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Era l’ora in cui di solito passava il postino. Avevo detto a X che sarei andato a trovarla, ma ultimamente non avevo potuto tenere fede alla mia promessa e mi aspettavo di ricevere una sua lettera da un momento all’altro. Il solo pensiero mi metteva addosso un’ansia indescrivibile: ero incapace di restarmene fermo, seduto alla mia scrivania. Cosí, mentre mi dirigevo verso l’ingresso per controllare la buca delle lettere, mi imbattei in Takako e Michiko, le quali, non potendo giocare fuori a causa della pioggia, si divertivano sulla soglia di casa a piegare e strappare dei volantini pubblicitari.
«Papà, dove vai?» mi chiese Takako.
«Vado a vedere se è passato il postino» risposi senza pensarci.
In quel momento, Chiyoko uscí dalla cucina come una furia. Era molto determinata, trasudava un’energia terrificante. Nella mano destra stringeva un pelapatate. Le bambine la guardavano immobili e piene di stupore. Sentivano senza dubbio che la madre era diversa dal solito, perché i loro occhi tradivano una paura intensa.
«Ci vado io a ritirare la posta!» disse con rabbia.
Ammutolito dal suo aspetto feroce, mi limitai a guardare il suo viso imporporato. Lei ricambiò con uno sguardo impassibile e ci squadrammo a vicenda per un lungo istante. Chi era quella donna? Non era piú la mia Chiyoko, ormai l’avevo perduta. Avendo dato alla luce i nostri tre figli nel giro di tre anni, il suo corpo non aveva ancora avuto il tempo di sbarazzarsi delle rotondità della maternità. Era cambiata moltissimo dal giorno del nostro primo incontro, quando poteva vantare un fisico snello e aggraziato. Di certo avevo anch’io le mie responsabilità, ma non potevo fare a meno di pensare che fosse soprattutto colpa sua se continuava a trascurarsi. Non accettavo il fatto che una splendida madre come lei fosse disposta a rinunciare alla sua femminilità, lo trovavo assurdo. E in ogni caso la sua gelosia era irragionevole e ossessiva, a maggior ragione adesso che non era piú la donna di una volta.
Sotto il grembiule, indossava uno spesso maglione bordeaux e una gonna di lana marrone. Era una combinazione di colori pesante e tediosa. Portava tutti i giorni a mo’ di divisa gli abiti invernali della sua fredda terra natale, lo Hokkaidō. Era senza dubbio anche colpa mia, che all’epoca non guadagnavo abbastanza, eppure non mancavo mai di manifestare la mia collera ripetendole fino alla noia che non sapeva scegliere i colori. L’accostamento di tinte calde e fredde, certe tinte cupe mi provocavano un malessere incredibile. Spesso pensavo che forse era il caso di cominciare a prestare attenzione all’abbigliamento di Takako, che frequentava la scuola materna, altrimenti avrebbe rischiato di essere presa in giro dai compagni. L’abbinamento di colori dei suoi vestiti, per esempio il rosa pesca e il blu oltremare, era inguardabile e volgare. Sembrerà assurdo, ma mi ritrovavo a riflettere finanche su questioni del genere. Di colpo notai che le calze nere di mia moglie erano rammendate sui talloni con molta cura, in diversi punti. Senza volerlo, sospirai affranto. La vista di quelle rappezzature simili a cicatrici era ripugnante. E pensare che prima era una donna cosí amabile e gradevole. Ma a quando risaliva quel “prima”? Avevo la sensazione che fosse passata una vita intera. Infastidita dall’insistenza del mio sguardo, Chiyoko sollevò il mento squadrato nella mia direzione.
«Si può sapere che cosa hai da guardare?» mi disse in tono brusco.
«Niente…»
Con aria esasperata, appoggiò il pelapatate sul ripiano della scarpiera. Quel vecchio arnese col manico di legno era opera di suo nonno, il quale era molto abile a creare oggetti di quel tipo sfruttando frammenti di corteccia di abete americano. Chiyoko apparteneva a una famiglia di selvicoltori di Obihiro. La conobbi all’epoca in cui lavoravo lí come corrispondente di un’agenzia di stampa. Lei faceva la segretaria presso la sede di quella piccola cittadina, dove erano di servizio solo due giornalisti.
Commosso da quel lontano ricordo, osservavo con attenzione quell’utensile che assomigliava a un raschietto. Intanto Chiyoko si era abbassata per cercare i suoi geta, che evidentemente erano scivolati sotto la scarpiera.
«Quel pelapatate è davvero ben fatto, eh?» le dissi indicando il piccolo utensile da cucina.
«Non cercare di imbrogliarmi!» reagí lei, alzando lo sguardo e fissandomi con astio.
«Ma che dici? Sei impazzita?»
«E allora perché avevi tanta fretta di andare a controllare la posta? Sentiamo» ribatté aggrottando le sopracciglia.
«Volevo solo vedere se per caso erano arrivate le bozze».
«Che ipocrita! Ma se mandi sempre me a controllare». Poi, lo sguardo via via piú accigliato, aggiunse: «Stai aspettando una lettera dalla tua X, confessa!».
«Smettila! Ora stai esagerando!»
Avevo alzato la voce nel tentativo di metterle paura. Ma serví solo a indispettirla e a renderla ancora piú agguerrita.
«Smettila tu! Prima mi stavi guardando con gli occhi sgranati, mi trovi cosí brutta? Strano, eppure hai avuto il coraggio di fare tre figli con me!»
Aveva centrato in pieno il bersaglio, voleva farmi sentire in colpa.
«Ma che ti prende? Si può sapere che cos’hai, Chiyoko?» le dissi sforzandomi di apparire calmo. «Ultimamente sei strana, hai le manie di persecuzione».
«Manie di persecuzione? Non dire idiozie, sai bene che non è cosí!» replicò in tutta sicurezza.
Il suo intuito e quel tono di sfida mi stavano dando sui nervi, dovevo trovare a tutti i costi un modo per farla tacere.
«E invece sí, ti dico che hai dei problemi seri e che si tratta di manie di persecuzione» ribattei. «E sei anche una donna meschina che cerca di sottomettere gli altri con i suoi deliri».
Come mi aspettavo, vidi il suo viso distorcersi in una smorfia rabbiosa.
«Se io sono una donna meschina, tu sei uno sporco bugiardo e un traditore!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola. «Mi hai rovinato la vita, sei un farabutto!»
Aveva cominciato a insultarmi nel dialetto dello Hokkaidō. Avevo piú che mai la sensazione di trovarmi a tu per tu con una sconosciuta.
«Ma ti senti? Stai sbraitando come una povera pazza. Stai delirando!»
«Non sto delirando!» controbatté scuotendo forte il capo, con una furia spaventosa. «Hai fatto abortire X, eh? Sei andato a letto con lei, lo so!»
«Non è vero, tu non sai niente!»
«Allora perché lo hai scritto nel diario? E non mi dire che era solo una cosa che hai pensato in quel momento!»
A quel punto preferii tacere e riflettere. Ormai mi aveva scoperto e non aveva senso accusarla di aver letto di nascosto il mio diario. E se le avessi detto che mi ero inventato tutto e che si trattava di un abbozzo di trama per un romanzo? Era una scusa poco credibile, purtroppo.
«Smettila di tirare di nuovo in ballo questa storia!» le dissi alla fine, a corto di argomenti.
«E perché mai dovrei smetterla?» urlò. «Non mi stancherò mai di ripeterlo: sei un farabutto! Sei uno sporco traditore! Prima non eri cosí, sei completamente cambiato, mi fai schifo!»
«Falla finita, ci sentono tutti!»
Le appoggiai la mano sulla spalla, ma lei mi respinse con forza. «Farabutto, farabutto, mi fai schifo!» ripeteva scuotendo la testa, in tono isterico. Takako e Michiko, le labbra socchiuse, tenevano gli occhi inchiodati sulla madre che continuava a dare chiari segni di follia. L’espressione sul loro viso era di puro terrore. La situazione rischiava di degenerare come la volta precedente, non potevo permettere che si ripetesse la stessa scena davanti alle bambine. Avevo un brutto presentimento e rimpiangevo di aver reagito con eccessiva aggressività. Dovevo calmarmi e trovare il modo di contenere la collera, altrimenti Chiyoko sarebbe impazzita. Non la riconoscevo piú, era diventata quasi un’estranea, e di quel passo avrei avuto paura di continuare a vivere al suo fianco.
«Sei una carogna! Traditore! Non ci posso credere, mi dicevi che mi avresti amata per tutta la vita, che ero il tuo unico tesoro… Bugiardo schifoso! Chissà da quanto tempo mi tradisci… Forse hai anche in mente di ammazzarmi per sbarazzarti di me! Mi vuoi vedere morta, non è vero?!»
«Chiyoko, ho sbagliato, lo ammetto. Ma adesso calmati, ti prego».
Niente da fare, continuava a gridare e lamentarsi con le mani premute sulle guance, come nell’Urlo di Munch. «Bastardo! Bastardo! Sporco traditore!»… La afferrai per le spalle e provai a stringerla, ma lei si contorse e riuscí a divincolarsi dalla mia presa. Poi si chinò con un gesto rapido e agguantò uno dei suoi geta: voleva lanciarmelo contro, al che mi precipitai per strapparglielo di mano. Nel farlo, il geta cadde per terra sottosopra. Allora, pur se in quel frangente mi pareva assurdo, mi venne spontaneo andare con la mente a una curiosa superstizione che risaliva ai tempi della mia infanzia e pensai: domani pioverà?
«Smettila, rischi di fare male alle bambine!»
«Non mi importa! Non mi importa piú di niente!»
