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Invisibile

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Lei è Suzuki Tamaki? Molto lieta di conoscerla. Forse le sembrerà strano, a giudicare dal mio aspetto, ma non è la prima volta che incontro uno scrittore. Ne ho conosciuti molti della cosiddetta “generazione degli individualisti”. Qualcuno di loro è stato molto gentile e disponibile nei miei confronti… Ah, è venuta da me proprio per parlare di questo argomento? Bene, mi fa piacere… Se ho del tempo? Certo, non ho nessuna fretta. Possiamo intrattenerci fino all’orario di chiusura della biblioteca, d’accordo?

Io qui ci lavoravo. Continuo a venirci tutti i giorni per leggere i libri di nuova pubblicazione o per fare delle ricerche per conto mio. Venire in biblioteca mi fa stare bene, mi rassicura… Ah, lei sapeva anche che lavoravo in biblioteca? A quanto vedo, sa molte cose su di me. Si è informata bene, eh? Forse si è rivolta a qualcuno del provveditorato agli studi? O magari a quel professore di letteratura del liceo Kuramata?

Ah, quindi ha visto la mia fotografia in un libro e ha contattato la casa editrice per rintracciarmi. È incredibile, non è una cosa che capita tutti i giorni. Deve essersi rivolta a un bel po’ di persone. Molti di quelli che conoscono la mia storia non sono piú in vita, non deve essere stato facile trovarmi. Ma lei non scrive saggi, o sbaglio? È una scrittrice di romanzi, li pubblica spesso anche su riviste letterarie, giusto? Ho visto molte volte il suo nome nelle pagine delle novità editoriali di varie riviste e giornali. I suoi romanzi riscuotono un gran successo nelle biblioteche, sa? Lei ha sempre molti lettori che chiedono di poter prendere in prestito i suoi romanzi. Certo, non tanti come per un best-seller, quando possono esserci anche cento o duecento persone che si prenotano per il prestito, ma sono comunque parecchi, tutti suoi affezionati lettori che aspettano con ansia il proprio turno. È bello, no?

Voi scrittori fate un sacco di ricerche prima di scrivere un libro, lo so. E so anche che ciascuno di voi ha un suo metodo di lavoro. Lei, se non ho capito male, preferisce svolgere le sue ricerche e raccogliere le informazioni sul campo, facendo delle interviste non concordate. Ah, ora che mi viene in mente, un suo romanzo pubblicato un paio di anni fa è stato anche adattato per una serie televisiva della nhk, vero? Le faccio i miei complimenti… Ma come, non era lei l’autrice? Si tratta di un’altra Suzuki? Oh, mi scusi tanto, che figura… Le confesso che non ho mai letto i suoi libri, mi dispiace. Amo molto i romanzi, ma è da parecchio che non ne leggo uno. Sono legata a quelli di Midorikawa Mikio. Sa, quando si è avuta la fortuna di conoscere un grande maestro come lui, gli altri autori passano in secondo piano.

Sí, certo, le mie foto… Se ne trovano in giro diverse. Ci sono quelle in cui appaio insieme a Midorikawa, e ce ne sono anche altre che mi ha scattato lui stesso. Le hanno utilizzate per il Dizionario della letteratura pubblicato da Chikura shobō e per il frontespizio delle opere complete di Midorikawa, uscite qualche anno fa per Kadokai. Altre sono apparse in alcuni libri ormai fuori stampa… I diritti di utilizzo delle fotografie? Si riferisce alla richiesta di autorizzazione da parte delle case editrici? Perché, spetterebbero dei diritti anche a me? In realtà, non ne sapevo niente, nessuno mi ha mai chiesto il permesso per pubblicare quelle foto. È probabile che ci abbia pensato Midorikawa a concedere l’autorizzazione: se una cosa stava bene a lui, non chiedeva mai il mio parere. All’epoca funzionava cosí. Del resto era un mostro sacro della letteratura, uno dei piú grandi scrittori del suo tempo.

Secondo lei non sono cambiata? Dice che ho ancora un viso da ragazzina? La ringrazio molto, è gentile, ma ormai ho sessantaquattro anni. Forse non sono diventata ancora una nonnina, ma non sono piú una donna nel fiore degli anni e l’età comincia a pesare. È incredibile come vola il tempo. Eppure circolano ancora le fotografie della mia infanzia e della mia giovinezza: è molto strano sapere che ancora oggi tutti possono vedere com’ero tanti anni fa, quando ero solo una ragazzina. Nella foto alla quale lei allude, dovevo avere una decina d’anni e non di piú. Quando qualcuno mi dice che non sono affatto cambiata, resto molto sorpresa, sa?… Ah, ho capito, si riferiva a un certo modo di essere. In questo caso, sono d’accordo. Anche se il tempo passa e si invecchia, la propria natura non cambia. Credo fosse soprattutto per questo motivo che Midorikawa mi apprezzava e… mi amava.

Cambiando argomento, credo che oggi non esistano piú grandi scrittori. Kojima Nobuharu, che come sa è scomparso da poco, era forse l’ultimo grande della letteratura. Lui e Midorikawa erano molto amici.

Mi scusi, sto divagando, ma lei che cosa voleva chiedermi di preciso? Non me lo ha ancora detto… Ah, vuole sapere che cosa c’è stato veramente tra me e Midorikawa?… Non si preoccupi, non mi crea nessun imbarazzo. Se le sembro sorpresa, è solo perché sono sicura che le deve essere costata molta fatica rintracciarmi. Anzi, le dirò di piú: lei è la prima persona che è riuscita ad arrivare fino a me.

Se non ho fatto male i calcoli, sono passati diciassette anni dalla morte di Midorikawa. Una persona che lavorava per Chikura shobō mi ha raccontato che, poco prima di andarsene per sempre, Midorikawa si è voltato da un lato e ha sussurrato il mio nome: «Mōchan», era cosí che mi chiamava. Quella persona si chiamava Yamada, era un editor, e Midorikawa gli era molto affezionato. Yamada è rimasto al suo fianco in ospedale fino all’ultimo istante. Dopo si è occupato anche di sua moglie, era un uomo buono e generoso come pochi. Purtroppo se ne è andato anche lui troppo presto, a causa di una cirrosi epatica. Gli editor bevono troppo, poveracci.

Ovviamente, Mōchan è il diminutivo di Motoko. In realtà lui mi chiamava “Mōcha”. Lo ha scritto anche nella dedica di un libro che mi ha regalato: «Alla mia amata Mōcha»… No, mi dispiace, non posso mostrarglielo, ci tengo troppo. È la cosa piú preziosa che ho, quel libro significa molto per me, lo custodisco come un tesoro. Comunque, pare che Mōcha o qualcosa di simile – mi perdoni, ma non conosco la pronuncia esatta – sia un diminutivo vezzeggiativo di un nome femminile russo. Se non sbaglio, viene usato soprattutto per le bambine che si chiamano Marina, il cui significato ha a che fare col mare, o Matryona. È molto carino, non trova? Midorikawa conosceva bene i nomi russi, pensi che mi ha chiamata in quel modo fin dal nostro primo incontro. Dopo la sua morte, ho provato una tristezza infinita al pensiero che al mondo non esistesse piú nessuno che mi chiamasse cosí. È stata davvero dura abituarsi a questo. Lo pronunciava in un modo tutto suo, con un’intonazione molto affettuosa. Non diceva né “chan” né “cha”, ma una via di mezzo, come se la n restasse sospesa dolcemente a mezz’aria. Ecco perché il suo amico editor Yamada e molti altri pensavano che dicesse “Mōchan” e tutti hanno finito per credere che fosse quello il mio soprannome. Mi vengono le lacrime agli occhi, che malinconia.

Sono passati già quattro anni da quando sono andata in pensione e non lavoro piú qui, alla biblioteca di Kuramata. Ora posso fare quello che mi va e in tutta calma. Gli altri mi dicono che per la mia età ho dei gusti un po’… psichedelici. Io sono parecchio piú anziana di lei, signora Suzuki, e forse non mi crederà, ma sono cresciuta con il rockabilly e la musica di Elvis Presley. Mi piaceva molto anche Allen Ginsberg e ricordo a memoria alcuni suoi versi. Per esempio: «In Russia i giovani poeti sorgono a baciare l’anima della rivoluzione»… Ah, li conosce? Non mi dica che appartiene anche lei alla stessa generazione… Mi scusi, non l’avevo capito. Il fatto è che lei sembra cosí giovane. Al giorno d’oggi, le donne che lavorano dimostrano meno anni della loro età effettiva. Ma noi stavamo parlando dei miei gusti… psichedelici, o sbaglio? Lei non trova che le sessantenni di oggi siano molto attive e talvolta abbiano hobby e interessi abbastanza pericolosi e imbarazzanti? Tra le mie colleghe, per esempio, c’era chi faceva immersione in apnea, chi la maratona di Honolulu o chi trafficava su Internet, tutte attività fuori dell’ordinario su cui si potrebbe scrivere un articolo per una rivista alla moda.

Io, invece, vivo come una vecchia signora insieme ai miei gatti, buona e tranquilla, senza fare niente di che. Coltivo le erbe aromatiche sul mio balconcino, mi diverto a fare collanine e braccialetti con le perline di vetro, frequento dei gruppi di lettura e cose del genere. Ma lo sa che le erbe aromatiche crescono a una velocità pazzesca? Non riesco mai a usarle tutte. Del resto non si può mica utilizzarle in cucina tutti i giorni, no? Cosí come non è possibile consumare solo tisane al posto del tè. Prima di coltivarle non lo sapevo, e adesso mi ritrovo con il balcone invaso dalle piante aromatiche e un problema in piú al quale pensare. Ah, sono iscritta anche a un circolo di haiku. Una volta ogni due mesi andiamo in gita in posti famosi per comporre dei versi, secondo tradizione. Nulla a che vedere con Ginsberg, è ovvio… Cosa? Vuole che le reciti uno dei miei haiku? Ma cosí mi imbarazza, non sono niente di che… Mmh, uno solo, d’accordo: «Se sono raffreddata / sulla fronte dei miei gatti / gelatina fresca al mandarino». Questi versi parlano del mio tentativo, in un giorno in cui mi sentivo febbricitante e avevo poco appetito, di far mangiare ai miei gatti della gelatina che avevo fatto con dei mandarini avanzati. Sono molto tristi, non trova? Credo si percepiscano la sofferenza e la noia di una donna sola. Niente a che vedere con la forza e la veemenza dei versi di un Ginsberg. Se Midorikawa potesse leggere questa poesia di scarso valore, sono certa che scoppierebbe a ridere e si prenderebbe gioco di me. «Mōcha, da quando in qua ti diverti a fare la poetessa?» mi direbbe.

Era sempre circondato da giovani donne amanti della letteratura, le quali erano disposte a tutto pur di avvicinarlo e restare con lui il piú a lungo possibile, nella speranza che potesse dare un’occhiata ai loro manoscritti. Anche a casa nostra, mia madre e le sue amiche avevano l’abitudine di riunirsi per leggere ad alta voce i testi che scrivevano, perlopiú poesie e racconti senza capo né coda. E lui, che spesso era presente, faceva di tanto in tanto delle osservazioni mentre mi teneva sulle ginocchia. A volte mi diceva qualcosa all’orecchio, ridacchiando. Per esempio: «Mōcha, le senti? Tua madre e le sue amiche si divertono a fare le scrittrici». E se mi veniva da ridere, mi dava un pizzicotto sul sedere per farmi stare zitta. «Non devi ridere, Mōcha, altrimenti ci scoprono!» mi rimproverava. E allora dovevo sforzarmi di restare seria per tutto il tempo… Sí, c’erano molte donne che speravano di fargli leggere i loro manoscritti… Ah, vuole sapere se mi faceva male quando mi pizzicava il sedere? Lei è la prima persona che me lo chiede, sa? No, per niente, faceva piano… Trova strano che una ragazzina di dieci anni si sedesse sulle ginocchia di un uomo adulto? A dire il vero non ci avevo mai pensato. Ero piccola e mingherlina, sembravo una bimba dell’asilo, e comunque non mi sentivo affatto a disagio.

Il nostro primo incontro risale a un giorno in cui mia madre mi portò con sé a una delle sue riunioni. Avevo solo dieci anni. Io sono nata nel 1941, per cui doveva essere il 1951. Erano passati sei anni dalla resa del Giappone, la guerra di Corea era appena iniziata, ma la situazione economica cominciava a migliorare. Anche se allora ero solo una bambina, ricordo che regnava un’atmosfera di grande euforia e ottimismo, tutti si aspettavano che le cose potessero mettersi a posto dall’oggi al domani. Ma basta guardare le fotografie di quel periodo per rendersi conto che c’era ancora molta povertà. La maggior parte delle strade non era asfaltata e le donne erano costrette a tenere l’orlo del kimono perennemente sollevato per camminare lungo le vie fangose e prive di illuminazione. In giro era pieno di soldati americani, e siccome mia madre si conciava spesso in modo piuttosto stravagante, loro si divertivano a prenderla in giro tutte le volte che la vedevano passare.

