore disteso in terra, in Chiesa... Fa sangue dalla testa, ma respira... È ancora lì disteso. Venga subito...
– E tre! – imprecò Sani. – Ma che c’entra il Pastore, adesso?... Già! Io non so neppure che cosa c’entrino gli altri due... Non so niente, io!
– Se tu credi che io sappia qualcosa! – mormorò De Vincenzi, senza sorridere. – Ma quel che poi non riesco assolutamente a comprendere è come mai Matteo abbia pensato di telefonare in Questura e di chiamare proprio me!
Sani lo fissò qualche istante. Era chiaro che cercava di capire perché De Vincenzi si meravigliasse di un fatto così semplice.
– E a chi volevi che telefonasse?... Trova il Pastore in terra, insanguinato... pensa naturalmente a un’aggressione... e telefona per chiamare aiuto. A chi vuoi che telefoni? Alla Questura!
– Naturale!... Ma perché proprio al commissario De Vincenzi?
– Non sei tu che ti occupi dell’inchiesta? Ti avrà veduto...
Il tassì sbucava sulla piazza.
– Lì di fronte. Davanti alla Chiesa... Sicuro! Può avermi veduto. Ma io non l’ho mai visto, l’ottimo Matteo, il quale era così ben informato da sapere anche il mio nome.
Tacque. Rifletteva. E poiché certo le sue riflessioni erano interne, lui pronunciò a voce alta, scandendo le parole, come per porre un problema, la cui soluzione del resto era lui che doveva trovarla:
– È vero, però, che nessuno poteva sapere con certezza che io mi trovassi in Questura e che potessi, quindi, accorrere subito.
E Sani non capì che importanza avesse un tal problema, impostato a quel modo.
Scesero dal tassì. Non fece quasi neppure a tempo a premere il bottone del campanello, che la porta si aprì.
– Venga subito, signor commissario.
Il vecchio Matteo era una specie di nano, sbilenco e sciancato. E aveva un solo occhio valido e una gran barba, non bianca o grigia, ma rossiccia, accesa, crespa e dura.
E quella gran barba fiammeggiante urlava ancor di più su quel volto magro ed esile, perché i capelli erano candidi e la pelle esangue, diafana, sopra gli zigomi ossuti.
– Avete chiamato il dottore?
– E dove? E come? Non ho pensato che a chiamar lei! Non glielo nego: in casa siamo soltanto Virginia e io e abbiamo avuto paura...
Erano entrati nel corridoio. Si sentiva venire dalle scale il suono legnoso dei tacchi della vecchia, che scendeva.
– Gesù! Gesù di misericordia!...
Pregava con voce eguale, incolore, senza lamentarsi, senza invocare. Come se ripetesse una nenia.
La luce verde della lampada illuminava i volti, rendendoli lividi.
– È qui giù... in chiesa... Venga...
– Un momento. Chi lo ha scoperto?
– Io – rispose il nano e fece per rimettersi in cammino.
– Fermatevi!
– Ma lui!...
– Avete detto che respira... Io non sono medico, del resto... – Si volse a Sani: – Va’ a telefonare alla Guardia Medica... che il dottore prenda un tassi, per venire...
Sani tornò indietro e uscì, richiudendo la porta dietro di sé.
– A che ora?
– Qualche minuto prima che chiamassi lei al telefono... Sono subito corso al caffè a telefonare... Non ho pensato ad altro.
– Perché siete andato in Chiesa?
– Ho sentito un grido e un tonfo.
– Ah! – camminò verso l’uscio nero. Adesso avrebbe riveduto il Cristo con le piaghe.
– E quando siete entrato in Chiesa, avete veduto qualcuno?
– No... Saranno fuggiti dalla porticina, che dà in via Sant’Orsola. La Chiesa ha un’uscita da quella parte.
E lui non lo sapeva. Quante cose non sapeva e di quante cose non si era preoccupato.
– Dov’è il cane?
Il nano alzò le braccia al cielo in atto di disperazione grottesca. Gli parlava del cane, in quel momento!
Fu la donna che rispose.
– È scappato. Deve aver seguito Matteo. Ha trovato la porta aperta. Tornerà...
Naturalmente.
Si voltò di colpo:
– Ma perché avete chiamato proprio me?
– Come? E chi voleva che chiamassi?
– Giusto!... Ma come avete fatto a sapere il mio nome?
Il nano rimase senza fiato. La vecchia intervenne di nuovo.
– Sono stata io che gliel’ho detto. Lei è venuto qui due volte, oggi, e il Pastore mi aveva detto chi era...
– E anche vi aveva detto la ragione per la quale ero venuto?
– Oh!... Non hanno ucciso Giobbe Tuama?...
Tutte le lampade della Chiesa erano di nuovo accese.
Il Pastore giaceva disteso presso l’ultima colonna di destra, di fianco al pulpito. Aveva la faccia contro terra.
Il commissario si chinò e girò il corpo, mettendolo a giacere sul dorso. Vide allora una ferita al sommo della testa, tra il principio del cuoio capelluto e la fronte. Il sangue gli rigava il volto. Aveva gli occhi chiusi. Respirava, però, quasi regolarmente. Un colpo violento, doveva esser stato, che gli aveva tolto i sensi, abbattendolo.
Un colpo di che? Di bastone, molto probabilmente, e vibrato con discreta forza. Colui che lo aveva colpito doveva trovarglisi di fronte.
Il Pastore non poteva non averlo veduto.
De Vincenzi si guardò attorno.
– Aiutatemi a trasportarlo...
Fu sempre la vecchia, che si prestò ad afferrare il Pastore pei piedi, così come era stata lei a rispondere alle domande del commissario.
Lo portarono nella sala e lo misero sul divano nero.
– Fategli qualche bagnolo alla fronte. Adesso, verrà il medico.
E lui tornò nella Chiesa.
Vide la porticina nell’angolo estremo, dietro il pulpito. Era aperta. Dava sopra un corridoio buio. Tornò indietro. Sapeva già che quel corridoio terminava con la porta, che dava sulla strada. E doveva essere aperta anche quella.
Guardò attentamente le pareti, il pulpito, la colonna. Sullo spigolo della colonna, a più di un metro da terra, scorse una macchiolina di sangue. Non trovò altro. E tornò presso il divano, a guardare Virginia, che premeva con delicatezza un tovagliolo inzuppato d’acqua e aceto sulla fronte del Pastore e glielo passava leggermente sul volto, per tergerne il sangue.
Il nano stava presso alla porta. S’era cacciate le dita della mano sinistra nella barba rossigna e cresputa e guardava attorno a sé, con l’unico occhio aperto, perplesso.