Il volto paonazzo, si girò verso Takako e Michiko e lanciò loro uno sguardo spiritato. Le poverette, scioccate, indietreggiarono a poco a poco verso il muro. Quando Chiyoko andava in bestia, non c’era niente e nessuno che potesse fermarla. Afferrò il pelapatate e me lo lanciò contro. L’oggetto mi colpí alla spalla, prima di ricadere rumorosamente sul pavimento dell’ingresso. Per fortuna non mi fece male, ma non potei fare a meno di pensare che mai e poi mai il nonno di Chiyoko avrebbe immaginato che il suo prezioso pelapatate in legno di abete americano potesse essere usato come arma contundente. Quel pensiero mi parve cosí buffo che, nonostante l’accesso di follia di mia moglie, distesi le labbra in un vago sorriso. Intanto lei, gli occhi fissi su di me, cercava a tastoni sui ripiani della scarpiera un arnese qualsiasi da scagliarmi addosso.
«Basta, devi piantarla!» gridai.
Guardando con freddezza i suoi occhi iniettati di sangue, finalmente riuscii a bloccarle la mano. E siccome lei continuava a dibattersi, fui costretto a immobilizzarla usando tutta la mia forza. Al che copiose lacrime di sdegno le rigarono il volto. Si contorceva come in preda a convulsioni e gridava fin quasi a scoppiare.
«Lasciami, schifoso! Te ne approfitti perché sono una donna! Se fossi anch’io un uomo, ti farei pentire di essere nato!»
Aveva ragione.
Solo perché ero un uomo potevo permettermi di scrivere tutto il giorno rinchiuso nel mio studio e fare quel che volevo senza preoccuparmi dei bambini, della casa e dei pasti, indipendentemente dal fatto che fossi uno scrittore di talento o da altre considerazioni del genere. Chiyoko si occupava dei lavori domestici, dell’educazione dei figli e di tutto il resto, mentre io me ne andavo in giro a mangiare, a bere e a passare dei bei momenti in compagnia di X. All’epoca in cui ci eravamo conosciuti, quando io ero un giovane giornalista e lei una bella e brava segretaria, eravamo alla pari, uscivamo e ci divertivamo insieme, ma ormai Chiyoko era schiacciata dal suo ruolo di madre di famiglia e donna di casa, le sue dita un tempo affusolate si erano ispessite ed era diventata severa e inflessibile, una donna completamente diversa. Era cambiata in tutto e per tutto: si lamentava di continuo, diceva che io non la amavo piú e che avevo smesso di considerarla la mia dolce e adorata metà. Non potevo farci niente, senza che neanche me ne accorgessi era diventata ai miei occhi una donna misera e insignificante. Ero scoraggiato, rassegnato. Di punto in bianco ricevetti un violento pugno al mento. Provai un dolore atroce, la testa mi si piegò all’indietro.
«Ti ha dato di volta il cervello?!» urlai, in preda a una furia cieca.
«Te lo sei voluto, ti sta bene!»
Era pronta a colpirmi di nuovo, ma stavolta riuscii a precederla e le mollai uno schiaffo. Volevo solo calmarla, ma lei cadde per terra all’indietro e per un soffio non andò a sbattere con la testa contro la porta a vetri dell’ingresso. Mi sentii sbiancare in volto.
«Scusami, è tutta colpa mia» le dissi avvicinandomi. «Ti prego, calmati, ci sono le bambine».
Ma lei era lí che singhiozzava in silenzio, immobile e con la faccia contro il pavimento. Io, Takako e Michiko la guardavamo immobili senza dire una parola, in piedi come tre statue di pietra. Eravamo confusi e disorientati già da diversi giorni, dopo la prima scenata, e non sapevamo piú che cosa fare quando si riduceva in quello stato. Ci aveva mandati nel panico, avevamo una paura tremenda di lei e delle sue reazioni. Era fuori controllo, non avevamo la piú pallida idea di come e quando la sua collera sarebbe nuovamente esplosa, né di come fare per ricondurla alla ragione.
La chioma, che in casa portava raccolta sulla nuca, le si sciolse all’improvviso rivelando una quantità stupefacente di capelli ispidi e neri. Indietreggiai terrorizzato, come se quella fosse la manifestazione della sua forza vitale e selvaggia. Aveva cosí tanti capelli? Era cosí bassa di statura? La donna che avevo sposato era tanto aggressiva? Non sapevo piú niente di lei.
Era innegabile che Chiyoko non avrebbe mai piú ritrovato la sua bellezza e la gioia di vivere. E io, non avendo alcun appiglio, sentivo che stavo precipitando sempre piú in basso, ormai rassegnato a quella fine. Era un sentimento terribile e annichilente che non avevo mai provato prima, diverso da un semplice senso di colpa. Sforzandomi di trovare delle parole, direi che era la tristezza profonda della separazione: io e la mia compagna eravamo finiti senza accorgercene sulle due sponde opposte di un grande fiume.
Di colpo, tra un singhiozzo e l’altro, Chiyoko alzò la testa come una belva inferocita: doveva aver sentito un rumore. Stava arrivando il postino! Cercai di infilarmi i geta piú in fretta che potevo, ma ormai era troppo tardi. Chiyoko era scattata in piedi come una molla e si era precipitata fuori a piedi nudi. Non riuscivo a credere ai miei occhi: fino a un istante prima piangeva disperata, abbandonata lí per terra senza forze. Ero perplesso, ma al contempo la sua reazione ferina mi provocò una risata involontaria, o forse era piú che altro una reazione isterica.
Sentii la buca delle lettere aprirsi con un cigolio sinistro. Restai immobile in attesa, ormai avevo rinunciato a preoccuparmi della posta. Meglio fare finta di niente, altrimenti Chiyoko avrebbe potuto pensare che volevo nasconderle qualcosa e avrebbe ricominciato con la solita tiritera. Disorientato, mi voltai da un lato e incrociai lo sguardo di Takako. Mia figlia maggiore mi fissava con le labbra sporte in avanti, quasi che volesse dirmi qualcosa. Ma quando le rivolsi un segno di incoraggiamento per invitarla a esprimersi, lei distolse gli occhi. Aveva un’aria quasi impertinente, come a voler dire che l’avevo combinata grossa e meritavo l’astio di sua madre. Takako aveva solo quattro anni, ma era già pronta a giudicarmi e a schierarsi contro di me. Nella nostra casa regnava un’atmosfera pesante e insopportabile, tutti sembravano in possesso di un intuito a dir poco formidabile! I piedi nudi infilati nei geta, impalato sull’uscio, attendevo impaziente il ritorno di Chiyoko.
Perché ci impiegava tanto? La cassetta della posta era distante non piú di una decina di metri. Aveva messo le mani su una lettera di X? In tal caso, sarebbe venuta a conoscenza del suo indirizzo! Mi sentii raggelare il sangue nelle vene e uscii fuori anch’io. Gocce di pioggia gelida mi bagnavano la fronte e le guance. Mi ritrovai subito faccia a faccia con Chiyoko, dal suo corpo emanava un odore umido e pungente. Per un istante fui preso da un moto di puro terrore: me la immaginai sotto la pioggia, ferma accanto alla cassetta della posta e immersa nella lettura di una missiva a me indirizzata.
«Che stavi combinando?» le chiesi in tono brusco.
Teneva delle lettere ben strette al petto, come a volerle proteggere. Era un gesto fin troppo eloquente. Di colpo mi ritornò alla mente la lite di alcune sere prima e mi adombrai: le avevo dato una spinta senza volerlo, lei era andata a sbattere con il fianco contro lo spigolo del comò ed era caduta a terra, agitandosi come una matta e tardando a rialzarsi. In quel momento avevo pensato che fosse tutta scena e che si comportasse come una bambina. Poi mi ricordai che all’epoca del nostro matrimonio adorava farsi coccolare. Come una ragazzina sempre appiccicata alla madre, mi camminava a fianco tenendosi all’orlo della mia giacca o del pullover. Tōkyō era immensa per lei che scopriva per la prima volta la capitale. E ripeteva spesso che la folla la spaventava a morte.
«C’è posta per te!» mi disse, tendendomi due lettere con un gesto di stizza. Le aveva aperte, erano passate al vaglio della censura. Le guardai rigirandomele tra le mani: una annunciava la consueta riunione periodica della rivista Shusui, l’altra proveniva dal negozio di sigilli Randa di Jinbōchō e diceva: «La ringraziamo per averci accordato la sua preferenza. L’articolo che lei ha ordinato è pronto ed è disponibile fin da subito in due modelli esclusivi. Venga in negozio non appena le è possibile per scegliere quello di suo gusto. La aspettiamo. Grazie».
«Solo queste?» dissi sollevando in alto le due lettere.
Chiyoko assentí con un rapido cenno del capo. Era vero? Senza volerlo, gettai uno sguardo alla tasca del suo grembiule.
«Che faresti se fosse qui dentro?» mi chiese lei in tono provocatorio, l’espressione trionfante e la mano appoggiata sulla tasca.
«Di che parli? Non capisco».
Ero tesissimo e avevo intenzione di tornarmene subito nel mio studio. Ma Chiyoko cominciò a bombardarmi con una serie di domande.
«E cosí hai ordinato un sigillo nuovo, eh? Due modelli esclusivi… Ti sarà costato una fortuna, quanto l’hai pagato?»
«Poco, circa mille yen».
Naturalmente avevo mentito, ma il suo viso si rabbuiò lo stesso.
«Non mi pare sia cosí poco! Sai bene cosa siamo abituati a mangiare a mezzogiorno».
«Certo che lo so, abbiamo appena pranzato tutti insieme» ribattei esasperato.
Quel giorno avevamo diviso in cinque due porzioni di udon e, dal momento che non ci era bastato, avevamo completato il pasto con del pane e del latte che avevo comprato al mattino.
«Io sono sazio, non ho problemi» aggiunsi.
«Oggi c’eri anche tu e ho preparato qualcosa in piú. Ti assicuro che quando sono da sola con i bambini i nostri pasti sono molto piú frugali».
«Va bene, ho capito. Ma avrò pure il diritto di avere un sigillo personale, no? È da un pezzo che sogno di farmene fare uno esclusivo da apporre sui miei libri e sulle lettere. Per tutti questi anni ho sempre desistito a causa dei soliti problemi di natura economica».