Mia madre amava molto la letteratura, leggeva una montagna di libri. Ma era consapevole di non avere talento e non aveva nessuna intenzione di far parte di un circolo letterario consacrato alla scrittura. E allora che cosa facevano quelle come lei? Mettevano gli occhi su questo o quell’altro giovane scrittore legato a qualche piccola rivista letteraria e gli correvano dietro. Oggi forse le chiamerebbero “groupies”, no? Lei non trova strano che uno scrittore possa diventare una sorta di preda da inseguire? Una volta, i giovani colleghi che lavoravano con me in biblioteca mi dissero che secondo loro era un po’ la stessa cosa che accade oggi con i gruppi rock famosi, quando i fan aspettano i membri della band prima e dopo i concerti. La stessa cosa che succede al Comiket, dove migliaia di ragazzi sono disposti a fare file chilometriche pur di incontrare i mangaka emergenti. Non conosco piú di tanto il mondo dei manga ma, da quello che ho capito, il Comiket rappresenta una grande occasione soprattutto per i mangaka in erba, che hanno modo di mettersi in mostra a livello locale pubblicando sulle… fanzine – si chiamano cosí, no? – nella speranza di diventare famosi in tutto il paese. E i fan cercano a loro volta di individuare le giovani promesse e, quando ne trovano una, non la mollano piú. In modo da potersi vantare, un domani, di aver assistito con i propri occhi alla nascita di una nuova superstar del fumetto. Ora, tornando alla letteratura, credo che le ragazze di una volta avessero un debole soprattutto per i giovani scrittori un po’ tenebrosi.

A ogni modo, di certo mia madre non era la sola ad aver messo gli occhi su Midorikawa Mikio. Basta guardare le sue fotografie per accorgersi che da giovane era molto bello, aveva dei lineamenti delicati e gentili. E poi era alto e snello, e aveva dei capelli folti e nerissimi che gli ricadevano morbidi sulla fronte ampia. Nemmeno Kimutaku3 sarebbe in grado di reggere il confronto con lui. Qualcuno sosteneva addirittura che somigliasse a Nabokov. Era molto serio, non rideva quasi mai, probabilmente a causa del suo passato come ufficiale delle squadre speciali di assalto della marina giapponese. Mia madre diceva che il suo viso possedeva l’espressione vacua di un uomo che aveva assistito alla fine del mondo, il che aggiungeva una bellezza misteriosa ai suoi tratti. Naturalmente lei sapeva molto bene che era sposato e aveva dei figli, perciò non puntava tanto a conquistarsi il suo amore, ma desiderava guadagnarsi la sua attenzione in quanto fedele e devota ammiratrice.

Vuole sapere qualcosa di piú su mia madre? Va bene, d’accordo. Non era divorziata, era una vedova di guerra. Mio padre è morto nell’isola di Tinian nell’estate del 1944, non l’ho mai conosciuto. Ha potuto vedermi solo in foto, poverino, e la stessa cosa è stata per me. Un padre e una figlia che si conoscono soltanto attraverso delle fotografie: è di una tristezza infinita, non trova? Mia madre tornò a casa dei suoi genitori portandomi con sé, avevo tre anni. Era di Kuramata e apparteneva a una famiglia abbastanza agiata. Una volta rientrata nella casa natale, ridiventò la ragazza di un tempo. Era inevitabile, era ancora molto giovane, aveva solo ventuno o ventidue anni. Io e lei eravamo come due sorelle. In quella casa mi hanno cresciuta come se fossi la figlia adottiva di mio nonno, ero sotto la sua tutela.

Il nome della rivista letteraria amatoriale attorno alla quale gravitava all’inizio Midorikawa? Shusui4. Ha tenuto a battesimo alcuni giovani scrittori diventati poi famosi. Miyagi Hiroshi, per esempio, vincitore del premio Akutagawa; Satomi Hiroyuki e Fujiyama Mamoru, entrambi giunti finalisti allo stesso premio, il primo ben due volte, l’altro una; il celebre paroliere Shiguchi Yasunao; e anche la scrittrice Uchibori Aya. Lei li conosce tutti molto bene, no? Ma, come sa, sono morti da diverso tempo.

Mia madre non era nella redazione della rivista, ma, in qualità di ammiratrice e sostenitrice finanziaria, aveva il diritto di partecipare alle riunioni che si tenevano piú volte all’anno. Oggi si parlerebbe di “fan club” o qualcosa del genere. Come ho già detto prima, ero ancora una bambina quando mia madre mi portava a quelle riunioni, eppure me lo ricordo come fosse ieri. Gli incontri si tenevano perlopiú nei caffè dalle parti di Kagurazaka, e noi due eravamo vestite nello stesso modo, all’occidentale. Mia madre quegli abiti li faceva confezionare su misura nelle boutique alla moda, pagandoli fior di quattrini.

Vuole sapere come mai portava una bambina in posti del genere? Ha ragione, in effetti è un mistero. Avevo una nonna, avrebbe potuto affidarmi tranquillamente a lei, e poi penso che si sarebbe divertita di piú andandoci da sola. Non lo so, forse le sembrerò presuntuosa, ma era molto orgogliosa di me e le piaceva portarmi in giro con lei. Spesso per strada la gente la fermava per farle i complimenti e dirle che ero una bambolina.

Mi ricordo molto bene la prima volta in cui Midorikawa mi rivolse la parola. Indossavo lo stesso vestito di cotone di mia madre, a piccoli pois neri su fondo rosso. L’abitino era stato ordinato apposta per l’occasione ai grandi magazzini Mitsukoshi di Nihonbashi. Quello di mia madre, un po’ scollato e con una cintura di seta nera, era molto femminile, mentre il mio era alla marinaretta e aveva un ampio collo bianco. Quel vestito mi è rimasto ben impresso nella mente anche perché, con gli scampoli di tessuto, ne facemmo fare uno uguale per la mia bambola preferita. Quando io e mia madre entrammo nella sala della riunione con quella mise, fummo accolte da un mormorio di ammirazione. Le assicuro che non sto esagerando, avevamo gli occhi di tutti i presenti puntati addosso. I nostri vestiti avevano fatto colpo, all’epoca erano una vera rarità. Midorikawa si alzò subito in piedi e mi venne incontro.

«Quanti anni hai, signorina?» mi chiese.

«Ne ho compiuti dieci da poco» risposi io.

Al che lui, se non ricordo male, mi disse: «Io ho tre figli, sai? Una bambina di quattro, una di due e un bimbo appena nato. Se tu fossi mia figlia, saresti la loro sorella maggiore, eh?».

Mia madre lo guardò con un certo stupore, era leggermente arrossita. A parte l’ammirazione che nutriva per lui come scrittore, doveva essersene innamorata. All’epoca, Midorikawa aveva trentadue anni e lei ventinove. Non ne sono certa, ma credo che all’improvviso nel cuore di mia madre si fosse fatto strada il sogno di condividere la sua vita con lui.

Ah, mia madre? È morta in un incidente stradale circa tre anni fa. Mentre era in viaggio all’estero, un incidente di autobus. Aveva ottant’anni. La sua morte è stata un fulmine a ciel sereno. Stava bene e non aveva nessun problema di natura economica, perciò credo che a modo suo abbia saputo godersi la vita. Per quanto riguarda il rapporto con Midorikawa, a un certo punto accadde un fatto a causa del quale smise di interessarsi a lui. Non so come spiegare, diciamo che di colpo rinunciò a seguirlo, quasi che avesse paura di impegnarsi in una storia d’amore difficile. Ecco perché non era nemmeno al corrente della sua morte. Aveva preferito dimenticarlo, cancellarlo dalla sua vita.

Tornando al mio incontro con lui, ricordo che dopo quel primo rapido scambio di battute mia madre era molto a disagio.

«Mi scusi se mi sono permessa di venire con mia figlia, sono desolata» gli disse. «Le prometto che se darà fastidio la porterò subito fuori».

Midorikawa scosse piú volte il capo. I suoi capelli ondeggiarono leggeri e fluenti sulla fronte.

«No, non c’è problema» rispose. «Mi piacciono molto i bambini».

Quindi si abbassò alla mia altezza per guardarmi bene in viso e aggiunse: «Sembra quasi una bambina russa».

Come le ho già detto, da piccola ero molto carina e avevo la carnagione chiara. E sono sicura che fosse per questo che mia madre mi vestiva sempre con abiti graziosi e mi portava in giro con lei. Mia madre aveva gli occhi molto sottili e non era una grande bellezza, ma mio padre a giudizio di molti era un bell’uomo e assomigliava a un occidentale, per cui è probabile che io abbia preso da lui. Forse non ci crederà, ma mi hanno detto piú di una volta che somigliavo all’attrice Ri Kōran, anche se lei era di un’altra epoca e a esser sincera trovavo il paragone un po’ azzardato. Pensi che una volta un tizio della Tōhō ha cercato addirittura di introdurmi nel mondo del cinema.

Poi Midorikawa chiese come mi chiamassi e mia madre rispose: «Motoko. È stato il mio defunto marito a scegliere questo nome, me lo scrisse in una lettera dal fronte».

«Motoko, che bel nome!» Midorikawa fece una breve pausa, dopo di che mi si avvicinò piano e mi sussurrò all’orecchio: «Che ne dici se ti chiamassi “Mōcha”? È un nomignolo russo che si usa per le ragazze. È carino, non ti pare?».

Anche una ragazzina di dieci anni si accorge quando piace a un uomo. In quel momento mi sentivo alle stelle, ero molto contenta. Può immaginare cosa voglio dire, no? Lí, a cominciare da mia madre, era pieno di donne ben vestite e molto chic che non vedevano l’ora che il promettente e bel romanziere si accorgesse di loro. Aveva un gran successo con le donne, era il numero uno. Anche Miyagi e Fujiyama avevano parecchie ammiratrici, ma mai quanto lui. Dopo un po’ cominciai ad annoiarmi in mezzo a quella gente adulta e chiesi a mia madre di andare via. Allora Midorikawa si avvicinò di nuovo e le disse: «Nasako, mi scusi, la prossima volta sarebbe possibile riunirci a casa sua?».

Nasako era il nome di mia madre. Lei era al settimo cielo, glielo si leggeva in faccia.

«Ma certamente, ne sarei molto onorata. Vi aspetto con enorme piacere» gli disse.

Io avevo capito tutto al volo, Midorikawa voleva rivedere a tutti i costi la sua piccola Mōcha. E difatti fu proprio quel che accadde. Mantenendo la promessa, dopo circa un mese si presentò a casa nostra in compagnia dei suoi amici scrittori. E si dilungò in un pubblico elogio nei miei confronti.

«Questa ragazzina ha un viso perfetto» disse a un certo punto. «Sono sicuro che non ce n’è un altro cosí bello in tutto il Giappone».

Aveva la mania del viso. Sí, so bene che un’espressione del genere non esiste e suona perfino ridicola, ma descrive alla perfezione l’ossessione che Midorikawa aveva per i visi. Gli piaceva molto anche il proprio volto, si guardava spesso allo specchio. I suoi amici lo deridevano per questo e gli dicevano che era un narcisista, e lui se la prendeva molto. «Il viso è un autentico mistero» disse una volta. «Pensateci bene, con attenzione. È pieno di buchi da far paura. Eppure la bellezza o la bruttezza di un viso dipende tutta da come quei buchi sono disposti e dall’armonia che c’è tra loro». Andava pazzo per il mio viso, gli piaceva da morire. Si procurò una macchina fotografica apposta per farmi delle foto, e amava molto anche farsi ritrarre accanto a me. Distribuiva spesso e volentieri i negativi alle case editrici o li regalava agli amici. Ecco perché ancora oggi ci sono in giro molte mie fotografie.

Mi prendeva il viso tra le mani, per osservarlo meglio, e a volte mormorava frasi del tipo: «Mentre ti stringo, il tempo continua a scorrere. Il tuo viso cambia un istante dopo l’altro. Ah, se solo potessi fermare il tempo».

Ascoltando le sue parole, anche se ero una bambina, non potevo fare a meno di sentirmi in ansia. Nel suo tono percepivo una tensione profonda, dilaniante, e avevo paura che il mio viso potesse cambiare da un momento all’altro e diventare brutto.

Mia madre sembrava molto contenta delle sue frequenti visite. La nostra casa era a Tōkyō, tra Gotanda e Ikedayama. L’aveva comprata mio nonno. Era piccola, ma elegante e costruita nel tradizionale stile sukiya, probabilmente in origine era stata progettata per accogliere l’amante di qualche facoltoso signore. Midorikawa la apprezzava molto, e difatti ripeteva spesso a mia madre: «Complimenti, questa casa è davvero graziosa!».

Che cosa gli piaceva esattamente? La casa? Mia madre? La piccola Mōcha? O forse tutto? Fatto sta che lui e i suoi amici scrittori avevano preso l’abitudine di venire da noi di frequente, piú volte a settimana, come se la nostra casa fosse la sede ufficiale del loro circolo letterario. Io trovavo la situazione molto piacevole e divertente. Non appena tornavo da scuola, mi toglievo la cartella dalle spalle e correvo da lui. Ormai veniva da noi quasi tutti i giorni e io andavo a sedermi sempre sulle sue ginocchia. Quello era diventato il mio posto fisso, lui mi teneva in braccio mentre conversava con gli altri, anche per diverse ore. E intanto io crescevo. Dalla scuola elementare passai a quella media, avvicinandomi passo dopo passo all’età adulta.

Ho capito, vuole sapere se abbiamo avuto una relazione, eh?

Lei mi pone delle domande alle quali è molto difficile rispondere. A questo proposito, lo ha letto il libro che contiene quel lungo dibattito tra Midorikawa e il filosofo Masuda Gōki? Masuda, prima di chiedere qualcosa a Midorikawa, ripeteva spesso, piú o meno come fa lei: «Mi spiace se le faccio una domanda alla quale non è facile rispondere». Però poi chiedeva lo stesso senza esitare… Ah, lo ha letto? Bene, cosí potrò andare dritto al sodo. Come forse ricorderà, a un certo punto Masuda pone a Midorikawa la stessa identica domanda che lei ha appena rivolto a me: «Mi spiace se le faccio una domanda alla quale non è facile rispondere, ma a lei quella ragazzina piaceva sul serio?».