«È uno spreco inutile, puoi continuare a firmare a mano come hai sempre fatto!»
Aveva pronunciato quella frase in un tono cosí sprezzante che mi sentii punto nel vivo. Per scaricare la rabbia, decisi di uscire seduta stante e di andare al negozio di sigilli. Non c’era nessuna fretta, ma pensai fosse meglio approfittare di quel pretesto per dileguarmi ed evitare il peggio. Mi venne in mente di passare anche in casa editrice – la sede di Kawakura shobō non era lontana – e di incontrare il mio editor T., che con un po’ di fortuna mi avrebbe offerto una birra da Ginza Lion. Dopo di che sarei potuto andare da X per spiegarle quello che stava succedendo. Dovevo dirle a tutti i costi che Chiyoko sapeva tutto e che non potevamo né vederci né sentirci per qualche tempo. Occorreva dare prova di pazienza e prudenza, non potevo rischiare che in casa si scatenasse l’inferno tutti i giorni, all’ora della consegna della posta.
«Ora devo andare a Jinbōchō per scegliere il mio sigillo» dissi in tono deciso. «Mi dispiace, ma ne ho bisogno, sono uno scrittore».
Nel momento in cui mi apprestavo a uscire di casa, vidi Chiyoko avanzare verso l’ingresso con indosso i suoi soliti abiti. «Vengo con te» mi fece in tono perentorio. Al che sgranai gli occhi ed ebbi un sussulto. «E i bambini?» le domandai. E lei mi rispose che ci avrebbe pensato Takako a tenere d’occhio Michiko e Yōhei.
«Ma sei pazza? Takako ha solo quattro anni!» protestai urlando.
«Io sarò anche pazza, ma tu perché vuoi uscire, eh?» replicò, alzando pure lei la voce. «Vuoi farmi restare chiusa in casa mentre tu vai a spassartela con quella chissà dove! Basta, oggi vengo con te, anche a rischio che possa succedere qualcosa di brutto ai miei figli!»
Intuendo che la situazione volgeva di nuovo al peggio, Michiko ci guardò con le lacrime agli occhi. E anche Yōhei, aggrappato al bordo della culla, ci fissava inquieto, quasi che si rendesse conto di quello che stava accadendo. Solo Takako, stranamente silenziosa, osservava imperterrita me, Chiyoko e i fratelli.
«Bene, se la metti su questo piano, vorrà dire che usciremo tutti insieme!» gridai.
Ormai non mi importava piú di niente. Alla fine, Chiyoko chiese alla figlia liceale dei vicini di guardare i bambini e venne con me.
In treno, avrei voluto sedermi il piú lontano possibile da Chiyoko, ma lei mi si incollò al fianco e non mi diede tregua. Continuava a parlarmi all’orecchio facendo mille osservazioni sulle donne in piedi accanto ai finestrini e su quelle sedute di fronte a noi.
«Che ne dici di quella? È giovane e carina, dovrebbe piacerti, no?»
Se avessi risposto senza pensarci che non era niente male, lei di certo si sarebbe risentita e mi avrebbe piantato una storia. Perciò preferivo non dire niente, avevo troppa paura. Ma nonostante il mio silenzio, Chiyoko non smetteva di voltarsi dalla mia parte e continuava a provocarmi battendo sullo stesso tasto.
«Ormai ti conosco, non bisogna mai perderti d’occhio».
«Ma che ho fatto? Non ho detto niente».
«Anche quando non fai e non dici niente… Sei pericoloso, con te la prudenza non è mai troppa».
Dovevo stare molto attento a non contraddirla, non potevo rischiare che si mettesse a strepitare in pubblico. Mi sembrava di essere sotto tortura, eppure dovevo sforzarmi di sopportare e fare finta di niente.
Scendemmo dal treno alla stazione di Ochanomizu e camminammo fino all’incrocio di Jinbōchō. Il negozio di sigilli Randa si trovava un po’ oltre, in una stradina laterale che conduceva a Kudanshita. Chiyoko, nella sua tenuta abituale costituita da maglione bordeaux, gonna marrone e calze nere rammendate, mi seguiva passo passo, in silenzio. Avevo la sensazione sgradevole che gli anni stupidi e balordi della mia gioventú e quel passato che volevo dimenticare mi si incollassero addosso. Ma d’altra parte provavo un senso di colpa, perché volevo ripudiare mia moglie, la quale in fondo si era sacrificata per lasciarmi scrivere i miei romanzi. Forse ero davvero un uomo vile ed egoista. Mi sentivo confuso, disorientato. Invaso da una sincera pietà nei suoi confronti, mi voltai e la vidi mentre lanciava continue occhiate di meraviglia alle vetrine delle librerie dell’usato e dei ristorantini a menu fisso. Finalmente sembrava un po’ meno tesa, se non addirittura contenta.
«Ecco, siamo arrivati, aspettami qui» le dissi indicando Randa.
Diede uno sguardo all’ingresso del negozio e alla porta a vetri e annuí docile. Senza dubbio perché si era assicurata che non ci fossero uscite sul retro in grado di permettere una fuga. Entrai nel negozio e il proprietario mi mostrò subito i due tipi di sigilli di cui aveva fatto cenno nella lettera: scelsi quello piú semplice. Si dimostrò molto gentile e ben disposto a illustrarmi vari dettagli, ma io, in ansia a causa della presenza di Chiyoko fuori dal negozio, avevo la mente altrove. Allora lui, seguendo la direzione del mio sguardo, mi domandò se fossi in compagnia di qualcuno. Io però preferii abbozzare una risposta evasiva e restare sul vago. Non solo perché Chiyoko aveva un aspetto trasandato, ma anche e soprattutto perché mi vergognavo all’idea che la sua aria smarrita potesse far intuire a un semplice estraneo i nostri dissapori coniugali.
«Allora? Com’è questo sigillo?» mi chiese non appena misi piede fuori dal negozio.
Sentendo addosso lo sguardo del proprietario, mi misi in cammino senza dire una parola, i nervi a fior di pelle, chiedendomi come facesse Chiyoko a essere cosí frivola e insensibile. Tuttavia, come uomo ed essere umano, mi rendevo conto che la stavo trattando con eccessivo disprezzo, lei, mia moglie. D’altra parte sapevo anche che ormai c’era ben poco da fare: il disastro era inevitabile, non potevo piú salvarla. Per quanto mi sforzassi di moderarmi e fare finta di niente, ormai Chiyoko era sprofondata all’inferno e non c’era modo di farla tornare in paradiso.
Dopo aver svoltato l’angolo ed essermi sottratto allo sguardo indagatore del proprietario del negozio, finalmente le mostrai il sigillo.
«Non è un po’ troppo semplice?» commentò, storcendo la bocca in una smorfia di scherno.
«No, va piú che bene» risposi laconico, prima di riavvolgerlo nella sua confezione. In quel momento, il sigillo era l’ultimo dei miei pensieri. Tuttavia Chiyoko, forse stupita dalla mia scarsa loquacità e dalla mancanza di entusiasmo, mise il broncio come se si sentisse tradita. Dopotutto eravamo usciti perché le avevo detto che avevo un gran bisogno di quel sigillo, anche se lei non ne era molto convinta, e invece adesso sembrava che non me ne importasse piú niente. Dopo un po’ giungemmo in vista della sede di Kawakura shobō.
«Aspettami qui» le dissi, in prossimità dell’ingresso del palazzo. «Ne avrò per mezz’ora circa».
«Perché, ti scoccia se vengo con te?» mi chiese, scrutandomi in viso.
«Non ne vedo la necessità».
«E invece sí, mi sono sempre chiesta chi sia T.».
«È un uomo, se è questo che ti interessa».
Di cattivo umore, la piantai in asso ed entrai in fretta all’interno dell’edificio. Chiyoko, presa alla sprovvista, rimase impalata al di là dell’imponente porta girevole. Senza curarmi di lei, salutai rapidamente la giovane impiegata alla reception e mi infilai nell’ascensore. In quel momento non mi interessava sapere se e dove Chiyoko mi avrebbe aspettato. E d’altra parte, se si fosse azzardata a seguirmi, molto probabilmente si sarebbe persa. Facesse quel che voleva, ne avevo abbastanza dei suoi assurdi capricci. Uscii dall’ascensore al terzo piano e feci capolino all’ingresso della redazione letteraria. T. mi vide dalla sua postazione accanto alla finestra e mi venne incontro di corsa.
«Ah, signor Midorikawa, sono molto felice di vederla. Le chiedo perdono per la volta scorsa, ho avuto un impegno improvviso. Stavo proprio per scriverle una lettera di scuse».
La sua mancata presenza all’appuntamento mi aveva irritato non poco, ma l’atteggiamento umile e mortificato con cui mi aveva appena accolto mi rimise di buon umore.
«Si è verificata una grave perdita d’acqua presso gli alloggi per i dipendenti dove abito attualmente» mi spiegò con molta gentilezza, «e sono dovuto accorrere subito sul posto. Sono veramente desolato, mi dispiace. Dopo sono tornato qui piú in fretta che potevo, ma lei se n’era già andato. Le assicuro che non si ripeterà piú, le chiedo scusa».
«D’accordo, non c’è problema. Deve essere stata una bella seccatura, eh?»
Quelle parole distensive mi uscirono di bocca in tutta spontaneità. Terminati i convenevoli, T. mi fece accomodare nell’angolo con poltrone e tavolino riservato all’accoglienza degli ospiti. Prima di iniziare la conversazione, mi soffermai a guardare la sua fronte alta da intellettuale.
«Che ne pensi dell’assegnazione del premio Akutagawa a K.?» gli chiesi. «È già la seconda volta che un membro di Shusui riesce in un’impresa del genere, molti sostengono che è l’occasione giusta per farci conoscere e apprezzare».
«Sí, ma secondo me tocca soprattutto a lei imporsi all’attenzione di pubblico e critica. Lei è il migliore, signor Midorikawa, il suo talento e le sue capacità sono a un livello superiore» rispose T. accendendosi una sigaretta.