«Assolutamente no! Era solo una bambina!» è la testuale risposta di Midorikawa. All’epoca era ormai ultrasessantenne, mentre io mi avvicinavo alla quarantina. Quindi, in linea di massima, ero pronta ad accettare qualsiasi risposta, nel senso che ormai ero una donna adulta e vaccinata. E invece le sue parole sono state come un colpo al cuore, mi hanno fatto un male incredibile. “Era solo una bambina“… Perché non aveva detto la verità? Poteva almeno essere un po’ piú onesto, anziché negare tutto. Ero fuori di me, mi sentivo profondamente offesa. Se lo avessi avuto davanti, gliene avrei dette di tutti i colori, malgrado fosse un uomo anziano e uno scrittore di fama.

Ora ho sessantaquattro anni. Le persone coinvolte in questa storia non sono piú in vita, a eccezione della moglie di Midorikawa. Credo che non racconterò mai piú questa storia ad anima viva, perciò voglio essere franca con lei e dire la verità fino in fondo. Io e Midorikawa ci siamo innamorati fin dal primo istante in cui ci siamo visti, è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Lui aveva trentadue anni e io ne avevo dieci, ma le assicuro che tra di noi era vero amore. La nostra relazione è andata avanti per circa sei anni, fino alla sua decisione di trasferirsi in Hokkaidō. L’età non conta. Mi piace metterla in questi termini, anche se in realtà lui era capace di amare solo le fanciulle innocenti.

Vuole sapere cosa ne è stato del nostro amore quando ho smesso di essere una fanciulla innocente, ovvero quando sono diventata una donna adulta? La risposta è semplice: è finito tutto molto in fretta. Perché lui, oltre a essere capace di amare solo le ragazzine, aveva finito per odiare il mio viso che cambiava col passare degli anni. Credo che all’inizio fosse preda di un’autentica passione e che dopo si fosse limitato a osservare il mio cambiamento come fossi una cavia. A quel punto sembrava che gli bastasse guardarmi e studiare il mio viso. Ma io, Mōcha, sono fiera di essere stata il grande amore della sua vita. Anche se nessuno lo sa… Dopo la sua partenza, non potevamo né scriverci né sentirci al telefono, ce lo avevano proibito. Di tanto in tanto ricevevo qualche sua lettera, grazie alla complicità di un editor di una certa casa editrice. In seguito, fece in modo di venire a Tōkyō una volta ogni paio di mesi. E in quelle rare occasioni non mancavamo mai di vederci.

Per favore, se possibile, le chiederei di non scrivere ancora niente sull’argomento. Qualcuno potrebbe prendersela a male e potrebbero nascere dei problemi. I familiari di Midorikawa sono disposti a tutto pur di difendere il suo buon nome, anche se ormai sono rimasti in pochi essendosene andati quasi tutti all’altro mondo. I vivi e i morti hanno tutti una loro verità… La mia verità? Certo, io ne ho una sola, ora e per sempre. La conservo dentro di me. Molti vorrebbero negarla per il semplice fatto che è molto lontana dall’idea che la maggior parte della gente ha dell’amore. Ma io credo che il problema sia un altro: in alcuni casi, per vari motivi, le persone hanno serie difficoltà ad accettare la realtà delle cose.

Mi scusi, ha ragione, non le ho ancora detto del fatto che accadde a mia madre e la spinse a disinteressarsi di Midorikawa. In realtà, avrei preferito tacere sulla questione, ma visto che insiste… La moglie di Midorikawa le tese un agguato e tentò di accoltellarla! Ora, che si tratti di uno strano scherzo del destino o di un suo disegno segreto, quella donna è ancora in questo mondo e gode di ottima salute, mentre gli altri se ne sono andati uno dopo l’altro. È coetanea di Midorikawa e quindi ha ben ottantasei anni. Non ho mai parlato con nessuno di questa storia, perciò la prego di mantenere il segreto.

Quella donna, cosí come è descritta in uno dei romanzi di Midorikawa, aveva un carattere collerico e dispotico. Era convinta che il marito avesse una relazione con mia madre. Perciò un giorno, armata di un coltellaccio da cucina che teneva nascosto sotto il vestito, si appostò all’angolo di una strada e attese che mia madre tornasse verso casa.

Era una sera di marzo in cui soffiava un vento che sollevava nuvole di polvere. Io e mia madre, in previsione della consueta visita di Midorikawa e degli altri scrittori, eravamo di ritorno dal mercato nei paraggi della stazione, dove avevamo comprato della carne, del tōfu e dei porri. All’epoca eravamo tutte e due un po’ stufe di quelle continue riunioni. Il “salotto letterario” ci pesava, l’entusiasmo non era piú quello di una volta. Ero una sedicenne, erano piú di sei anni che la relazione con Midorikawa andava avanti e ormai non ero piú una bambina. Inoltre ero convinta che lui provasse ancora una certa attrazione nei miei confronti, anzi ero sicura che mi amasse anche piú di prima. Ecco perché mi seccava vederlo in occasione di quelle riunioni, in presenza di mia madre e degli altri… Su cosa si basava la mia convinzione? Be’, le confesso che parlarne mi mette in imbarazzo… Come dire?, Midorikawa non era un uomo che si faceva scrupolo di manifestare la sua passione. Mi amava e me lo dimostrava, in un modo che una donna non può non apprezzare. Per questo mi sono lasciata inondare dal suo amore. E devo dire che eravamo entrambi molto bravi a escogitare di continuo degli stratagemmi in grado di ravvivare la nostra passione. Non ho mai smesso di amarlo, mi piaceva sempre come il primo giorno, ma a volte non potevo fare a meno di pensare che ci vedessimo soprattutto per perfezionare i nostri ingegnosi stratagemmi… Da dove nasceva tutto questo? Qual era l’origine della nostra follia d’amore? Be’, direi che forse ci piaceva molto giocare e divertirci insieme.

Mia madre non si era accorta di niente. Non nutriva neanche l’ombra di un sospetto quando, dietro il pretesto di aiutarmi a fare i compiti, Midorikawa si chiudeva con me in camera mia. E siccome si era resa conto da tempo che lui non le concedeva piú la minima attenzione, aveva finito per disinteressarsi agli incontri letterari e ai suoi romanzi. Fu piú o meno in quel periodo che quella sera vedemmo spuntare dall’ombra una donna armata di coltello. Non può immaginare il terrore che provammo. Ci colse alla sprovvista, non avemmo neanche il tempo di riflettere su quello che stava succedendo.

«È lei Nasako?» domandò quella donna a mia madre, la voce tremante. Poi guardò me con la coda dell’occhio e aggrottò le sopracciglia, visibilmente turbata. Indossava un cappottino scuro e una gonna grigia: vecchi indumenti infeltriti e pieni di quegli orrendi pallini di tessuto. Aveva i capelli scarmigliati, era pallida e ci fissava con gli occhi fuori dalle orbite. Mi nascosi dietro la schiena di mia madre, spaventata e tremando come una foglia.

«Lei chi è?»

Alla domanda brusca e aggressiva di mia madre, la donna perse una buona dose di coraggio e abbassò la punta del coltello.

«Sono la moglie di Midorikawa Mikio» rispose con un filo di voce.

Ero esterrefatta. Cerchi di mettersi nei miei panni, era la prima volta che quella donna si intrometteva nella mia storia d’amore con Midorikawa: quell’apparizione improvvisa aveva un che di assurdo, di sinistro. Il nostro amore era come un sogno sublime all’insegna di una bellezza delicata ed effimera. Quindi per me fu un vero shock apprendere in quel modo l’esistenza di quella donna sciatta e di una certa età, nonché immaginare i loro bambini mocciosi e viziati, la loro cucina umida e cupa, la stanza da bagno lurida!

«Io non ho nessun legame particolare con il signor Midorikawa, deve esserci un malinteso» disse con aria imperturbabile mia madre.

«E lei?» chiese la moglie di Midorikawa, puntando il coltello verso di me.

«Ma come si permette?! Mia figlia è ancora minorenne, è solo una studentessa del liceo. Si tolga dai piedi!»

Alle parole “studentessa del liceo”, la donna perse tutta la sua aggressività e andò via con la coda tra le gambe. La sua figura di schiena appariva misera e pietosa: le spalle ingobbite per la vergogna, il capo scosso da continui sussulti di rabbia.

Ricordo che in quel frangente pensai a quella donna come un’anima condannata a vagare in una sorta di girone infernale. E inoltre capii per la prima volta, con un certo orrore, che molti uomini nascondono dentro di sé un paradiso e un inferno con i quali devono fare i conti tutti i giorni. Ma avvertii un fremito di orgoglio all’idea che il probabile disgusto di Midorikawa nei confronti della moglie non facesse altro che accrescere il suo amore per me. Del resto era la realtà stessa a darmene prova.

A essere sincera, non so cosa significhi essere moglie. C’ero io dalla parte del paradiso? Forse si può essere all’inferno anche senza rendersene conto, no? In verità esistono dei paradisi illusori intrisi di certezze fasulle. In ogni caso, quella donna versava in uno stato di totale confusione, al limite della pazzia. Era in una situazione disperata e per niente invidiabile.

Se ho avuto altre storie? No, nessuna. Midorikawa Mikio è stato l’unico uomo della mia vita. Signora Suzuki, la prego ancora una volta di riflettere sul fatto che le sto confidando vicende personali di cui non ho mai parlato con nessuno in oltre cinquant’anni. Le parole mi sono uscite fuori quasi da sole, non immaginavo che sarei stata capace di svelare queste cose ad anima viva. È tutto cosí incredibile e avvolto nel mistero che a volte io stessa stento a credere che sia una storia vera. Che cosa ero io per lui? Me lo chiedo ancora oggi.

2

Desidera sapere che cosa voleva da me Midorikawa? Ora che mi ci fa pensare, mi viene in mente una frase che mi diceva spesso: «Mōcha, non cambiare mai, ti prego. Giurami che il tuo viso e il tuo corpo resteranno per sempre piccoli e carini». E subito dopo mi costringeva a prometterglielo, incrociando il suo mignolo lungo e ossuto con il mio. Poi, come se quel dito fosse un amo, si portava il mio mignolino alle labbra e prendeva a baciarlo con dolcezza. «Ah, com’è buono e saporito questo ditino! Quasi quasi me lo pappo tutto» aggiungeva scherzando. A volte si spingeva un po’ oltre e sentivo i suoi denti che mi mordicchiavano piano il polpastrello. Ma non mi faceva male, non ho mai avuto paura di lui. Era sempre molto gentile con me ed ero piú che convinta che quello fosse solo un gioco. Anche se ero una bambina, mi mandava in estasi. In senso buono e innocente, è ovvio! Mi riferisco alle emozioni che provavo: ero felice perché qualcuno si interessava a me e mi voleva bene. E quando i peli ispidi che aveva intorno alle labbra e sul mento mi pungevano il dito, mi ritraevo d’istinto e mi stupivo al pensiero che gli uomini fossero cosí scabri e spigolosi. I capelli, le ossa, la barba: tutto di loro è ruvido e aspro… Sí, mio padre era morto in guerra e io e mia madre non frequentavamo nessun altro uomo adulto.

Come le ho già detto, Midorikawa mi ripeteva spesso che sperava che restassi in eterno una bambina. Ma era impossibile, si sa. Si poteva forse chiedere a un bel cagnolino di restare per sempre un cucciolo? E ogniqualvolta gli sentivo pronunciare quella frase, provavo una tristezza immensa, perché avevo la sensazione che mi ordinasse di non crescere mai.

Ho capito bene? Vuole conoscere qualche particolare in piú sulla natura della nostra relazione? Su quello che succedeva in concreto tra una ragazzina di dieci anni e un uomo di trentadue? Però cosí mi chiede troppo, mi mette in difficoltà… So bene che lei è una scrittrice matura e che a volte nei romanzi si debba scrivere la pura verità, senza mezzi termini, ma in questo caso non crede che sarebbe rischioso? Insomma, non vorrei che qualcuno potesse equivocare e scambiarla per una giornalista da quattro soldi. Me lo sta chiedendo in modo cosí diretto, quasi che debba preparare un servizio per uno di quei talk show di infimo livello. Mi scusi la franchezza, ma certe volte voi scrittori non avete pudore. Siete freddi e sfacciati, non avete nessuna paura di ferire gli altri. Le confesso che mi fate arrabbiare sul serio, essere uno scrittore non significa poter fare e dire tutto ciò che si vuole!

Non mi fraintenda, non mi riferisco a lei in particolare… Ah, vuole sapere se quello che ho appena detto vale anche per Midorikawa? Be’, non proprio. Diciamo che parlavo della figura dello scrittore in generale, e di conseguenza alludevo un po’ anche a lui. Secondo lei, qual è la vera natura di uno scrittore? Io, prima di tutto, credo che chi scrive debba avere uno sguardo estremamente lucido. Lo scrittore deve essere distaccato, deve trovare la giusta distanza da se stesso. Non so se è un’immagine che ha a che fare col Tibet o col Nepal, ma una volta mi è capitato di vedere il ritratto di un volto con un occhio in mezzo alla fronte, il terzo occhio. Ecco, secondo me, quel terzo occhio rappresenta lo scrittore. Lei mi sta ascoltando con pazienza e col sorriso sulle labbra, ma so bene che questo paragone la disgusta e non le piace l’idea di essere associata a un terzo occhio, vero?

A ogni modo, Midorikawa era un uomo molto volubile e capriccioso. Veniva da noi senza preavviso. Io, a partire dai sei anni, ho cominciato a studiare pianoforte e calligrafia, e anche se mia madre gli ricordava di continuo i giorni in cui avevo lezione, lui se ne dimenticava puntualmente e all’improvviso si presentava a casa nostra. «Signor Midorikawa, la prego di aspettare, Motoko sarà presto di ritorno» gli diceva mia madre. Ma lui reagiva in modo scorbutico e rispondendo cose del tipo: «Ho un sacco da fare e ho dovuto smettere di lavorare per venire qui. Non ho tempo da perdere: se Mōcha non c’è, me ne vado. E credo che non rimetterò mai piú piede in casa vostra». E tutte le volte, quando tornavo, mia madre mi chiedeva con voce afflitta di sospendere le lezioni di piano e di calligrafia. Midorikawa era lunatico come pochi, cambiava facilmente umore e si chiudeva nel silenzio. Non era facile stargli dietro, quando si impuntava era terribile. Era un uomo molto complicato, ecco. Veniva da noi quando gli pareva, e se non gli si dava retta andava su tutte le furie. Credo fosse per questo che mia madre non ne poteva piú delle riunioni del circolo letterario. Lui era l’ospite e faceva sempre di testa sua, e in piú bisognava piegarsi a ogni suo piú piccolo desiderio per non rischiare di guastargli l’umore. Ricordo che negli ultimi anni di vita mia madre mi diceva spesso che gli scrittori sono degli esseri impossibili e, a meno che non li si ami alla follia, è meglio non averci a che fare.

Ma la cosa piú assurda in tutta questa storia è che Midorikawa riservava le sue pretese al mondo ester-no. A casa sua, infatti, si metteva al servizio della moglie e faceva di tutto per accontentarla. Ma questo l’ho saputo solo in un secondo momento, purtroppo. Da noi si comportava come un vero tiranno, voleva sempre essere al centro dell’attenzione. Gli scrittori sono piú o meno tutti cosí, o sbaglio? Yamada, l’editor, mi ha raccontato che molti facevano i gradassi in casa editrice ma con le proprie mogli abbassavano la cresta… Lei dice che Midorikawa era convinto di poter manipolare a proprio piacimento me e mia madre nello stesso identico modo? Non saprei, forse credeva di poter trattare mia madre come gli pareva solo perché lei era una sua ammiratrice. Aveva un ego smisurato e non si era accorto che con il passare degli anni la passione di mia madre nei suoi confronti era svanita.

Sí, esatto. Negli ultimi tre anni in cui ha frequentato la nostra casa, mia madre lo trattava come fosse un semplice insegnante privato. Midorikawa e io ci chiudevamo in camera mia e lei ci portava addirittura il tè e i pasticcini. Nei pochi minuti prima di lasciarci da soli, parlava con lui del piú e del meno, non si dicevano niente di particolare. In quei momenti, è ovvio, io e Midorikawa preferivamo essere prudenti e mantenere una certa distanza. Poi, non appena mia madre girava le spalle, cominciavamo a scambiarci tenerezze a volontà… Gli altri scrittori del gruppo? No, all’epoca avevano smesso già da un pezzo di venire da noi. Ormai lui era diventato il numero uno, non c’era confronto con gli altri, per cui erano tutti invidiosi. Anche se, non so per quale mistero, non ha mai vinto il premio Akutagawa. Eppure era molto stimato nell’ambiente letterario. Mah… In ogni caso, era il migliore e io sono sempre stata molto fiera di lui. Al di là di tutto, era uno scrittore impareggiabile, un vero maestro… Vuole che le dica qualcosa di piú riguardo alla mancata assegnazione di quel prestigioso riconoscimento? Be’, sono sicura che ci sarà rimasto molto male, anche se non amava parlarne. Gliel’ho detto, no? Secondo me, gli scrittori sono come un terzo occhio e sanno essere distaccati e sopra le parti, ma allo stesso tempo sono estremamente sensibili e tengono molto al giudizio altrui. Sa di cosa parlo, no? Anche per lei deve essere piú o meno cosí, o almeno credo. Midorikawa era molto fragile. Ed era attento a quello che gli altri pensavano di lui. Ecco perché sono convinta che deve aver sofferto molto per non essere mai riuscito ad aggiudicarsi quel premio. Credo che quel mancato riconoscimento gli abbia dato un tormento persino maggiore di quello che gli hanno causato la fuga da casa e il tentato suicidio di sua moglie.

Inoltre, di recente, mi è venuta in mente un’altra ipotesi. Vuoi vedere – mi sono detta – che si presentava di proposito a casa nostra nei giorni in cui avevo lezione? In effetti, non riesco a trovare altre spiegazioni, non poteva essere una semplice coincidenza. Era geloso, detestava che gli altri mi insegnassero qualcosa, voleva essere il solo ad avere un ascendente su di me. Si credeva onnipotente e voleva essere signore indiscusso del mio piccolo mondo. Sí, esatto, proprio cosí. Forse lo faceva perché ormai a casa sua una cosa del genere era impossibile. Sí, sí, in realtà ho sentito dire che anche sua moglie era stufa di lui, non riusciva piú a tollerarlo. La misura era colma e questo doveva rendere Midorikawa triste e irascibile, oltre che essere la probabile causa della forte depressione della moglie. Ecco perché si era innamorato di una bambina come me. Una bambina è solo una bambina, è un essere acerbo e innocente che non appartiene ancora a nessuno.

Quando veniva da noi, passava quasi tutto il tempo in camera mia, con il pretesto di aiutarmi a studiare. E non appena mia madre usciva dalla stanza, mi chiedeva di indossare il vestito rosso a pois che avevo il giorno del nostro primo incontro. «Mōcha, metteresti per me il tuo vestitino a pois?» mi diceva senza mezzi termini. Ma, come può immaginare, il corpo di un’adolescente di sedici anni è ben diverso da quello di una ragazzina di dieci. Quel vestito mi stava stretto, non riuscivo piú a infilarlo. E allora lui si arrabbiava e mi rimproverava: «Mōcha, perché sei cresciuta? Il tuo corpo e il tuo viso non dovevano cambiare, me lo avevi promesso!». E quando mi diceva parole del genere, mi faceva stare malissimo e temevo che non mi amasse piú. Allora cercavo di mangiare il meno possibile e mi comprimevo il seno sotto i vestiti piú che potevo, fino a sentire dolore. Ma è impossibile frenare la crescita, si sa. Il mio corpo si allungava quasi a vista d’occhio, come un bambú, e piangevo disperata tutti i giorni. Lo amavo da impazzire, e credo che anche lui mi amasse alla follia. Ma non sapevamo come fare, eravamo sull’orlo di un baratro. Andava bene finché il mio corpo era quello di una bambina. Ma dopo, anche se finalmente ero una donna e avrei potuto amarlo fino in fondo, lui non era piú disposto ad amarmi. Era o non era una grande tragedia?

Lei trova che tutto questo non fosse normale? Sí, certo, ha ragione. Da un punto di vista puramente razionale, riconosco che si trattava di qualcosa che andava oltre il comune senso del pudore e della morale. Anzi, a parlarne ora con una donna come lei, una scrittrice, devo ammettere che tutto mi sembra addirittura osceno e indecente. Una volta Midorikawa mi ha detto che il lavoro dello scrittore consiste soprattutto nel riflettere sul tema del desiderio. Non lo so, è davvero cosí? Lei che cosa ne pensa, è d’accordo? Non conosco le sue idee e il soggetto dei suoi romanzi, ma le posso garantire che quando mi capita di imbattermi in uno scrittore, una parte di me è felice e prova una gioia indescrivibile. Perché sono convinta che in fondo uno scrittore sia una persona capace di far brillare le gemme preziose che ognuno di noi porta inconsapevolmente dentro di sé. Secondo lei, signora Suzuki, anch’io posseggo ancora quelle gemme? Glielo chiedo perché ho la sensazione di averle perdute parecchio tempo fa… Quando? Non lo so di preciso. Forse all’epoca della partenza di Midorikawa per lo Hokkaidō. In altre parole, quando ho smesso di essere una ragazzina innocente. Purtroppo, quel tesoro era destinato a scomparire con il passaggio all’età adulta.

Quando ho smesso di essere una ragazzina innocente? Le confesso di non essere in grado di rispondere con precisione. Se provo a riflettere, ho l’impressione che quella piccola e graziosa bambina si sia allontanata a mia insaputa, quando lui è andato via. Lei non può immaginare quanto mi sia sentita infelice.

Parlare con lei di questa storia mi riporta alla mente anche un brutto ricordo. Finora non ho avuto il coraggio di dirglielo, ma qualcuno aveva intuito quello che succedeva tra me e Midorikawa. La seconda moglie di mio nonno, si chiamava Sumiko. Non era molto piú anziana di mia madre, e io non l’ho mai chiamata “nonna” come avrei dovuto fare. Del resto, se ci avessi provato, lei me lo avrebbe impedito. Non andava molto d’accordo con mia madre e mio zio. Quest’ultimo, il fratello minore di mia madre, aveva solo sedici anni piú di me. Lui, che all’epoca era ancora un liceale, e mia madre, una donna sola che era tornata a vivere con i genitori, dovevano apparire ai suoi occhi né piú né meno che un intralcio, due ragazzi di buona famiglia ingenui e viziati. Sumiko faceva la domestica a casa di mio nonno ed era originaria della prefettura di Nagano. Era stata assunta all’età di quindici anni per prendersi cura di mia nonna, la quale soffriva di tubercolosi. Ecco perché mia madre, che all’epoca non era ancora sposata, e mio zio, che allora frequentava la scuola media, non avevano il permesso di entrare nella sua stanza e Sumiko era la sola a occuparsene. Tra l’altro pare che mia madre, libera da impegni domestici, ne approfittasse per uscire con le amiche e darsi alla pazza gioia. Prima di morire, la nonna, colpita dalla dedizione con cui Sumiko l’aveva assistita fino all’ultimo, decise in pratica di affidarle il marito, mio nonno. Questa era perlomeno la versione della stessa Sumiko, ma non so se e quanto ci sia di vero. Io credo che il nonno avesse già avuto dei contatti fisici con lei e che la nonna se ne fosse accorta ma avesse preferito tacere. Mia madre e mio zio non la presero molto bene e per un certo periodo si rifiutarono di rivolgere la parola a Sumiko. E quest’ultima, seppure in modo velato, li biasimava per essere stati dei figli degeneri e per aver trascurato la madre. Sumiko era una donna forte e intransigente, e mia madre, cresciuta come una principessina, non era assolutamente in grado di tenerle testa. Quanto a mio nonno, si sentiva senza dubbio un po’ in colpa per aver sposato la sua giovane domestica. Questo deve aver pesato sulla sua decisione di acquistare una casa a Tōkyō per mia madre, poco dopo la guerra.

Sumiko doveva essere molto infastidita dai capricci di mia madre. Approfittando del nuovo ruolo che aveva assunto, la teneva sotto controllo e riferiva a mio nonno tutte le sue mancanze e i suoi movimenti. In quel periodo, le riunioni del circolo letterario si svolgevano già a casa nostra, e allora Sumiko si presentava di continuo a Tōkyō per controllare la situazione. Mia madre, che non sopportava il suo comportamento, la accusava di spiarla. Si sentiva limitata nella sua libertà e, anche se esasperata da quella situazione, doveva mantenere un certo controllo e stare attenta a non esagerare, perché Sumiko le portava tutti i mesi del denaro per conto di mio nonno. Prima ho detto che in fondo mia madre ha saputo godersi la vita ed è stata una donna abbastanza felice, ma questo vale al netto del suo rapporto con Sumiko. Diceva che dall’esterno sembrava una donna discreta, mite e gentile, ma che in realtà aveva un cuore malvagio, pieno di invidia e risentimento.

Se una donna del genere è riuscita a scoprire la mia relazione con Midorikawa non significa forse che aveva anche lei un terzo occhio? Del resto era particolarmente abile nell’individuare le debolezze e le pecche degli altri. Né piú né meno come voi scrittori. A forza di indagare l’animo umano, sviluppate una particolare sensibilità che vi permette di riconoscere al primo colpo le debolezze che sono all’origine di tutti i desideri. È irritante doverlo ammettere, ma forse anche Sumiko nascondeva una sensibilità da scrittore. Ora, portando questo ragionamento ai suoi estremi, non è forse possibile che il cuore di uno scrittore, come quello di Sumiko, sia colmo di invidia e risentimento? Lo stesso Midorikawa non era scevro da questo e altri difetti, solo che nel suo caso la gioia della creazione artistica li dissipava tutti in un colpo solo, come per magia. Magari le sto dando l’impressione di parlare male della sua categoria, ma secondo me i veri scrittori sono capaci di utilizzare i difetti e gli impulsi negativi in maniera costruttiva. Lei come la pensa, signora Suzuki? Il suo cuore è buio e oscuro? Allora credo che dovrebbe indagare sull’origine del desiderio e scriverne con puntigliosità, senza mai rinunciare a farlo.

Mi scusi tanto per l’ennesima divagazione, stavamo parlando di Sumiko, no? Un giorno in cui si trovava da noi, si presentò anche Midorikawa. Me lo ricordo come fosse ieri, quando la vide spalancò gli occhi sbalordito. E come poteva essere altrimenti? Come suo solito, era vestita in modo estroso, per non dire ridicolo. Mio nonno era ricco e i soldi non le mancavano, ma lei non li spendeva per l’abbigliamento, probabilmente per fare un dispetto a mia madre e a mio zio e metterli a disagio. Era come se volesse rimproverare implicitamente soprattutto mia madre, la quale sperperava una vera fortuna in kimono e abiti alla moda di foggia occidentale.