«No, no, tu esageri» dissi scuotendo le mani, e in quell’istante preciso una segretaria si avvicinò a noi con aria seria.
«Signor Midorikawa» annunciò, «sua moglie è qui».
Aveva pronunciato quella frase a voce cosí alta che tutte le persone che si trovavano là intorno si voltarono all’unisono verso l’ingresso della redazione. Chiyoko mi cercava con sguardo smarrito, girandosi a destra e a sinistra. In quel momento sarei voluto sparire, sennonché T. si alzò di scatto e le fece un cenno con la mano.
«Signora, siamo qui!» le disse.
Nei suoi abiti miseri, Chiyoko avanzò nella nostra direzione zigzagando tra le scrivanie. Distolsi lo sguardo, sopraffatto dall’imbarazzo. È vero, l’avevo tradita, ma adesso stava oltrepassando i limiti. Provavo una sensazione molto spacievole, come se un essere alieno avesse invaso il mio territorio.
«Signor Midorikawa, per caso aveva appuntamento con sua moglie?» mi chiese in tono ironico T.
«Assolutamente no!» replicai, dandogli di gomito. «Scusami se te lo chiedo, potresti essere cosí gentile da darmi un foglio e una busta da lettera di piccolo formato?»
«Certo, come no» rispose all’istante, avviandosi verso la sua scrivania. Intanto Chiyoko mi raggiunse e mi lanciò un’occhiata di rimprovero.
«Sei sparito all’improvviso, ho avuto paura» mi disse con voce piagnucolosa. Che diavolo le prendeva? Si era spaventata sul serio o stava tramando qualcosa? Il tizio seduto alla scrivania lí accanto si voltò dalla nostra parte con uno sguardo allibito. Che vergogna! Come se non bastasse, mi si era aggrappata alla giacca con le sue dita tozze e rovinate, quasi fosse terrorizzata. All’inizio forse lo era per davvero e si sentiva a disagio, ma ora sembrava quasi che con quel gesto volesse stuzzicarmi. Era un fatto cosí orribile che una moglie desiderasse uscire e divertirsi con il proprio marito? Non sapevo piú che cosa pensare, nel mio animo si incrociavano mille sentimenti contrastanti. Non mi era mai capitato di lasciarmi andare a riflessioni del genere su Chiyoko.
«Quindi è fatta cosí una redazione, eh? Quanta gente, sembrano tutti molto occupati» disse guardandosi intorno con meraviglia.
«Sí, stanno lavorando» mi limitai a puntualizzare. Un sorriso artefatto stampato in volto, mi sforzavo di apparire calmo e tranquillo. Nel frattempo T. tornò e mi passò con molta discrezione la busta da lettera con dentro un foglio bianco, che lasciai subito scivolare nella tasca interna della giacca. Poi lo presentai a Chiyoko.
«La ringrazio moltissimo per tutto quello che fa per mio marito, signor T.» esordí lei con voce affettata. E mentre loro due parlavano, ne approfittai per sgattaiolare in corridoio e chiudermi a chiave nella toilette. Presi la mia penna stilografica e scrissi un breve messaggio a X: «Come stai? Sono preoccupato, vorrei tanto vederti. C’è stato un imprevisto, d’ora innanzi dovrai stare molto attenta a Chiyoko. Mi raccomando, aspetta sempre un mio contatto prima di prendere l’iniziativa. Tuo Mikio».
2
Rileggendo la breve lettera che avevo appena scritto, temetti che avrebbe potuto gettare X nell’inquietudine. Era oltremodo criptica, avrebbe potuto addirittura indurla a concludere che mia moglie avesse in mente di ucciderla, e questo rischiava di creare una gran confusione. Di primo acchito pensai di strapparla e scriverne un’altra, ma non avevo a disposizione un secondo foglio e in fondo poteva andare bene anche cosí. Naturalmente, se Chiyoko avesse appreso l’indirizzo di X, era fuori di dubbio che si sarebbe precipitata da lei. Forse era solo una questione di tempo. Anche per questo quella lettera mi suonava lugubre e penosa, come se annunciasse una condanna. Dipendeva dal fatto che l’avevo scritta pensando allo stato d’animo rabbioso e vendicativo di Chiyoko? Ero nel torto, lo ammetto, ma quali erano le vere cause alla base di quello che era successo e stava succedendo? Non riuscivo piú a raccapezzarmi.
Ero lí a tormentarmi, incapace di giungere a una conclusione, e intanto contemplavo la mia immagine allo specchio, il mio viso unto, sporco e malvagio. Di colpo, attraverso lo specchio, incrociai lo sguardo di un uomo che si lavava le mani al mio fianco. Era un giovane impiegato con le guance rosee e ben vestito. Il decoro e l’eleganza del suo abito e dell’aspetto generale lasciavano supporre che appartenesse al settore commerciale della casa editrice. Tirò fuori dalla tasca interna della giacca un fazzoletto ben inamidato e si asciugò con cura le mani, prima di lasciare la toilette con un’espressione gioiosa dipinta in volto. Chi gli aveva dato quel fazzoletto pulito? Sua madre o la sua sposa? Nel sorprendermi a riflettere su un particolare del genere, mi sentii piú che mai afflitto e disperato. E fui colto da un desiderio improvviso di vedere X.
Dal corridoio, lanciai un’occhiata verso la redazione letteraria. Gli impiegati, ciascuno alla propria scrivania, erano impegnati a leggere le bozze, a parlare al telefono o a scrivere chissà cosa, e dietro di loro, nell’angolo in fondo, Chiyoko chiacchierava amichevolmente con T. Sembrava che si divertisse un mondo, la mano davanti alla bocca mentre si sbellicava dalle risa. Approfittando del fatto che non mi aveva notato, girai sui tacchi e scesi in tutta fretta le scale alla fine del corridoio. Tutto sommato non mi importava niente di lei e delle sue lamentele. Ci avrei pensato piú tardi a trovare una scusa per difendermi dalle sue eventuali accuse. Dopo la prima lite violenta, tutto ciò che dentro di me si era rattrappito per effetto del suo furore bestiale si stava ora risvegliando. Avevo una voglia pazzesca di librarmi nell’aria e volare libero come un palloncino, sempre piú in alto e lontano. Ma al pensiero della reazione sbigottita di Chiyoko di fronte alla mia assenza, rinunciai a svignarmela di nascosto. Dopo qualche attimo di titubanza nella hall d’ingresso, decisi di chiedere all’addetta alla reception di chiamare T.
«Signor Midorikawa, dove è finito?» mi domandò con voce inquieta T.
«Sono alla reception. Devo andare via subito, mi sono appena ricordato di un impegno urgente».
«Ma sua moglie è ancora qui!»
Aveva abbassato la voce. Ebbi l’impressione che avesse messo la mano davanti al ricevitore e si fosse girato da un lato.
«Non importa. Per favore, dille di tornare a casa da sola perché ho avuto un’urgenza».
«Devo dirglielo io? Non è meglio che lo faccia lei? Aspetti, gliela passo».
Tutt’a un tratto sembrava impaurito. Evidentemente non voleva essere coinvolto in una disputa tra coniugi che non lo riguardava affatto.
«Ho fretta» ribattei. «Devo andare, arrivederci».
Resi il telefono all’addetta alla reception e uscii dall’edificio spingendo la pesante porta girevole. Fuori, il vento di dicembre era gelido. Temevo di aver commesso un atto irreparabile ed ero ancora un po’ indeciso. Ma alla fine mi aggiustai la sciarpa intorno al collo e andai via a passo rapido. Come avrebbe reagito Chiyoko alla mia fuga? Si sarebbe sfogata raccontando tutto a T. e mettendo in piazza i nostri problemi familiari? Oppure sarebbe tornata a casa zitta e muta e avrebbe fatto una delle sue scenate davanti ai bambini? In ogni caso, una parte di me pensava che la situazione non fosse poi cosí grave e che esistesse un certo margine per rimediare. Ma in generale ero consapevole che Chiyoko me l’avrebbe fatta pagare a caro prezzo e mi vennero i brividi al solo pensiero. Come avevamo fatto ad arrivare fino a quel punto? Che cosa doveva succedere ancora? Ormai era troppo tardi per tornare indietro. Mi diressi alla stazione facendo del mio meglio per non pensarci e reprimere l’angoscia.
Bussai piú di una volta alla porta di X. Nessuna risposta, non era in casa. Era colpa mia, non l’avevo avvertita. Rassegnato, tirai fuori dalla tasca interna della giacca la lettera e la rilessi. Era mia intenzione infilarla nella buca della posta cosí com’era, ma ebbi di nuovo l’impressione che mancasse di chiarezza e aggiunsi qualche parola in fondo al foglio: «Sono venuto da te, ma non c’eri, peccato. Mia moglie ha scoperto tutto ed è furiosa. Perdonami, ma credo che per un certo periodo sia meglio non vederci. Spero potrai capire, grazie». Giusto in quel momento sentii una voce alle mie spalle.
«Mickey, che cosa ci fai qui? È successo qualcosa?»
Mi voltai e, nella penombra del ballatoio, vidi X. Aveva una borsetta appesa al braccio e indossava un magnifico cappottino giallo e un cappello e una sciarpa neri. Sorrideva radiosa nella sua mise elegante, e d’un tratto quell’angolo di quel vecchio edificio parve illuminarsi come sotto un raggio di sole. Ero molto felice di rivederla, quasi esplodevo di gioia. A confronto con l’aspetto trasandato di mia moglie, X mi sembrò perfino troppo bella e raffinata, tanto da rasentare l’insolenza. Provai di nuovo una sincera compassione nei confronti di Chiyoko. Ero interdetto, non sapevo piú da che parte stare.
«Dov’eri?» le chiesi, stupendomi io stesso per il tono brusco della domanda. Da grande egoista, forse pretendevo che restasse sempre chiusa in casa ad aspettarmi.
«Sono andata in biblioteca a restituire dei libri e sono passata all’ufficio postale».
C’era bisogno di vestirsi in quel modo per fare delle semplici commissioni? Mi sentii invadere da una certa diffidenza, ero geloso marcio. Mi cacciai le mani gelate in tasca in un gesto di stizza.
«Mickey, che hai? Va tutto bene? È raro che tu venga da me a quest’ora».
«Non chiamarmi cosí in pubblico!»
X soffocò a stento un risolino, prese la chiave dalla borsetta e aprí la porta. Entrai insieme a lei senza dire niente, come fosse casa mia. Le facevo visita all’incirca una volta a settimana, e quell’appartamento mi era molto familiare, ma ero agitato perché temevo che la mia intrusione improvvisa potesse farmi scoprire qualcosa che mi avrebbe lasciato sorpreso. Mi guardai intorno con discrezione. X era stata fuori per molte ore? L’appartamento era gelido. Doveva essere uscita fin dal mattino, l’ambiente era freddo e umido come l’interno di un frigorifero. Tutto tremante, la seguii con lo sguardo mentre, senza togliersi di dosso il delizioso cappottino giallo, accendeva la stufa a cherosene e metteva il bollitore sul fornello. Finalmente si tolse il cappotto e lo appese con garbo a una gruccia, dopo di che mi fece cenno di consegnarle la sciarpa e la sistemò su un gancio lí vicino. Poi mi guardò negli occhi e tese di nuovo la mano.
«Prima, quando sono arrivata, stavi scrivendo qualcosa. Posso vedere?»
«Ho bussato ma tu non c’eri» le dissi, allungandole la lettera senza fare una piega. «Perciò ho pensato di scriverti due righe prima di andarmene. Ma per fortuna sei tornata e ora siamo insieme».
Le avevo parlato in totale sincerità, ma lei continuava a tenere gli occhi incollati sulla lettera senza degnarmi della minima attenzione. Non diceva una parola.
«Allora?» provai a sollecitarla, scrutando per un attimo il suo profilo austero.
«Come è potuto succedere?» rispose accigliata, agitando la lettera verso di me. «Come ha fatto a scoprirci?»
«Ci ha scoperto e basta, ormai c’è poco da fare. Ha preso il mio diario di nascosto e lo ha letto. Sono stato un imprudente, lo so, ma non pensavo che potesse spingersi a tanto. Evidentemente doveva aver intuito qualcosa. Il sospetto rende le persone instabili e capaci di tutto».
Il tono della mia voce doveva tradire appieno il mio scoramento. X mi lanciò uno sguardo greve, storcendo le sue belle labbra dipinte di rosso vivo.
«È vero, ormai ci ha scoperto, ma non è questo il punto. Non ti capisco, come hai potuto scrivere di noi nel tuo diario? Non hai pensato che poteva essere un rischio? Ma lasciamo stare, tanto so già che dirai che non sono fatti miei e che ognuno ha il diritto di scrivere quello che vuole. Ma c’è un’altra cosa che non riesco a capire, una cosa che secondo me è ancora piú grave: perché non dovremmo piú vederci? Cosa c’entra con il fatto che lei ci ha scoperto?»
Perché non capiva? Era cosí semplice.
«C’entra eccome. Ora mia moglie mi segue dappertutto come un’ombra. Persino quando mi viene voglia di portare a spasso il cane dei vicini per fare due passi. Non mi molla mai, mi tiene sotto stretta sorveglianza perché pensa che tutte le volte che esco di casa io abbia un appuntamento con te. È pazzesco, cosí non posso piú andare avanti. Oggi, per esempio, è stata capace di venire con me in casa editrice. Non sai cosa ho dovuto inventarmi per seminarla e arrivare fin qui. Ho fatto follie per rivederti e tu mi parli cosí e dici che non riesci a capirmi?»
X, ammutolita, teneva le mani allungate sopra la stufa per riscaldarsi. Eravamo in piedi, da una parte e dall’altra di quella vecchia stufa a cherosene.
«Dal tuo tono, si direbbe quasi che ti aspetti che io ti sia riconoscente» borbottò lei con aria scontrosa. «Come se mi avessi fatto un piacere a venire qui».
«Non esagerare, sai bene che non è cosí» ribattei.
«E quello che hai scritto? Non è forse una pura crudeltà?» mi disse dopo avermi fulminato con lo sguardo e indicando la mia lettera. «“Spero potrai capire, grazie”… Ma ti rendi conto? Mi hai liquidata con poco piú che una frase fatta. Che cosa sono per te, eh? Solo un oggetto? Lei ci ha scoperto e noi non dobbiamo piú vederci: ti sembra cosí ovvio e scontato?»
«Anche per me non è facile, cosa credi? Ma è meglio non inasprirla».
Neanche il tempo di pronunciare l’ultima frase e X mi mollò un ceffone. Ci rimasi di stucco, non mi era mai capitato di essere colpito in quel modo da una donna. Doveva essersi fatta male, aveva l’espressione contratta e continuava a sfregarsi le mani.
«Ma che fai, che cosa ti prende?» protestai.
E lei, raddrizzando la schiena e assumendo un atteggiamento ancora piú aggressivo, rincarò la dose dicendo: «È meglio non inasprirla? Perché? Dovrei sopportare tutto zitta e muta cosí che il vostro matrimonio possa durare? Se la situazione è questa, non so che cosa tu ci faccia qui da me! Erano tutte menzogne quando mi dicevi che mi amavi alla follia? Per non parlare di quando mi hai promesso che avresti fatto tutto il possibile per lasciarla e vivere insieme a me! Non voglio fare la parte dell’amante che si lamenta, come spesso succede nelle vecchie canzoni d’amore, ma quando è troppo è troppo! C’è un limite a tutto. Non è giusto considerare gli altri come degli idioti al proprio servizio!»
X stava per piangere, le tremava la voce, ed ecco che le lacrime tracimarono dai suoi grandi occhi.
«Io ti amo, lo sai. Voglio te, ti desidero. E anch’io sono in grande difficoltà e non so piú cosa fare. Ho tre figli, come potrei abbandonare la famiglia? Secondo te, sarebbe giusto piantarli in asso da un giorno all’altro? Sono ancora piccoli, hanno bisogno di me. Perché non riesci a capirlo?»
Ero consapevole che le mie parole fossero incoerenti e contraddittorie, ma non riuscivo a frenarmi. Quando Chiyoko perdeva il controllo, mi sforzavo di mantenere il sangue freddo. Ma quando era X ad andare su tutte le furie, la sua frenesia si propagava fino a me e mi lasciavo trascinare insieme a lei nel turbine della follia.
«Non ti ho mai chiesto niente del genere» si lamentò X. «Dopo il mio primo aborto, hai fatto un altro figlio con lei, il terzo. E quando sono rimasta di nuovo incinta, mi hai fatto abortire ancora una volta. Mi sbaglio, forse? Hai ammazzato i miei due bambini… Quindi non credo che non avresti il coraggio di abbandonare i tuoi. Mi hai detto che un giorno saremmo andati a vivere insieme e ci saremmo sposati solo perché ti sentivi in colpa nei miei confronti, eh? Mi hai riempito di menzogne!»
Parlava con una foga tale che il suo viso aveva cambiato colore. Le sfuggí uno schizzo di saliva e mi finí sul collo. Me lo asciugai con il dorso della mano e poi le accarezzai la guancia.
«Dài, calmati. Una donna bella come te non dovrebbe spazientirsi fino a questo punto, sputando saliva e diventando volgare».
«Mi spiace molto se sono volgare!»
«Certo, puoi ben dirlo!»
«E allora perché vieni cosí spesso da una donna volgare, eh? Non cercare di cambiare argomento, non mi freghi».
«Non sto affatto cercando di cambiare argomento».
«E allora rispondimi con onestà, riconosci che sei un uomo crudele e un farabutto!»
Un farabutto… Me lo aveva detto anche Chiyoko.
«Va bene, ma riconosci anche tu di essere una donna crudele e una farabutta, tu che ti abbandoni a me tutte le volte!»
Eravamo ancora in piedi in un angolo del salotto, lí a scambiarci occhiate astiose e a insultarci a vicenda. X mi si avvicinò per colpirmi di nuovo, ma questa volta riuscii ad afferrarla per le braccia e con una presa da judoka la feci cadere all’indietro sul divano. Disteso con tutto il peso sopra di lei, la tenevo ferma e non le permettevo il minimo movimento. Allora lei, furiosa e senza sapere cos’altro fare, mi sputò in piena faccia. E io avvicinai il mio viso al suo per asciugarmi la saliva contro le sue guance. Mentre ci dibattevamo come due ossessi, bagnato dalla sua saliva e dalle sue lacrime, mi sentii invadere da un’onda di bieco cinismo. Mi voleva resistere, al che le strappai i vestiti di dosso, la costrinsi a girarsi a pancia in giú e provai a prenderla da dietro.
«No, no, non voglio!»
Incurante delle sue urla disperate miste a pianto, le tappai la bocca con la mano e la penetrai di forza. Mentre mi muovevo con violenza dentro di lei, riuscivo a mantenere una certa freddezza ed ero consapevole che la stessi stuprando. Da una parte mi vergognavo di essere né piú né meno che uno sporco violentatore, ma dall’altra non potevo evitare di pensare che fosse stata X a sbagliare e a provocarmi. I pantaloni mi scivolarono fino alle caviglie e il portafogli e le chiavi di casa mi caddero dalle tasche tintinnando sul pavimento. X teneva il capo rivolto da un lato, lo sguardo fisso su quei due oggetti, mentre continuava a subire la mia violenza. Di colpo ebbi paura.
«Perdonami, ho perso la testa» mormorai con un filo di voce.
Subito dopo essermi scusato, emisi uno sbuffo d’aria liberatorio contro la sua fragile schiena. La stavo schiacciando sotto il mio peso, eppure non diceva niente, non si lamentava. Allora mi staccai da lei e guardai la metà inferiore del suo corpo nudo, le sue natiche bianche e sode.
«È tutta colpa di questo!» dissi, mollandole una sonora pacca sul sedere.