Sumiko, quel giorno, indossava un abito che si era confezionata da sola utilizzando la stoffa di un vecchio kimono. Era di un tessuto leggero e sfoderato di lana merinos, color cammello con un motivo di foglie nere. Una specie di ampia veste che scendeva dritta fin quasi alle caviglie e ricordava un grosso sacco! Lo trovavo sciatto e imbarazzante persino io, che ero solo una bambina e di solito non facevo caso a quel tipo di dettagli.

«Salve, sono Midorikawa Mikio» si presentò lui. Era inorridito, lo sguardo fisso su quel vestito a dir poco stravagante. Elegante e dandy come di consueto, sembrava non credere ai propri occhi.

«Molto piacere, io sono la matrigna di Nasako» rispose lei, alzandosi in piedi e facendo un ossequioso inchino.

Piegandosi, mise in mostra il suo generoso décolleté, fasciato in un reggiseno bianco. Mia madre distolse subito lo sguardo, mentre Midorikawa continuava a fissarla ancora piú imbarazzato di prima, gli occhi puntati sull’ampia scollatura.

«Lei è piuttosto giovane per essere una matrigna» disse abbozzando un mezzo sorriso.

«Uhm, in effetti ho solo sette anni piú di Nasako» precisò con una certa affettazione Sumiko.

Non era una grande lettrice e il nome di Midorikawa non le diceva niente. Da zotica campagnola qual era, lo squadrava da capo a piedi senza il minimo ritegno. Era l’inizio dell’estate, Midorikawa indossava dei pantaloni kaki e una camicia bianca con il colletto sbottonato. Mia madre, invece, aveva dei pantaloni alla pescatora neri, un maglioncino di cotone bianco e un piccolo foulard rosso intorno al collo… Sí, esatto, in stile Audrey Hepburn! Quando usciva, portava anche un grazioso ed elegante basco. Quanto a me, essendoci Midorikawa, indossavo il vestitino a pois che non mettevo da un po’ di tempo. Mi stava già stretto in vita ed era troppo corto, al punto che potevo competere con Sumiko per la mise piú orrenda dell’anno!

«Sumiko si è occupata di mia madre fino all’ultimo, è rimasta al suo capezzale giorno e notte» disse mia madre a Midorikawa, con un filo di voce.

Sembrava quasi che volesse lasciargli intuire la situazione della casa paterna dall’atteggiamento remissivo che aveva con quella donna. E intanto lui, biascicando un rapido «Ah, sí, capisco», non smetteva di osservare le forme di Sumiko. Era una donna minuta e magrolina ma piuttosto formosa, del genere che gli andava particolarmente a genio. In quel momento, confesso di aver provato una punta di gelosia.

«Signor Midorikawa, lei è un professore? Insegna in qualche scuola?» gli chiese a un certo punto Sumiko, incapace di contenere la curiosità.

«No, no, io sono solo l’insegnante privato di Mōcha» rispose lui in un tono faceto che suonava fuori luogo.

Trovando che fosse un po’ troppo in là con gli anni per essere un insegnante privato, Sumiko guardò con una certa diffidenza prima lui e poi mia madre. Doveva aver intuito fin da subito che c’era sotto qualcosa di sospetto, forse sulle prime aveva pensato che Midorikawa e mia madre avessero una tresca. Poi, non appena ne ebbe modo, mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: «Motoko, il tuo vestito è troppo corto, quasi ti si vedono le mutandine!».

Cosí dicendo, ne afferrò l’orlo e lo tirò con forza verso il basso. Al che le scostai la mano con un gesto brusco e cercai anch’io di tirare giú l’orlo. Ma era impossibile, il vestito era davvero troppo corto. Mi sentivo terribilmente a disagio, sarei voluta sprofondare sottoterra. Che cosa c’entravo io? Sumiko era vestita in modo molto piú bislacco e strampalato di me!

«Va’ subito a cambiarti!» mi ordinò in tono imperioso.

«Ma perché? Questo vestito mi piace molto…» risposi mettendo il broncio e lanciando uno sguardo a Midorikawa.

Lui fece finta di niente, ma quell’occhiata non sfuggí a Sumiko.

«Su, Mōcha, andiamo a fare i compiti. Oggi abbiamo matematica» mi disse poi Midorikawa, dopo un rapido occhiolino.

Mia madre si voltò verso Sumiko e le disse in tutta fretta: «Ah, scusami tanto, ma ora devo andare dall’orologiaio per ritirare il mio orologio».

«Quale orologiaio? Dove?» ribatté lei.

Allora, temendo che Sumiko volesse seguirla, mia madre rispose secca e sbrigativa: «Da Wakō, a Ginza».

L’idea di andare fino a Ginza scoraggiò Sumiko.

«Va bene, va’ pure» disse. «Io, se permetti, resto ancora un po’ qui».

«Certo, non c’è problema. Scusami, eh, a presto».

Mia madre indossò il suo adorato basco e uscí di casa correndo. Il nonno ci mandava trentamila yen tutti i mesi. Era una bella somma, considerato che eravamo nel 1952 o giú di lí. Diciamo che oggi corrisponderebbe a circa mezzo milione di yen. Mia madre aveva intascato il denaro e, mentendo a Sumiko, mi aveva affidata a Midorikawa per andare alla ricerca di qualche vestito nuovo a Ginza. Era su di giri, forse aveva messo gli occhi su uno dei soliti costosi abitini all’ultimo grido.

«Io vado a studiare» dissi a Sumiko. La salutai educatamente e mi ritirai in camera mia. Midorikawa mi raggiunse senza perdere un attimo, chiuse in fretta la porta alle sue spalle e incrociò il mio sguardo. Non appena i nostri occhi si incontrarono, ci scambiammo un risolino di complicità.

«Motoko… quasi ti si vedono le mutandine!» mi fece lui, imitando la voce di Sumiko. Dopo di che mi si avvicinò, afferrò l’orlo del vestitino a pois e lo tirò giú con violenza. A parte la scena di per sé esilarante, mi fece il solletico e scoppiai a ridere. Al che mi fece segno di stare zitta e mi appoggiò l’indice sulle labbra, prima esercitando una certa pressione e poi facendolo scorrere lungo il contorno della bocca e fino alla guancia. Grazie a Sumiko, il nuovo giochino della giornata era già cominciato.

«Ti si vedono le mutandine! Ti si vedono le mutandine!» ripeteva divertito, mentre io me ne stavo in piedi e lui mi sfiorava con dolcezza le cosce nude. Fino ad allora mi aveva mordicchiato il mignolo, aveva sfregato le sue guance contro le mie e mi aveva stretto tra le sue braccia, ma era la prima volta che mi accarezzava le cosce. Quel giorno diede prova di una certa arditezza, evidentemente era pronto a spingersi oltre. Non smetteva di bisbigliarmi all’orecchio paroline dolci, facendo scivolare pian piano la mano fino all’inguine. Continuava a ripetere quella stessa frase: «Ti si vedono le mutandine! Ti si vedono le mutandine!». A un certo punto chiusi gli occhi e, non so nemmeno io perché, divaricai un po’ le gambe. Fu un gesto istintivo, che avevo fatto con estrema naturalezza. Era inebriante, per lui come per me.

All’epoca usavo portare delle mutandine bianche di un tessuto di cotone leggero, con un elastico smerlato tutt’intorno. Le confezionava a mano una sarta nostra vicina di casa, perché quelle che vendevano nei negozi non mi andavano a genio.

«L’ho vista, l’ho vista! Che bella mutandina!» mi disse quasi esultando. Io continuai a tenere gli occhi chiusi e lo sentii inginocchiarsi ai miei piedi, percepivo il suo respiro sulle mie cosce nude. Ebbi un sussulto e mi irrigidii per un attimo, ma senza la minima intenzione di interrompere quel gioco elettrizzante. Ci eravamo completamente dimenticati della presenza di Sumiko. Le sue dita sfioravano senza posa l’elastico delle mie mutandine. La sua voce, intervallata da profondi sospiri, sussurrava: «L’ho vista, l’ho vista! Che bella mutandina!». Ed ecco che all’improvviso scostò l’elastico e infilò lentamente la mano all’interno, senza mai smettere di accarezzarmi. Le sue dita grandi e forti strisciavano sulla mia pelle nuda. Che cosa stava facendo? Non riuscivo a capirci niente. Serrai le palpebre piú che potevo e, l’istante successivo, sentii la punta di un dito raggiungere l’intimità del mio corpo. Sotto shock, mi ritrassi e mi lasciai sfuggire un gridolino. In quel momento preciso, si sentí un rumore dietro la porta scorrevole e Midorikawa si allontanò bruscamente da me. Qualcuno stava origliando. Sumiko, chi altri sennò?

«Dunque… la matematica… i compiti…» farfugliò confuso Midorikawa, con voce rauca. Afferrai la cartella come una furia e la aprii di scatto. Nel farlo, la fibbia metallica colpí il pavimento producendo un rumore secco che rimbombò in tutta la stanza. Allora si sentirono finalmente dei passi che si allontanavano lungo il corridoio. Per un pelo! Se Sumiko avesse aperto la porta, ci avrebbe colti in flagrante. Era stato un azzardo, avevamo rischiato grosso. Io e Midorikawa ci guardammo negli occhi e tirammo un lungo sospiro di sollievo.

Ma quel nuovo “giochino del giorno” cambiò in via definitiva il nostro modo di divertirci. Allora, signora Suzuki, è soddisfatta? Le giuro che non avrei mai immaginato di raccontare questa storia ad anima viva. La prego di non divulgarla, almeno finché la moglie di Midorikawa sarà in vita. Me lo promette? Se vuole, possiamo anche incrociare il mignolo.

Ah, certo, di giochini ne facevamo anche altri. A parte il “Ti si vedono le mutandine!”, c’erano per esempio “L’allieva somarella” e “L’esercizio della sigaretta”… Lui ne aveva escogitati diversi, era un maestro anche in quello… Cosa? Vuole che glieli illustri nel dettaglio? No, almeno questo me lo risparmi, per favore. Sono una donna di sessantaquattro anni, le assicuro che ho dovuto fare uno sforzo non indifferente per confidarle certi particolari. Mi sono venuti i sudori freddi, mi creda. Diciamo che erano dei giochi abbastanza… sozzi, va bene? L’atto sessuale vero e proprio? No, non ci siamo mai spinti fino a tanto. Intorno ai quindici o sedici anni, cominciai a pensare che mi sarebbe piaciuto farlo, mi sentivo pronta, e alla fine glielo chiesi, ma lui rispose che il suo scopo non era l’atto sessuale completo e rifiutò. Diciamo pure che ci siamo andati molto vicini, ma senza mai raggiungere il traguardo, ecco. Nel corso dei nostri giochini, ho scoperto il corpo maschile e ho imparato a conoscere anche il mio… Trova tutto questo insensato? Non sono d’accordo. Per me è stata un’esperienza unica, irripetibile e arricchente… Se mi sono mai sposata? No, gliel’ho detto, dopo la fine della nostra relazione – allora avevo sedici anni – non sono stata piú con nessuno, non ne avevo voglia. Midorikawa è stato l’unico e solo amore della mia vita.

Mi scusi, ritorno subito a Sumiko. Sono convinta che quel giorno sia rimasta per un bel pezzo dietro la porta della mia stanza a origliare. Chissà, forse avrà anche aperto uno spiraglio per gettare uno sguardo all’interno. Eppure, fatto strano, non ne ha mai fatto parola né con mia madre né con il nonno. Qualche mese piú tardi, mi prese in disparte e mi disse queste precise parole: «Motoko, a proposito, sei solo una bambina e fai già le cose che fanno i grandi, eh?».

Se mi avesse rimproverato e avesse spifferato tutto a mia madre o a mio nonno, sarei morta di vergogna. E invece, per quanto possa sembrare inverosimile, nel tono della sua voce c’era addirittura una nota di invidia. Lo dissi subito a Midorikawa, gli riferii per filo e per segno la frase di Sumiko. E lui, dopo averci riflettuto un momento, rispose ridacchiando: «La prossima volta, le proporremo di divertirci tutti e tre insieme!».

Rifiutai categoricamente. È normale, no? Quelli erano i nostri giochi e non volevo condividerli con nessun altro al mondo. In quel momento, confesso di essermi sentita ferita. Non riuscivo a capire come avesse potuto pensare una cosa del genere. Crescendo, col passare degli anni, iniziai a detestare tutti i maschi, sempre assetati di sesso, e in specie colui che rispondeva al nome di Midorikawa Mikio. Sí, è vero, forse nutrivo un astio particolare nei confronti degli scrittori. Ma ora, da un po’ di tempo, non è piú cosí. Io amo di nuovo il mio Midorikawa Mikio, darei qualunque cosa pur di poterlo rivedere, ma è impossibile, perché lui non è piú a questo mondo.

Vuole sapere che cosa ne è stato di Sumiko? Si è occupata di mio nonno fino all’ultimo, ha ricevuto una parte dell’eredità e ha acquistato un terreno in una zona di provincia. Viveva tranquilla e spensierata, ma un giorno un ladro si è introdotto in casa e l’ha ammazzata. Una fine assurda, non c’è che dire. Anche mia madre rimase sconvolta, apprese la notizia dalla televisione e mi telefonò all’istante. «Hai saputo?» esordí. «Sumiko è stata assassinata! Deve essere atroce morire in un modo simile…»

A essere sincera, la morte di Sumiko mi spinse a riflettere e mi fece sprofondare in uno stato di inquietudine. Midorikawa, dopo il trasferimento in Hokkaidō, ha scritto il suo capolavoro intitolato L’innocente ed è diventato molto famoso, no? A quel punto anche Sumiko, che di romanzi e letteratura non capiva niente, prima o poi avrebbe notato il suo nome da qualche parte e avrebbe potuto avere voglia di divulgare la nostra relazione parlandone in pubblico o addirittura lasciando una traccia scritta. Il solo pensiero mi metteva i brividi, ero terrorizzata. Ma nello stesso momento capii anche un’altra cosa: Midorikawa aveva un’intelligenza diabolica. Se Sumiko fosse diventata una nostra “compagna di giochi”, non avrebbe piú potuto rivelare niente a nessuno. Ecco perché, tra il serio e il faceto, quella volta lui aveva accennato all’ipotesi che potesse unirsi a noi. Sono convinta che volesse farne una nostra complice. Era un calcolatore, soprattutto in fatto di seduzione.