Lei ebbe un sussulto e si ritrasse, e io ripetei: «È colpa di queste natiche formose e provocanti!»
La colpii ancora, prima da una parte e poi dall’altra, stavolta con tutte le mie forze. La pelle diafana del suo sedere avvampò in pochi istanti, come avesse il fuoco sotto. Il suo corpo doveva essere pieno del mio seme. Al pensiero che uscisse fuori dalla vagina sotto i miei colpi violenti e schizzasse dappertutto, mi eccitai di nuovo. X si voltò e mi guardò con occhi di fiamma.
«Perché non ce ne andiamo di là sul letto?» mi propose. Assentii senza pensarci due volte e le sfilai il maglioncino e la camicetta. Poi le strinsi piano tra le dita i capezzoli raggrinziti dal freddo. Quelli di Chiyoko erano piú grandi e ben formati. Perché li stavo confrontando? Era da “farabutti” paragonare due donne, ma in fondo io ne avevo tutto il diritto, perché ero un vero “farabutto”! Il maschio virile che si agitava nel mio profondo mi incoraggiava e mi dava ragione, in sintonia con il mio umore del momento. X era completamente nuda: la presi per mano, la condussi verso il letto, sollevai le coperte e la adagiai sulle lenzuola candide.
«Queste lenzuola sono gelate» si lamentò con voce suadente.
Tremava tutta. In piedi, ammiravo quel corpo di indicibile bellezza, il cui biancore aumentava man mano che il crepuscolo si insinuava nella stanza. Ardente di impazienza, X tese le braccia verso di me.
«Vieni, che aspetti?»
«Quindi il problema di prima è risolto?» le chiesi con una certa malizia.
«Ci penseremo dopo» rispose tirandomi per l’orlo del cardigan.
Raccolsi da terra il portafogli e le chiavi e li infilai nella tasca dei pantaloni.
Mi svegliai affamato, la stanza era immersa nell’oscurità. Ma non avevo una gran voglia di alzarmi e desideravo restarmene rannicchiato al fianco di X. Frattanto anche lei riaprí gli occhi, e provai a farle il solletico sull’addome liscio e piatto.
«No, smettila» mi disse ridendo.
«Come vuoi, in effetti ho una fame pazzesca. Alziamoci e andiamo a mangiare qualcosa».
«Bene, ci sto. Che cosa ti andrebbe?»
«Che ne dici di rāmen e gyōza? Ovviamente accompagnati da una bella birra ghiacciata».
«Ah, come al solito. Non cambi mai tu, eh?»
X scoppiò in una risata felice. Sollevai il busto, afferrai le mutande e me le infilai. Poi accesi la lampada sul comodino e guardai l’orologio: le otto di sera passate.
«Caspita, pensavo fosse piú presto. Se non ci spicciamo ad andare a mangiare, rischio di perdere l’ultimo treno».
Quando mi resi conto della portata di quello che avevo detto, era già troppo tardi. L’atmosfera si raggelò all’istante.
«Torni a casa, vero?»
La voce di X era glaciale.
«Sí, certo. Come sempre, no?»
Seguirono alcuni attimi di silenzio. X si girò dandomi la schiena, eppure immaginavo i suoi occhi che mi fissavano con profondo risentimento. Trovavo molto inquietante che se ne stesse cosí, senza fiatare. Raccolsi un calzino e me lo infilai.
«Questa sera resta, ti prego» mi disse, continuando a darmi le spalle.
Non era la prima volta che me lo chiedeva. Lo faceva per farmi innervosire. Un po’ seccato, cercai senza successo l’altro calzino.
«Accendi la luce, per favore».
«Resta, solo per questa volta».
«Devo pensarci, ma adesso accendi la luce».
«No!» rifiutò categorica, sottolineando la sua ostilità con una pausa. «Tu vuoi che accenda la luce per controllare di aver messo i calzini come si deve e le mutande nel verso giusto, eh? E anche per assicurarti di non avere dei succhiotti da qualche parte! Cosí non va per niente bene, tornatene pure a casa tua!»
Mi alzai in piedi senza replicare. Sapevo bene dove si trovava l’interruttore della luce. X cercò di fermarmi aggrappandosi con le braccia intorno alle mie gambe, ma riuscii a divincolarmi con facilità dalla sua stretta. Non abbassai la guardia, ormai avevo imparato che ci avrebbe riprovato tentando un attacco a sorpresa. Difatti la sentii fare una mezza capriola sul materasso e rimettersi in piedi con un balzo, dopo di che allungò una gamba e mi fece lo sgambetto. Incespicai, stupefatto dalla rapidità dei suoi movimenti, e cercai di tenermi allo schienale di una sedia. Ma caddi lo stesso in avanti, trascinandomi dietro anche lei. Seguí un grande tonfo, il pavimento di legno tremò. Picchiai forte il ginocchio per terra e sentii un dolore atroce.
«Ma che diavolo fai?» protestai. «È pericoloso!»
Nell’attimo in cui mi voltai, vidi la sveglia volare verso di me e cadere rumorosamente al mio fianco.
«Basta! Per poco non mi colpivi!» urlai.
Neanche il tempo di concludere la frase e mi beccai un cuscino in piena faccia. Glielo rispedii subito indietro e le intimai di calmarsi. Niente da fare: il cuscino volò di nuovo per aria e stavolta ricadde floscio ai miei piedi. La lasciai perdere e mi preparai a tornare a casa.
«Non è giusto, non puoi fare sempre come ti pare…» mi disse con voce tremula. «Non venire mai piú».
«D’accordo. Non rimetterò mai piú piede in questo posto».
«“In questo posto”… Almeno ti rendi conto di quello che dici? Sei un essere spregevole, sei crudele».
«Sí, lo so, e te lo ripeto se vuoi, anche mille volte: non rimetterò mai piú piede in questo posto, in questo posto, in questo posto!»
Pronunciai quelle ultime parole nel modo piú sprezzante possibile. Ero andato da lei perché volevo vederla, e invece avevo dovuto subire le sue accuse e le sue rimostranze: in quel momento pensavo con tutto me stesso di mettere un punto fermo alla nostra storia. X scoppiò in un pianto irrefrenabile. «Sei un mostro! Sei un mostro!» ripeteva tra un singhiozzo e l’altro, il viso premuto contro il materasso. Perché doveva essere tutto cosí complicato? Mi sentivo con le spalle al muro, non sapevo piú cosa fare. Ero cosciente di essere un egoista, ma X era consenziente e mi accettava per quello che ero: non aveva anche lei una parte di responsabilità? Non aveva detto che dovevamo parlare e cercare di risolvere insieme il problema?
«Forse ora rimarrò di nuovo incinta» si lamentò in tono rabbioso. «Mi hai violentata!»
«Nel caso, provvederò io alle spese».
Dopo che ebbi pronunciato quella frase, si sentí risuonare nella stanza il rumore di qualcosa che andava in frantumi. Forse si era spezzato il filo che ci teneva legati, o forse era scoppiato in un sol colpo il suo cuore pieno d’amore, o forse ancora si era infranta la mia sottile corazza di uomo tutto di un pezzo. Feci finta di niente e mi infilai i pantaloni. Le chiavi di casa urtarono contro il portafogli e produssero un tintinnio sordo in fondo alla tasca. E intanto X si era ammutolita. Abbandonata sul letto, si limitava a tirare su col naso e a singhiozzare. Mi fece pietà. Riuscirò mai a separarmi – pensavo – da questa donna cosí bella, allegra e intelligente? I nostri momenti felici insieme e i ricordi dolenti mi affiorarono alla mente tutti in una volta e provai una tristezza devastante. Se ci fossimo detti addio in quel preciso istante, dopo quella lite, come l’avrebbe presa e quale sarebbe stata la sua reazione? Le sarebbe potuto saltare in testa di presentarsi a casa mia, e allora sí che Chiyoko sarebbe impazzita e la mia famiglia ne sarebbe uscita distrutta. Di colpo mi sentii assalire da un’ansia soffocante, non potevo andarmene via cosí.
«Ascoltami» le dissi, «ti chiedo scusa, perdonami».
Ma lei non diede segni di reazione.
Allora aggiunsi: «Ti supplico, non potresti aspettare solo un altro poco?».
«Aspettare cosa?» ribatté finalmente con voce ovattata, la testa infilata sotto le coperte.
«Che la situazione si calmi. Ti prego, devi avere solo un po’ di pazienza».
«Tu vuoi che tutto si aggiusti, vuoi che non cambi niente» disse, la voce incrinata dal pianto cosí simile a un lamento disperato. «Hai paura di perdere la tua famiglia, ma a noi due non ci pensi? È troppo comodo pretendere di volere tutto».
Tutto o niente, sapevo solo che non volevo distruggere la mia famiglia. Noi uomini siamo fatti cosí. Di fronte a quel tipo di problemi, otto o nove uomini su dieci reagiscono nello stesso identico modo e badano soprattutto a preservare il focolare domestico.
«Voglio una risposta: che cosa intendi fare con me?» continuò X, interrompendo per un attimo il suo pianto.
«Vorrei andare avanti, se sei d’accordo».
«In che senso? Non credo di capire…» ribatté, scoppiando di nuovo a piangere. «Vuoi andare avanti di nascosto, come due delinquenti, non è vero? Tu a lei non dirai mai niente, non verrai mai a vivere con me! Sei solo un egoista!»
«Sapevi fin dall’inizio che le cose stavano cosí. Se non ti sta piú bene, devi solo dirmelo e toglierò il disturbo per sempre».
Cercavo di essere il piú duro e scaltro possibile e di impaurirla. Del resto non avevo altra scelta, dovevo sperare che accettasse e tacesse.
«Ho capito. Ci rifletterò su e ti darò una risposta». Poi si girò verso la parete con un gesto stizzoso e non aggiunse altro.
Andai nella stanza da bagno e, dopo aver svuotato la vescica, mi guardai bene allo specchio per verificare di non aver infilato le mutande e i calzini alla rovescia, quindi mi diedi una sistemata ai capelli con le mani. Finii di rivestirmi e mi preparai ad andare via, mentre X continuava a restarsene immobile sotto le coperte.
«Io vado» le dissi. «Si tratta solo di un momento, vedrai che passerà in fretta. Ciao, a presto».
Rimasi per qualche attimo fermo sull’uscio, pensando di ricevere una risposta, ma lei mantenne ostinatamente il silenzio. Dopo aver chiuso la porta, sentii il cuore stringersi in una morsa di tristezza e per poco non scoppiavo a piangere. Non volevo separarmi da X. Ma in quel momento non c’erano alternative, altrimenti Chiyoko non si sarebbe tranquillizzata e a casa non sarebbe mai tornata la pace. Cercai di farmi forza e di mettere il piú possibile da parte i sentimenti, sfidando il vento freddo dell’inverno. Ma lungo la strada che portava alla stazione, pensando a Chiyoko e al modo in cui l’avevo piantata in asso in casa editrice, fui sommerso da un’onda enorme di ansia e sconforto.
Avvolto nel buio, percorsi il tragitto di circa quindici minuti dalla stazione fino a casa facendo il possibile per placare l’angoscia. E se Chiyoko, all’apice della collera, si fosse suicidata insieme ai bambini? Se avesse appiccato il fuoco alla casa? Se fosse tornata dai genitori in Hokkaidō portandosi dietro i nostri figli? Delle tre ipotesi, la piú inverosimile era certamente la terza, perché non avevamo il denaro sufficiente per affrontare un viaggio nel lontano Nord. Guadagnavo poco e niente, al punto che mio padre non perdeva mai occasione per rinfacciarmi che la mia scelta di fare lo scrittore di professione era prematura. Le mie rare entrate provenivano dalla collaborazione saltuaria con qualche rivista letteraria e dalla percentuale che ricevevo sulle vendite dei miei libri. Uno scrittore agli esordi non vende chissà quanto e il mio primo libro, La macchina dei ricordi futuri, mi era stato pagato “in merce”, ovvero in libri! La casa era invasa dalle copie del mio romanzo e non riuscivamo proprio a smaltirle, anche se ne regalavamo una a tutti i nostri ospiti. Ecco perché non avevamo abbastanza soldi per un’eventuale fuga.
Svoltai l’ultimo angolo con il cuore in gola. La casa era ancora lí, per fortuna non era andata in fiamme. Mi sentii sollevato, ma a ben vedere le luci erano spente. Mi avvicinai e spiai all’interno.
«Ehi, c’è nessuno?»
La porta si aprí di colpo e apparve Chiyoko. Mi fece venire la pelle d’oca, se ne stava in piedi con la schiena dritta nel vano d’ingresso buio. Tutto tremante, la guardai dalla testa ai piedi, chiedendomi se per caso non fosse un fantasma. Meno male che almeno non era tutta ricoperta di sangue! Aveva indosso gli stessi abiti del mattino e mi fissava con un sorriso mite.
«Che cosa ci fai là in piedi, al buio?» le chiesi, almeno in parte rincuorato.
«Niente, ti stavo aspettando. A dire il vero ero un po’ preoccupata».
La squadrai bene in viso, cercando di decifrare la sua espressione.
«Scusami molto per oggi pomeriggio» le dissi. «Mi ero completamente dimenticato di una riunione importante con i colleghi della rivista e sono dovuto scappare».
«Non importa. D’altra parte anch’io credo di avere esagerato, mi sono comportata male. So bene che ti ho fatto fare una figuraccia, ma mi è montato il sangue alla testa e non ci ho capito piú niente. Scusami».
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, era un miracolo o cosa? Eppure c’era qualcosa di inquietante nel tono e nell’atteggiamento di Chiyoko. Entrai in casa e mi sfilai le scarpe. Mi veniva dietro come un’ombra, sentivo il suo fiato sul collo e avevo una paura tremenda che potesse accorgersi di qualcosa. Quando mi tolsi la sciarpa, mi resi conto che mi tremavano le mani.
«Comunque» continuò lei con grande spigliatezza, «sono stata molto contenta di scambiare quattro chiacchiere con T.».
Povero T., chissà che imbarazzo – pensai subito, ricordandomi la sua fronte alta e il cranio allungato. Era poco piú che un ragazzo, aveva una decina di anni meno di me.
«Di che cosa avete parlato?»
«Anch’io scrivo delle poesie e delle favole, e perciò gli ho chiesto se poteva dare un’occhiata».
La guardai basito. Era tutta fiera e gongolante. Non me ne aveva mai parlato, non sapevo che scrivesse. Mi alzai in piedi e, approfittando di un suo attimo di disattenzione, mi avvicinai il braccio alla faccia con un gesto disinvolto e annusai la manica della camicia per assicurarmi che non fosse impregnata di un odore femminile.
«Non te ne ho mai parlato?» mi chiese dopo qualche secondo, con voce piena di brio. «Che strano, ero sicura di avertelo detto. Quando vivevo in Hokkaidō, mi dedicavo spesso alla poesia, componevo soprattutto dei tanka. Avevo anche uno pseudonimo: Chiyojo».
«Ah, come Kaga no Chiyo, la celebre poetessa del diciottesimo secolo, giusto?»
Chiyoko sorrise contenta alla mia battuta. A dire il vero ero perplesso, ma per fortuna la sua offensiva sembrava essere stata frenata dalle sue velleitarie ambizioni letterarie. Non sapevo per quanto a lungo sarebbe durata la tregua, ma per il momento era meglio non pensarci e godersi la relativa tranquillità.
«T. è stato molto gentile e mi ha detto che la prossima volta mi presenterà un editor specializzato in letteratura per l’infanzia» proseguí Chiyoko con grande entusiasmo. «È fantastico, no? Voglio impegnarmi a fondo, è una grande occasione».
«Sí, certo» mormorai a bassa voce. Chiyoko era su di giri, quasi irriconoscibile rispetto a poche ore prima. Ed ecco che cominciavo a provare una certa pena per X, che avevo appena lasciato. In quel momento non ero a conoscenza di un dettaglio importante: dopo essere andata via dalla casa editrice, Chiyoko aveva fatto visita a un’altra donna, portando con sé un coltellaccio da cucina.
3
«Sveglia! Sveglia!»
Mi ridestai di soprassalto, era la voce di Chiyoko. Neanche il tempo di riaprire gli occhi e mi sentii scuotere forte per le spalle. Non avevo bisogno di vedere il suo viso, quei modi violenti e quel tono aspro e incalzante bastarono a farmi capire che mia moglie era di nuovo nera di rabbia. Quando usciva dai gangheri avevo una paura tremenda di affrontarla. Rimasi disteso senza aprire gli occhi, fingendo di rigirarmi nel sonno e rintanandomi sotto la trapunta. E mentre mi sforzavo di riacquistare una certa lucidità mentale, cercavo di riflettere su quello che era potuto succedere.
La sera prima, Chiyoko aveva mostrato un buon umore decisamente sospetto. Si era infilata nel mio futon e aveva tentato di stuzzicarmi afferrandomi piú volte la mano e accostandosela ai seni. Per quanto fossi stupito, avevo preso ad accarezzarle i capelli e avevo tirato di nuovo fuori il discorso sulle poesie e le favole che aveva scritto di nascosto. «Da quand’è che ti sei messa a scrivere? Sono sorpreso, non me l’aspettavo» le avevo detto di preciso. E lei mi aveva risposto nel dettaglio, lanciandosi in una lunga spiegazione. Poi, visto che non si decideva a tornarsene al suo posto, avevamo finito per fare l’amore, dopo tanto tempo. In quel momento, l’esistenza di X mi era completamente uscita dalla testa. Con una certa leggerezza, pensavo addirittura che avrei potuto spassarmela con Chiyoko tra le mura domestiche e con X a casa sua. E, con un’arroganza spropositata, avevo concluso che forse mia moglie mi aveva perdonato e potevo lasciarmi alle spalle ogni problema. Ecco perché, quella mattina, il suo comportamento mi fece l’effetto di una doccia gelata.
«Su, svegliati!» continuava a insistere. «Stai abusando della mia pazienza, non puoi dormire e fare finta di niente! Che razza di uomo sei? Per non parlare della tua bella X! Ti sei lasciato abbindolare da una strega. Ma come fai a non rendertene conto? Ce l’hai o no un po’ di sale in zucca? Sei un miserabile, mi fai pena!»
Tutt’a un tratto sentii sotto il naso l’inconfondibile odore della carta. A quel punto non potei fare a meno di aprire gli occhi, giusto un attimo prima che Chiyoko mi coprisse la faccia con un foglio, a mo’ di un sudario sul volto di un cadavere. Che diavolo era? Una lettera di denuncia o qualcosa del genere? Mi sollevai di scatto e tentai di afferrare il foglio. Ma Chiyoko si tirò prontamente indietro, come se stesse giocando con un gatto. La mia mano strinse solo un pugno d’aria, mi sentivo ridicolo e deriso.
«Che cos’è quel foglio? Che cosa c’è scritto?» urlai.
«Dovresti chiederlo a te stesso, mio caro. Quando si vive a contatto con un bugiardo farabutto come te, tutto finisce inevitabilmente sottosopra. Maledetti! Tu e la tua X ci avete avvelenato la vita, avete distrutto una famiglia! Se non vuoi piú stare con me e con i bambini, togliamo subito il disturbo. Abbi almeno il coraggio di dirlo e prenditi le tue responsabilità. A questo punto, preferisco divorziare il piú in fretta possibile e tornarmene in Hokkaidō con i bambini. Non vogliamo stare un attimo di piú accanto a un vile traditore come te!»
Chiyoko era fuori di sé, parlava a raffica e in dialetto, e facevo una gran fatica a distinguere le sue parole. Inoltre, dal modo in cui si esprimeva, mi resi conto che doveva esserci qualcun altro nella stanza: mi guardai intorno e vidi Takako e Michiko sedute in silenzio ai piedi del futon.