Ha un’altra domanda da farmi? Prego, la ascolto. La biblioteca sta per chiudere, non abbiamo molto tempo. Lo sente il campanello? Significa che per oggi il servizio di prestito è terminato. Guardi, stanno spegnendo i computer. Quando lavoravo qui, i computer non esistevano ancora, si annotava tutto sulle schede cartacee. Poi, nel giro di un paio di anni o poco piú, hanno iniziato a dire che se non eri in grado di usare il pc eri un incapace. Roba da matti, eh? È stato pressappoco da quel momento che la gente ha cominciato a leggere sempre meno. A mio avviso, la diffusione dei computer è una delle principali cause della disaffezione nei confronti della lettura. Glielo dice Mōcha, l’amante del grande scrittore Midorikawa Mikio.

Ah, mi sta chiedendo quando ho avuto la sensazione definitiva di non essere piú una ragazzina, giusto? È una domanda difficile. Come ho accennato in precedenza, da un certo periodo in poi l’interesse di Midorikawa nei miei confronti è andato scemando, al pari dei nostri incontri… Come mai? Be’, forse perché io insistevo a voler fare l’amore come due persone adulte. Non ricordo le parole esatte, ma devo avergli detto qualcosa tipo: «Voglio essere tua fino in fondo, facciamo l’amore». Lui impallidí all’istante, questo non potrò mai dimenticarmelo. Non voleva, gli si leggeva negli occhi che era addirittura contrariato dalla mia richiesta… Io? Il problema era che non provavo il minimo interesse per i ragazzi della mia età, e allora ho lasciato che la mia giovinezza andasse alla deriva, ero lí che fluttuavo in un mare di languida tristezza. Mia madre mi domandava di continuo perché non uscissi con i ragazzi, era diventato un vero e proprio tormento, ma io non sapevo cosa dirle, per me era impossibile, non ne avevo voglia. Ecco perché posso affermare che l’unico amore di tutta la mia vita è stato Midorikawa Mikio… L’innocente? È ovvio, quando l’ho letto sono rimasta scioccata. Può immaginare cosa ho provato quando ho saputo di non essere la sola e che aveva altre donne, no? Altre donne con le quali faceva l’amore sul serio, mentre con me si accontentava di giocare, rovinandomi la vita. Stando a quanto si legge in quel romanzo, le condizioni mentali della moglie erano penose. Spesso quella donna si lasciava andare a reazioni furiose, ma d’altra parte ci sarebbe un bel po’ da discutere sul loro rapporto. Che razza di coppia era la loro? Perché stavano insieme? Avrei una montagna di cose da dire su questo argomento. Comunque sia, al giorno d’oggi la mia storia con Midorikawa sarebbe trattata come un caso di molestie sessuali e ne verrebbe fuori uno di quegli scandali da sbattere in prima pagina. Difatti era un crimine bello e buono, solo che io allora non ne ero consapevole, perché ero una bambina.

L’amore? Ma certo che c’era. Gliel’ho detto, ci amavamo alla follia… Sí, signora Suzuki, è proprio cosí: quando c’è l’amore, non si può parlare di crimine, mai. Ma lei cosa ne pensa di tutta questa storia? Che idea si è fatta? Crede che io sia stata solo una bambolina, un giocattolo? No, non è cosí, glielo assicuro.

3

Suzuki Tamaki chiuse il quaderno degli appunti e guardò negli occhi Mōcha, ossia Ishikawa Motoko. A sessantaquattro anni, incorniciato dai capelli bianchi tagliati a caschetto, il suo viso appariva incredibilmente giovane. Aveva una pelle luminosa, le guance rosee e neanche l’ombra di una ruga intorno agli occhi. Perché non si tingeva i capelli? Era impossibile non chiederselo, sarebbe potuta sembrare ancora piú giovane. Il contrasto tra la capigliatura e il viso era notevole, se non addirittura anomalo. Con i capelli neri avrebbe avuto l’aspetto di una quarantenne, se non addirittura di una trentenne. Nel pensarlo, Tamaki si sentí percorrere da un brivido di terrore e le venne quasi voglia di alzarsi in piedi e scappare. Forse Motoko non si tingeva i capelli di proposito, per non nascondere la sua vera età. Ma la freschezza dei suoi lineamenti era quanto mai evidente e aveva un che di miracoloso. Quel viso da eterna ragazza era bello e irreale, tanto da far pensare che fosse un essere venuto da un altro mondo. Peccato che Midorikawa non potesse vederlo, lui che aveva la “mania del viso”. Lo avrebbe molto apprezzato, anche se la sua Mōcha era diventata un’anziana signora di sessantaquattro anni. Intanto Motoko, senza fare caso alla perplessità di Tamaki, intonava in tutta nonchalance un motivetto a bocca chiusa, gli occhi persi nel vuoto.

«Mi scusi se oso chiederglielo…» disse di colpo Tamaki, desiderosa di riprendere il discorso. Al che Motoko la guardò con aria serena e gioiosa. I suoi occhi trasmettevano un senso di fiducia, eppure, per quanto provasse a riflettere, Tamaki non era in grado di comprendere la natura del rapporto che si era instaurato tra lei e Midorikawa. «Lei sostiene che nell’Innocente non ci sia nulla che la riguardi, no? Ma questo non le ha creato uno shock? Non si è sentita messa da parte?»

«No, in fondo si tratta solo di un romanzo, è pura finzione. Lei è una scrittrice, dovrebbe sapere piú di chiunque altro che la realtà e la finzione sono due cose ben distinte e separate».

Il tono della voce di Motoko suonava calmo e distaccato, nonostante poco prima avesse detto, con chiara indignazione: «…ci sarebbe un bel po’ da discutere sul loro rapporto. Che razza di coppia era la loro? Perché stavano insieme? Avrei una montagna di cose da dire su questo argomento».

«E allora chi è la donna di cui si parla nel romanzo? Ero convinta che fosse lei, e invece mi dice che non è cosí… L’esistenza di un’amante, la follia della moglie e tutto il resto sarebbero solo frutto di pura finzione?»

Motoko, forse preoccupata dall’agitazione dei bibliotecari che si preparavano ad andare via, pareva insofferente. Aggrottò le sopracciglia, un reticolo di rughe le si formò agli angoli degli occhi e, per un breve istante, il suo viso tradí la sua vera età.

«Tutto quello che le ho raccontato non è che la verità. Gliel’ho detto all’inizio, no? Sulle prime la moglie di Midorikawa, credendo che mia madre fosse l’amante del marito, tentò di aggredirci con un coltello da cucina. Fu solo allora che capí di essersi sbagliata, difatti non tentò mai piú di avvicinarsi a noi. Era una donna fatta in un certo modo, amava il marito alla follia ed era molto gelosa. Ma non avrebbe mai immaginato che lui avesse una storia con me, una bambina, e in ogni caso la donna descritta nel romanzo non sono io. Midorikawa condivideva con me un segreto che non poteva svelare neanche nelle pagine di un romanzo».

Motoko sorrideva soddisfatta, ma Tamaki pensava che non esiste segreto che non trovi spazio in un romanzo. Uno scrittore finisce sempre col rivelare i propri segreti nelle sue opere. Se Midorikawa non aveva scritto niente sulla storia che Motoko aveva raccontato, allora forse quel segreto non esisteva. Era mai possibile che Motoko si fosse inventata tutto? Tamaki era perplessa, non sapeva piú cosa pensare. D’altra parte non aveva prove né modo di appurare la verità.

«Ora devo andare» disse Motoko alzandosi in piedi. «I miei gatti mi stanno aspettando».

Tuttavia Tamaki non era disposta a rassegnarsi. Motoko non poteva offrirle la chiave per risolvere il mistero, ma doveva pur esserci qualcuno in grado di aiutarla.

«Aspetti un attimo, la prego» insisté. «Midorikawa frequentava qualcun’altra a parte lei? Me lo dica, per favore».

Tamaki voleva scoprire a tutti i costi chi era X. Nell’Innocente compariva soltanto quella lettera, non si conoscevano né il nome né la professione di quella donna, né tanto meno che genere di persona fosse. Eppure X si presentava in piú di un’occasione a casa dello scrittore, litigava con la moglie, Chiyoko, e la sua presenza costituiva una reale e continua minaccia. Per quanto si sforzasse di riflettere, Tamaki non riusciva a raccapezzarsi. Midorikawa l’aveva fatta sparire tra le pagine del suo romanzo. Aveva scritto di lei chiamandola semplicemente X e poi l’aveva cancellata dal mondo. Cosa ne era stato di quella donna? Chi era? Che cosa faceva? Dove viveva? Aveva provato sollievo quando aveva saputo che il rapporto tra Midorikawa e la moglie ne era uscito devastato? Oppure la violenta gelosia di Chiyoko le era parsa ridicola e insensata, tanto da trasmetterle solo un senso di vuoto? In seguito erano comparse in giro diverse fotografie di Motoko, da sola o in compagnia di Midorikawa, ma nessuno sapeva chi fosse e se avesse avuto sul serio una storia con lo scrittore. E ancora meno si sapeva di X, una donna senza volto e senza nome diventata famosa grazie al romanzo ma evanescente come un fantasma.

«Non so niente, mi dispiace!»

Motoko agitò una mano in segno di saluto e si avviò giú per le scale con inaspettata fretta. Tamaki tentò di seguirla, ma si fermò dopo pochi passi, frenata dalla sua reazione stizzita. Sospirò e la guardò allontanarsi. Era in un vicolo cieco, non sapeva piú come proseguire le ricerche.

Motoko aveva delineato il ritratto di un Midorikawa Mikio estremamente egocentrico. Dopo il colpo di fulmine per la graziosa e incantevole Mōcha, aveva piantato le tende in casa sua e si era divertito con lei per ben sei anni. Poi, quando la bambina era cresciuta, si era stufato e l’aveva abbandonata. Non erano mai arrivati all’atto sessuale completo, ma i loro giochi erotici avevano esasperato il desiderio della ragazzina e l’avevano imprigionata nella sua verginità. Oggigiorno, un comportamento del genere sarebbe considerato senza ombra di dubbio un reato grave, eppure nel tono e nell’atteggiamento di Motoko c’erano ancora molto rispetto e amore nei confronti di quell’uomo. Ma che cosa ne era stato di X? Era ancora viva? In tal caso, Tamaki voleva incontrarla a ogni costo. Non poteva evitare di sentirsi attratta dalle donne che avevano circondato il grande romanziere Midorikawa Mikio. L’innocente l’aveva stregata.

Tamaki prese il libro dallo scaffale. Nel colophon era indicato l’anno della prima edizione: 1973. Il romanzo era ambientato nella prima metà degli anni Cinquanta e descriveva il dramma di Chiyoko, la moglie dell’autore, in seguito alla scoperta di una storia adulterina del marito, e i vari eventi che l’avevano condotta sul baratro della follia. La crudezza aberrante del racconto aveva riempito i lettori di stupore. Come era possibile scrivere con tanta spudoratezza della propria consorte e della propria famiglia? Non si poteva escludere che il romanzo fosse frutto dell’immaginazione dell’autore, eppure, a cominciare dal fatto che la moglie compariva con il suo vero nome, era facile credere che si trattasse di una storia autobiografica, il che aveva provocato una ferita profonda e insanabile nei familiari. Midorikawa non si era premurato di tutelarli, dando forse per scontato che i suoi familiari dovessero accettare con rassegnazione di veder messa a nudo la loro vita in un romanzo.

Da una parte, Tamaki provava un’attrazione irresistibile per quel romanzo, ma dall’altra sentiva una forte repulsione per la sua estrema schiettezza e per la cieca parzialità. Tuttavia la sua avversione non era diretta all’autore, bensí al romanzo in sé. Midorikawa doveva avere avuto i suoi buoni motivi per scriverlo. Le sue pagine andavano oltre la finzione e risucchiavano i personaggi uno dopo l’altro in un gorgo oscuro, come fossero delle vittime sacrificali.

Tamaki provò a rileggerne l’inizio.

Quel giorno mi trovavo a Kanda e mi balenò nella mente l’idea di ordinare un nuovo sigillo personale. Mi fermai davanti alla vetrina di un negozio specializzato, attratto dai numerosi pezzi esposti con straordinaria cura. Quelli che rispondevano ai miei gusti, adagiati come preziosi cimeli da museo in piccoli scrigni foderati di tessuto, erano uno piú bello dell’altro e molto costosi. Eppure non riuscivo a distogliere lo sguardo da tanta magnificenza artigianale.

Ero lí perché dovevo restituire delle bozze alla casa editrice, Kawakura shobō, ma l’editor T. che si era momentaneamente assentato non era piú tornato, lasciandomi alquanto contrariato. Lo aveva fatto apposta o era solo una casualità? Gli avevo spedito un telegramma per avvertirlo che sarei passato nel pomeriggio ed ero sicuro di trovarlo nel suo ufficio. Lo avevo aspettato per quasi un’ora, seduto sul divano in un angolo della redazione, dove una giovane impiegata mi aveva servito piú volte il tè con aria desolata. Alla fine mi ero rassegnato ed ero andato via.

Volevo chiedere a T. un’opinione sul mio manoscritto, e la sua assenza mi aveva gettato in uno stato di totale sconforto. Inoltre avevo da poco saputo che il mio amico K. era stato selezionato tra i finalisti del premio Akutagawa ed ero già per questo molto avvilito. Mi chiedevo se valesse la pena continuare a scrivere, cosí, senza mai ottenere un riconoscimento di prestigio. Se K. avesse ricevuto il premio, sarebbe stato il secondo scrittore della cerchia di Shusui a vedersi assegnare un simile riconoscimento. La fama della nostra rivista cresceva giorno dopo giorno, avrei dovuto esserne felice, ma devo ammettere che non ne ero affatto rallegrato.

Ero immobile davanti alla vetrina del negozio, come pietrificato, al punto che il proprietario avanzò verso l’ingresso e mi fece un cenno con la mano. Allora mi scossi dal mio torpore e mi sentii obbligato a entrare.

«Che ne pensa di questa?» mi chiese l’uomo, mostrandomi una pietra grigia con delle stupende striature rosse, grande a occhio e croce quanto un pollice. «È una pietra cinese molto rara» aggiunse esibendo un ampio sorriso. Gli chiesi il prezzo e non riuscii a non sgranare gli occhi per lo stupore quando lo sentii rispondere: «Diecimila yen». Stavo per voltargli le spalle, ma alla fine esitai. Posai gli occhi su un altro espositore e mi domandai se non fosse il caso di abbassare le pretese e indirizzare il mio interesse verso un sigillo in legno di bosso. Al che l’uomo, dopo avermi scrutato in volto, mi mostrò di nuovo la pietra grigia e rossa e disse: «Gliela cedo a metà prezzo, cinquemila yen». Reputando strano che avesse ribassato la richiesta tutto d’un colpo, feci una controproposta: «Duemila yen e la prendo». Mi disse che andava bene senza batter ciglio e mi ritrovai a dover dare il definitivo assenso all’ordinazione del sigillo. Prima, però, ci tenne a precisare che una pietra del genere andava affidata a un esperto incisore e che il prezzo sarebbe ammontato in totale a cinquemila yen. Ormai non me la sentivo di tornare sui miei passi, anche se di colpo mi parve di percepire il respiro incollerito di mia moglie Chiyoko sulle spalle ed ebbi un piccolo sussulto. Era troppo tardi, accettai e firmai la commessa. Il venditore mi disse di tornare dopo tre settimane per ritirare il sigillo e gli diedi come anticipo tutto il denaro che avevo in tasca.

Chiyoko sarebbe andata su tutte le furie e mi avrebbe accusato di gettare i soldi dalla finestra. Tormentato da quel pensiero, gironzolai distrattamente per il mercatino dalle parti della stazione e rincasai tardi. Erano le sei passate. L’appartamento era immerso nell’oscurità. Dove poteva essere andata mia moglie a quell’ora? Non era in casa? Il sangue mi salí al cervello. Nella penombra dell’ingresso, vidi Takako e Michiko che giocherellavano con i geta sedute sul pavimento di cemento. «Lasciate stare quei geta, bambine. Sono sporchi!» dissi loro ad alta voce, prendendo Michiko in braccio e Takako per mano ed entrando in casa. Accesi la luce e andai in giro invano alla ricerca di Chiyoko. Alla fine, sollevato alla vista di Yōhei che dormiva beato nella sua culla, mi diressi nel mio studio e accesi la luce anche lí. Non riuscii a trattenere un urlo: Chiyoko era distesa supina sui tatami! Il mio diario personale aperto e appoggiato sul viso.

«Che ti è successo?» le chiesi.

Ero sconvolto, ma riuscii lo stesso ad articolare quelle parole con relativa calma. Dal momento che non mi rispondeva, sulle prime pensai che fosse morta. Mi inginocchiai al suo fianco, sollevai il diario e vidi un fiume di lacrime scorrere dai suoi occhi spalancati. Indietreggiai per lo spavento. In passato, sul campo di battaglia, mi era capitato di vedere in piú di un’occasione dei soldati senza vita con gli occhi sgranati nel vuoto. Quelle immagini lugubri mi affiorarono di colpo alla mente.

«Mi hai fatto spaventare. Pensavo fossi morta!»

«È come se lo fossi!» ribatté lei, prima di scoppiare in un pianto irrefrenabile. Poi si alzò in piedi di scatto e mi mollò uno schiaffo a mano aperta. «Maledetto! Maledetto!» urlò. «Mi fai schifo, ti odio!»

E subito dopo aprí il diario alla pagina in cui parlavo di quando avevo accompagnato X dal ginecologo e me la mostrò con fare sprezzante. Me l’ero voluta io, mi aveva scoperto. Che idiota, scrivere quell’episodio nel mio diario! E dire che avevo anche pensato che avrebbe potuto capitarle tra le mani. Solo che poi mi ero convinto che non lo avrebbe mai letto di nascosto, che non avrebbe mai osato fare una cosa del genere. Era tutta colpa mia, l’avevo sottovalutata, e soprattutto non avevo considerato che noi esseri umani siamo capaci di fare qualunque cosa per gelosia. O forse, nel suo caso, era piú giusto parlare di un amore che sconfinava nella pura follia?

«Vuoi lasciarmi per andare a vivere con lei, non è vero?»

«Ma cosa dici? Ti assicuro che ti sbagli».

«Ah, mi sbaglio? E allora perché hai scritto queste cose? Guarda qui! Non puoi negare!»

Non c’era bisogno che mi mostrasse ciò che avevo scritto, conoscevo fin troppo bene il contenuto di quel diario. Ma lei, umettandosi di continuo la punta dell’indice, sfogliava con fare isterico le pagine alla ricerca dei passaggi incriminati.

«Ecco, leggi!» mi disse in tono imperativo, gli occhi fuori dalle orbite.

Era il brano in cui descrivevo i momenti dopo l’aborto, quando stringevo la mano di X e le dicevo all’orecchio, mentre se ne stava a testa bassa in silenzio: «Non preoccuparti, un giorno vivremo insieme felici, te lo prometto».

Il dito sottile e screpolato di Chiyoko puntava quel rigo senza la minima titubanza.

«Allora? Mi sbagliavo, forse? Non le hai dette tu queste parole? Rispondi!» insisté.

«Sí, le ho dette, ma è solo quello che pensavo in quel momento» risposi di getto.

Era la verità. Ma lei non mi credette e si aggrappò disperatamente a me piangendo a dirotto.

«Non basta per giustificare quello che hai fatto! È terribile, anche se lo hai detto una sola volta. Non ti perdonerò mai! E io che come una stupida mi fidavo di te… Che ne sarà di me?!»

Continuava a stringermi con tutte le sue forze. Un bottone della camicia saltò via e sentii la sua mano afferrarmi la canottiera come se volesse strapparmela di dosso. Allora le strinsi il polso e la allontanai con una spinta.

«Smettila, mi laceri i vestiti!» urlai con rabbia, senza pensare a quello che dicevo.

«Me ne frego dei tuoi vestiti!» ribatté lei tra i denti, scagliandosi di nuovo contro di me. Ci spingemmo e ci colpimmo a vicenda. Infuriato perché tentava di graffiarmi la faccia con le unghie, le diedi una manata sul petto, senza metterci chissà quale forza. Ma lei barcollò piú di quanto mi aspettassi e finí per urtare con il fianco contro lo spigolo del comò, cadendo per terra all’indietro. Poi si girò da un lato e scoppiò in un pianto dirotto, esasperato. In quel momento sentii delle urla alle mie spalle, mi voltai e vidi Takako e Michiko in piedi sulla soglia della stanza, in lacrime.

È l’inferno, pensai. Ma non era che l’inizio. A partire da quella sera, si scatenò tra noi una guerra assurda e senza fine. Diciamo pure che la nostra era una relazione di amore e odio, tanto per facilitare la comprensione delle cose. Lei mi amava, d’accordo, e perciò era gelosa, ma i suoi sentimenti si spingevano al di là di ogni limite umano. In quel momento mi apparve come una bestia ferita che urlava di dolore. Era agghiacciante. E io, un uomo che aveva offeso la dignità della moglie ed era incapace di curare la sua ferita aperta, ero condannato a sperare in eterno che il suo stato d’animo non peggiorasse.

Tutte le volte che Tamaki rileggeva quel brano, le ritornava alla mente Seiji. È solo quello che pensavo in quel momento… Era il suo motto! Quasi che L’innocente fosse il suo libro prediletto e quella la sua frase preferita. Come dire che le parole d’amore che le aveva ripetuto infinite volte restavano solo parole e che nella loro relazione non c’era spazio per le promesse e i giuramenti. È solo quello che pensavo in quel momento Dopotutto in quella frase era racchiusa la vera natura della loro storia d’amore. L’amore che non resisteva al tempo e smarriva in segreto la sua forza originaria. L’amore che si corrompeva, per dirla in termini piú crudi. Le tensioni, i desideri frustrati lungamente accumulati finivano per esplodere in un sol colpo. E dopo l’esplosione finale, che li aveva proiettati l’uno lontano dall’altra, si erano guardati intorno e avevano scoperto di essere ciascuno in una landa isolata e completamente diversa.

4

Alcuni giorni piú tardi, l’editor Nakagusuku Yōichi incontrò Tamaki per discutere del suo romanzo. Le disse che Saitō aveva avuto un contrattempo e lui aveva ricevuto l’incarico di sostituirlo. Tamaki gli riferí l’esito delle ricerche su Motoko. Nakagusuku la ascoltava con grande interesse, mentre prendeva appunti sul suo bloc-notes.

«Da quello che mi ha raccontato, mi sembra la classica nonnina terribile» commentò il giovane editor. Se avesse visto Motoko di persona, l’avrebbe mai chiamata “nonnina”? Tamaki rimase per qualche attimo meditabonda.

«Non so nemmeno se e in quale misura la storia che mi ha raccontato Motoko corrisponda al vero» disse dopo qualche secondo. «Sono molto confusa, non so piú cosa fare».

«Questo significa che si trova in un’impasse e non riesce a scrivere?»

«Temo proprio di sí».

Tamaki si portò piano alle labbra il suo caffè bollente, attenta a non scottarsi. Si erano dati appuntamento allo Shibuya Mark City, da Starbucks. A Tamaki quel posto non piaceva piú di tanto, era sempre affollato e non si sentiva a suo agio, ma siccome Nakagusuku aveva detto di non avere molto tempo a disposizione, avevano trovato un compromesso e avevano deciso di incontrarsi all’interno dell’edificio della stazione.

«Io sto cercando di mettermi in contatto con le persone che in un modo o nell’altro avevano a che fare con la rivista di Midorikawa, ovviamente quelle che sono ancora in vita, ma nessuno sembra disposto ad aprire bocca» disse Nakagusuku in tutta calma. «È come se intorno all’Innocente fosse stato eretto un muro, come se quel romanzo fosse un tabú, ecco». Poi fece una pausa e aggiunse: «A proposito, posso farle una domanda? Riguarda Abe Seiji, del quale come ricorderà abbiamo parlato la volta scorsa… Perché quella lettera di minacce l’ha turbata cosí tanto?».

Tamaki non sapeva cosa rispondere, era in seria difficoltà. A dire il vero, non le andava giú di dovergli dare delle spiegazioni. Aveva vent’anni meno di lei, era giovane, e avrebbe voluto che si sforzasse di far lavorare un po’ di piú l’immaginazione. Una lettera anonima piena di ostilità era di per sé sconvolgente, non c’era bisogno di aggiungere altro. Non poter associare un volto a chi ti ha scritto certe cattiverie crea un’angoscia indescrivibile, ti allarma al punto che la sera hai paura di camminare per strada da solo.

Quella lettera, scritta su due fogli, diceva piú o meno cosí: «Il 20 marzo, all’una e quaranta del mattino, ero al volante della mia auto quando sono stato testimone di una lite. A ben vedere, una delle persone coinvolte aveva un viso che non mi era nuovo: quella persona era Suzuki Tamaki! Come era possibile che una scrittrice del suo calibro si lasciasse coinvolgere in una volgare lite per strada e si comportasse in modo cosí violento? Non volevo crederci, ma purtroppo non c’erano dubbi, quella donna era proprio lei! Sono un suo grande fan, ho letto tutti i suoi libri, ma lo shock è stato enorme e credo che d’ora in poi mi impegnerò in un’opera di boicottaggio nei suoi confronti. Non posso evitarlo, mi dispiace, è stata lei a costringermi».

La lettera era firmata: «Un ammiratore notturno dall’occhio infallibile».

A spaventare Tamaki, piú del contenuto stesso della missiva, era il fatto che la lettera era stata infilata direttamente nella cassetta per la posta affissa alla porta d’ingresso, durante la notte. L’aveva sentita cadere sul fondo della buca metallica e aveva udito distintamente anche la voce di Seiji.

«Cosa? Ha sentito davvero la sua voce?» le chiese con aria allarmata Nakagusuku.

Dal tono di voce era evidente che dubitasse delle sue parole. Gli uomini sono diffidenti e sospettosi per natura. Ma Tamaki aveva detto la pura verità.

Quella sera, siccome l’indomani mattina presto aveva appuntamento dal parrucchiere, era andata a letto prima del solito. Due giorni dopo aveva in programma di partire per Francoforte in occasione della Fiera internazionale del libro, in compagnia di alcuni pezzi grossi della casa editrice per la quale lavorava Seiji. Dalla sua camera da letto che era vicina all’ingresso, al piano terra della villetta unifamiliare in legno dove abitava con il marito e il figlio, aveva sentito chiaramente dei rumori che provenivano dalla cassetta della posta. Tutte le mattine all’alba, precisamente alle quattro e mezza, veniva svegliata dalla consegna dell’edizione mattutina del giornale che veniva lasciata cadere nella buca.

Quella notte, le era sembrato di sentire la voce di Seiji tra la veglia e il sonno. Era passato piú di un mese dal loro litigio, e nel dormiveglia aveva pensato: “Che cosa ci fa qui?”. Seiji bisbigliava a qualcuno: «Fa’ presto, mettila dentro e andiamo via!». In un tono pressante, come se si rivolgesse a un suo sottoposto. Poi Tamaki aveva sentito qualcosa cadere sul fondo della buca della posta e aveva gettato un’occhiata all’orologio sul comodino, anche perché aveva pensato che fosse troppo presto per il giornale del mattino. E in effetti erano ancora le due e mezza.

L’indomani mattina, completamente dimentica dell’accaduto, era andata a prendere come sempre il giornale dalla buca. E sul fondo aveva trovato una busta marrone chiaro di medie dimensioni. In quel momento non le era ancora tornato alla mente di aver sentito la voce di Seiji nella notte e il rumore che proveniva dalla buca delle lettere. Eppure, non appena aveva stretto in mano quella busta, aveva avuto un brutto presentimento. Le linee rosse ondeggianti e i timbri nella parte superiore sembravano suggerire che si trattava di una lettera espresso. C’erano anche diversi francobolli. Ma Tamaki aveva avuto la netta sensazione che il proprio nome, scritto con una certa energia a penna nera, avesse un che di sinistro. La grafia risultava al tempo stesso accurata e leziosa, come se appartenesse a una persona di una certa età. Sul retro della busta c’erano scritti il nome e l’indirizzo incompleto del mittente, evidentemente falsi: «Suzumura Tamao, Setagaya, Tōkyō». Tamaki aveva capito al volo che quel nome non era altro che una sorta di variante canzonatoria del proprio. Di colpo le era venuta la pelle d’oca e le mani avevano cominciato a tremarle. Era tornata di corsa nella sua stanza, aveva aperto con cura la busta con le forbici e aveva estratto il contenuto: due fogli di carta da lettera scritti al computer. A ben vedere, i francobolli incollati sulla busta erano usati ed era fin troppo chiaro che quella lettera non fosse stata inviata per posta.

Allora Tamaki aveva telefonato a un editor con il quale era in ottimi rapporti, il cui primo commento era stato: «Non è che per caso l’ha scritta Abe?». Tamaki era caduta dalle nuvole, non le era passato neanche per l’anticamera del cervello che Seiji potesse spingersi fino a tanto. Quella mattina, dal parrucchiere, era molto tesa e pensosa. All’improvviso si era ricordata della voce nella notte e per poco non aveva lanciato un urlo. E poi, a ben rifletterci, il contenuto della lettera era del tutto artificioso. Tanto per cominciare, il luogo dove lei e Seiji avevano battibeccato non era facilmente individuabile dalla carreggiata stradale. E, piú o meno per lo stesso motivo, era alquanto improbabile che qualcuno avesse potuto riconoscere il suo viso in piena notte, per giunta da un’auto in corsa. Senza contare che un semplice ammiratore non poteva conoscere il suo indirizzo privato. E in ogni caso, quand’anche fosse riuscito a procurarselo, si sarebbe azzardato a scrivere una lettera del genere rischiando di incorrere in problemi di natura legale?

Tutto considerato, era molto piú verosimile che si trattasse di uno stratagemma messo a punto da Seiji. Prima di tutto, per la natura stessa del suo lavoro, gli capitava con una certa frequenza di avere a che fare con reclami e lettere di protesta. Era abituato ai commenti insidiosi e di cattivo gusto e sapeva bene come scrivere una lettera anonima. Inoltre conosceva l’indirizzo di Tamaki e le sue abitudini di vita, cosí come sapeva che era in partenza per la Germania insieme ad alcuni suoi colleghi. E sapeva anche che Tamaki detestava quel genere di lettere che avevano il potere di intimorirla. Seiji era il sospettato numero uno, non c’erano dubbi.

Tamaki era rimasta colpita soprattutto dall’odio profondo che scaturiva da quella missiva. Mentre la rileggeva, era come se sentisse una voce lontana e minacciosa che ripeteva: “Maledetta, maledetta, maledetta! Ti odio, ti odio, ti odio!”. E la voce era quella di Seiji che dava sfogo ai suoi sentimenti. Perché lui era convinto che fosse tutta colpa di Tamaki se la sua famiglia era andata allo sfascio e se la sua reputazione in ambito lavorativo era stata danneggiata. Si odiavano, il rapporto si era deteriorato ed era finito con una grande esplosione… Boom!

Tuttavia, se davvero era stato Seiji a scrivere quella lettera, significava che il suo odio nei confronti di Tamaki era ben superiore a quello che lei provava per lui. Chissà da quanto covava vendetta, deciso a fargliela pagare per aver distrutto la sua famiglia. Tamaki non avrebbe mai immaginato che potesse concepire quel genere di vile ritorsione, lui che aveva confessato in piú di un’occasione di amarla piú di ogni altra cosa al mondo e di voler vivere insieme a lei per sempre. Aveva preferito sopprimere il suo passato con lei in un colpo solo. Cosí come Midorikawa Mikio, dopo che Chiyoko aveva scoperto la sua relazione segreta leggendo il diario, aveva negato l’esistenza stessa di X.

«Perché mi fai una domanda del genere? Che senso ha?» chiese Tamaki a Nakagusuku.

«Che senso ha cosa?» ribatté lui perplesso, corrugando la fronte.

«Ricevere una lettera di minacce è pesante, intollerabile. Non c’è niente da aggiungere, mi sembra naturale restare turbati».

«Ah, questo è certo» concordò Nakagusuku. «Ma se capitasse a me, non la vedrei per forza in maniera negativa, nel senso che una lettera del genere potrebbe anche rivelare che la persona che l’ha scritta nutre ancora un certo interesse e dei sentimenti nei miei confronti».

Quell’affermazione inattesa lasciò Tamaki pensierosa. Lei, in quella missiva, aveva percepito solo odio e nient’altro. Si era forse sbagliata? I fatti stavano diversamente?

«A proposito, come è andato il suo recente incontro con Abe Seiji, al quale ha fatto cenno la volta scorsa?» le chiese a bruciapelo Nakagusuku.

Tamaki abbandonò il suo flusso di pensieri e tornò alla realtà, andando subito con la mente a quel giorno.

Il giorno del suo nuovo incontro con Seiji… In quell’occasione, di colpo la conversazione si era spostata dalla famosa “lettera di minacce” a una sorta di interrogatorio durante il quale Tamaki aveva rivolto a Seiji una lunga serie di domande sul suo comportamento dopo la fine della loro storia.

«Allora? Potresti dirmi chi firmò la lettera di scuse?» gli aveva chiesto prima di tutto. «Credo di aver diritto a delle spiegazioni, anche se è passato un bel po’ di tempo».

Tamaki aveva preteso delle scuse scritte dopo la decisione di Seiji di non occuparsi piú dell’editing del romanzo che stava scrivendo in quel periodo. Quella lettera, arrivata con diversi mesi di ritardo, aveva qualcosa di decisamente anomalo. Il suo indirizzo sulla busta e quello del mittente erano stati scritti con un pennello da calligrafia da un vero professionista. Sembrava una formale lettera di invito a una cerimonia. Il contenuto non esprimeva il minimo rammarico per l’accaduto, né tanto meno c’era traccia di scuse: si trattava di un mero elenco di fatti e constatazioni. E il peggio del peggio era la firma in calce. La grafia non era quella di Seiji, che Tamaki conosceva molto bene: il suo nome sembrava essere stato scritto da qualcun altro, era evidente, a meno che Seiji non lo avesse tracciato con la mano sinistra. In tal caso, sarebbe stato poco rispettoso e sgradevole.

«Quella lettera l’ho scritta io» aveva confessato alla fine Seiji, ridendo imbarazzato.

Allora Tamaki si era resa conto una volta di piú che lui si riteneva incolpevole, da vero irresponsabile e immaturo. Con quella sua confessione era come se avesse voluto mettere per sempre una pietra sopra all’accaduto, quasi a voler dire che tutto apparteneva al passato.

«Sí, d’accordo, ma la firma l’ha messa qualcun altro, no? Non era la tua grafia. La cosa mi ha sorpreso e mi sono chiesta chi potesse essere stato, tutto qui».

«No, no, ti garantisco che anche la firma è mia. L’ho fatta male di proposito… Sai, tutti insistevano perché mi scusassi, non ne potevo piú, era diventato un vero tormento».

Tipico di Seiji. In effetti, un comportamento del genere era pienamente in linea con il suo carattere vendicativo. I suoi superiori glielo avevano imposto, e allora lui si era sentito obbligato a scrivere quella lettera di scuse, ma a modo suo, riversando su Tamaki la propria frustrazione e facendo il possibile per provocare in lei un senso di fastidio. Era come farle pervenire un documento di origine incerta o una lettera anonima, cosí da metterle ansia. Lo aveva fatto per ferirla e turbarla. A poco a poco, Tamaki aveva cominciato a sentirsi delusa e amareggiata. Si era dovuta arrendere all’evidenza: l’uomo che aveva davanti a sé in quel momento non era piú il Seiji che conosceva e che in passato aveva amato piú di se stessa. La sua convinzione non scaturiva da dettagli tutto sommato insignificanti, come la perdita di interesse per la letteratura o la decisione di smettere di fumare, bensí da comportamenti che parlavano della sua intima natura. Tamaki era rimasta sconvolta dall’improvvisa malvagità di Seiji nei suoi confronti. Quello che avevano perduto era ormai irrecuperabile, e quel nuovo incontro l’aveva depressa e avvilita.

«Ora devo andare, è tardi» aveva detto alla fine, dando un’occhiata all’orologio.

Seiji si era alzato insieme a lei, ma la sua espressione rivelava un leggero disorientamento di fronte al brusco cambio di umore di Tamaki. Il loro incontro era durato solo un’ora. Era andato a pagare i caffè mentre lei lo aspettava fuori.

«La prossima volta mi offrirai una cena, d’accordo?» le aveva detto quando l’aveva raggiunta, esibendo un sorriso smagliante.

Solo perché le aveva pagato un caffè? Tamaki si era limitata ad assentire con un cenno del capo, restando in assoluto silenzio. Poi, al posteggio dei taxi, lo aveva salutato con un semplice «Ciao», alzando appena la mano. E mentre saliva nel taxi, lui le aveva sfiorato piano la schiena e aveva contraccambiato il saluto. Quindi Tamaki si era voltata e aveva fissato per un lungo attimo il suo sorriso sereno, per l’ultima volta.

Il mattino dopo, avevano avuto un breve scambio di e-mail. Chissà perché, Seiji le si rivolgeva usando il suo vero nome e non quello d’arte.

Cara Suzuki Yumiko,

grazie per ieri. Quasi non mi sembra vero che ci siamo rivisti, è stato cosí strano.

Quest’ultimo anno apparteneva alla realtà? Quando ti ho vista, ho avuto la sensazione che non fosse mai esistito, o meglio che fosse solo un anno illusorio passato in un baleno. Non so spiegarti, è una sensazione misteriosa, indefinibile.

È stato bello, spero di rivederti presto.

Ciao!

Abe Seiji

Caro Abe Seiji,

grazie, lo stesso vale per me. Sono stata felice di rivederti, anche se solo per poco.

Anch’io, come Urashima Tarō, ho avuto la sensazione che il tempo fosse passato tutto in una volta, e la mia condotta folle di un anno fa mi è parsa assolutamente incomprensibile. Ti confesso anche di averti trovato molto cambiato, come se tu fossi diventato un’altra persona, e questo mi ha un po’ turbata.

Non fumi piú. Non ti interessi piú alla letteratura… Sí, forse è inevitabile, dopo tutto quello che è successo. Eppure non posso fare a meno di trovarlo molto triste, perché la letteratura è la mia vita e io dipendo da lei, per quanto tu, adesso, troverai strane e forse ridicole queste mie parole. Non posso evitare di pensare che io e te, l’anno passato, ci siamo lasciati sopraffare dalla follia e abbiamo commesso una pura idiozia. Ma se io non avessi reagito in quel modo, non avrei potuto continuare a vivere.

Non so quello che accadrà nel frattempo, ma sono sicura che ci rivedremo.

Ciao, a presto

Suzuki Yumiko

Cara Suzuki Yumiko,

in questo mondo e in questa vita pervasi di follia e stupidità, credo si debba comunque resistere, senza mai fuggire e tirarsi indietro. Per questo non penso affatto che le tue parole, “la letteratura è la mia vita e io dipendo da lei”, siano strane o ridicole.

Ma… io voglio vivere il piú possibile con leggerezza.

Io che non fumo piú, io che non amo piú la letteratura… sono e sarò per sempre io!

A presto

Abe Seiji

Tamaki si era sentita molto abbattuta e aveva provato una certa amarezza dopo l’ultima e-mail di Seiji. Perché si era resa conto di aver fatto la stessa cosa che aveva fatto lui: aveva soppresso il suo amore di un tempo, lo aveva cancellato dalla sua vita. Cosí come forse, ciascuna a modo suo, avevano fatto anche Motoko e X nei confronti di Midorikawa Mikio.

3. Soprannome del noto cantante e attore giapponese Kimura Takuya (N.d.T.).

4. Si scrive con due caratteri cinesi che significano “raccolta delle acque” (N.d.T.).