«Voglio anch’io un teeglamma!» proruppe allora Michiko, pronunciando male quella parola che doveva avere imparato solo da poco.
Lei e la sorella erano ancora in pigiama, perciò dovevano essere al massimo le otto. Takako, con un libro illustrato in grembo, guardava alternatamente me e la madre, mentre Michiko stringeva in mano una vecchia bambola di pezza che aveva ereditato dalla sorella. In poche parole, senza rendermene conto, mi ero ritrovato circondato da tre donne. Chissà da quanto erano lí ad osservare la mia faccia addormentata.
«Si può sapere di cosa diavolo si tratta? Da’ qua, fammi vedere!»
Tesi di nuovo la mano, ma Chiyoko prima fece finta di passarmi il foglio e poi ritrasse il braccio. Al che persi l’equilibrio per qualche attimo e lei distorse il viso in una risata maligna. Feci schioccare forte la lingua, via via piú indispettito. E intanto Takako ci lanciò uno sguardo pieno di astio e si voltò di scatto da un lato, come se avesse visto qualcosa di orripilante.
«Adesso basta!» urlai verso Chiyoko con tutto il fiato che avevo in gola.
E lei finalmente mi lanciò il foglio. Lo raccolsi e rimasi senza parole: era un telegramma di X.
«Ieri sera, dimenticato chiavi da me. X»
Allora mi ricordai delle chiavi e del portafogli che mi erano caduti dalle tasche dei pantaloni, e anche dello sguardo di X, rivolto a quei due oggetti sul pavimento mentre la penetravo da dietro. Mi ha fregato!, pensai tra me e me, sentendomi crollare il mondo addosso. X era al corrente della situazione che regnava a casa mia, lo aveva fatto apposta. Inviare un telegramma per una cosa da nulla equivaleva a gettare olio sul fuoco. L’avevo sottovalutata, non la facevo capace di una tale perfidia. “Dimenticato chiavi da me”… Maledetta!
Mi sentii prendere da un moto di collera violenta nei suoi confronti. Se in quel momento me la fossi trovata davanti, le avrei messo le mani al collo. Immaginai Chiyoko all’alba, allarmata dall’arrivo del telegramma mentre si precipitava verso la porta d’ingresso. Cosa può esserci di piú angosciante di un telegramma in piena notte o alle prime luci del giorno? La malvagità sconosciuta di X mi spaventava.
«Ieri, dopo che mi hai piantata in asso, sei corso subito da lei, eh?!» ruggí Chiyoko.
Il suo viso rosso di rabbia mi riportò per assurdo alla mente il periodo del nostro incontro a Obihiro, in Hokkaidō. Di primo mattino, in ufficio, aveva sempre le guance molto arrossate per il freddo. Che strano ricordo, non riuscivo a capacitarmi che fosse venuto a galla in un momento tragico come quello. Forse, la nostra breve riconciliazione notturna mi aveva reso fiducioso e nostalgico. Invece Chiyoko era furiosa, lí a scagliarmi contro le fiamme dell’inferno.
«Hai avuto il coraggio di lasciarmi da sola in un posto che non conoscevo, in mezzo a dei completi estranei, per andare da lei!»
«Smettila, non sono andato da lei! Avevo una riunione con quelli della rivista, te l’ho detto!»
«E il telegramma, allora? Quando ieri sei sparito, ho subito pensato che saresti andato a casa sua. Ma poi ho cercato di togliermi quel pensiero dalla testa, perché non volevo farti soffrire a causa dei miei sospetti».
«Ah, grazie mille per la premura!»
Cominciavo a perdere la testa, non ne potevo piú. Avevo tentato persino di metterla sull’ironia, ma Chiyoko non voleva saperne e continuò con la sua invettiva.
«Ho cercato di calmarmi, mi ripetevo che dovevo crederti e che eri andato davvero alla riunione. “Devi dargli fiducia” mi dicevo, “altrimenti anche i bambini ne soffriranno e la nostra famiglia andrà in malora”. E invece tu eri da lei e mi tradivi… Sono stata una povera illusa, un’idiota! Ma tu sei uno sporco traditore! Bugiardo! Perché tutto questo doveva capitare proprio a me? Mi hai umiliata, nessuno mi aveva mai trattata cosí in vita mia!»
«Te lo ripeto per l’ennesima volta» la interruppi alzando la voce, «ti giuro che non sono andato da lei, devi credermi! Le chiavi devono essere qui da qualche parte!»
Ricordavo perfettamente di averle infilate insieme al portafogli nella tasca dei pantaloni, non potevo sbagliarmi. Ma niente mi impediva di pensare che non fossero cadute di nuovo in un secondo momento. Di colpo mi sentii travolgere da un’ansia indescrivibile, che quasi mi impediva di ragionare. Il portafogli ce l’avevo regolarmente in tasca, mi era servito quando avevo preso il treno. E le chiavi? Non potevo averle perse, perché ero rientrato a casa… Poi, all’improvviso, mi ricordai che era stata Chiyoko ad aprirmi la porta la sera prima, per cui non c’era alcuna certezza che avessi le chiavi in tasca insieme al portafogli.
«E invece non ci sono, le ho cercate dappertutto!» ribatté con aria trionfante Chiyoko.
A quanto pareva, aveva messo a soqquadro la casa. Aveva ficcato le mani persino nella mia camicia, nelle mutande e nei calzini. Mi lasciai cadere all’indietro sul futon, emettendo un sospiro di rassegnazione. Prostrato e abbandonato, sentivo di non avere un posto dove rifugiarmi. Perché avevo deciso di non andare piú a casa di X, perlomeno fino a che le acque non si fossero calmate. Quando Chiyoko era ancora all’oscuro di tutto, quella casa era un vero paradiso, la mia oasi di pace e amore.
Ma ora lei aveva scoperto quel paradiso e lo aveva invaso con la chiara intenzione di distruggerlo. Quanto a X, adesso che Chiyoko aveva fatto irruzione nel nostro Eden, era andata su tutte le furie e mi si era rivoltata contro. Avevo perduto la libertà, non avevo piú un posto per me, né a casa mia né da X. Ero solo, abbandonato, cacciato dal paradiso terrestre per l’eternità. Pervaso da una collera indicibile, cominciai a provare un sentimento molto simile nei confronti di entrambe. Le detestavo dal profondo dell’anima. Una spossatezza terribile mi ridusse allo stremo delle forze fisiche e mentali.
Mi sentivo schiacciato dall’angoscia: le mie relazioni interpersonali avevano finito per tessere una ragnatela dalla quale non riuscivo piú a divincolarmi. Non potevo andare avanti cosí, la situazione era insostenibile. Gettai un’occhiata alle mie figlie: Takako era sul chi va là, attenta a spiare le mie reazioni e quelle di sua madre, mentre Michiko stringeva la sua bambolina tra le braccia con aria preoccupata. In quell’attimo preciso, nella stanza accanto, Yōhei si mise a piangere. Anche quei bambini appartenevano al cerchio delle mie relazioni interpersonali. Una volta diventati adulti, mi avrebbero odiato anche loro per il caos che avevo provocato. Che orrore!
Mi alzai in piedi con estrema lentezza, affaticato come un vecchio. Frugai nelle tasche della giacca e dei pantaloni appesi in soggiorno. Ritrovai il portafogli, ma non le chiavi di casa. Mi sarei messo a piangere. Immaginai X, furibonda a causa del mio egoismo, mentre sferrava un calcio rabbioso alle mie chiavi. E, ancora, mentre si infilava in fretta il cappottino giallo e correva a spedirmi quel telegramma.
«Che fine avranno fatto le mie chiavi? Non riesco a capire…»
«Piantala con questa sceneggiata! Sono stanca delle tue menzogne, brutto idiota!»
Subito dopo aver pronunciato quelle parole ingiuriose, Chiyoko mi colpí con un calcio dietro le ginocchia e mi fece perdere l’equilibrio. Appoggiandomi con le mani alla parete per evitare di cadere, mi voltai di scatto e la guardai esterrefatto. Allora lei, forse cogliendo il mio spavento, distorse il viso in una maschera di sadico terrore, tra il riso e il pianto.
«Sporco bastardo! Farabutto!» si mise a inveire a squarciagola. «Vigliacco! Non vali niente!»
Era lí, pronta ad aggredirmi di nuovo come una belva.
«Basta, metti giú le mani! Devi calmarti!» urlai, afferrandola per i polsi mentre tentava di colpirmi al volto.
«Ah, devo calmarmi? E come dovrei fare? Forza, dimmelo tu! Non ti rendi conto come mi sento? Diventerò pazza per colpa tua! Mi arriva un telegramma di punto in bianco, per poco non mi viene un colpo al pensiero che possa essere successo qualcosa di brutto a mio padre, e invece… Sei un bastardo! Mi hai rovinato la vita!»
Le mani strette nella mia presa, Chiyoko si dimenava e pestava i piedi per la collera, tanto che il pavimento e l’intera casa sembravano tremare. Di fronte alla reazione violenta della madre, Michiko indietreggiava a piccoli passi verso la parete, l’espressione sconvolta. Intanto Takako si era seduta sul mio futon, immersa nel suo libro illustrato per fuggire dalla realtà.
«Piantala di urlare, o ci sentirà tutto il vicinato!»
«Non me ne frega niente! Che cosa c’è, ti dà fastidio? Non ti piace piú fare lo spaccone? Non eri onnipotente? Pensa a trovare una soluzione e a farmi calmare, piuttosto, altrimenti impazzirò di brutto e non risponderò piú delle mie azioni, hai capito?! Potrei commettere una sciocchezza e coinvolgere anche i bambini. È molto facile, sai? Mi basterebbe prendere Takako e Michiko per mano, Yōhei sulla schiena e salire sulla terrazza di un grande magazzino! Oppure potrei gettarmi insieme a loro sui binari al passaggio di un treno in corsa! Pensaci bene, stai rischiando grosso».
Non credo che volesse solo spaventarmi: aveva lo sguardo fisso nel vuoto, sembrava davvero sull’orlo della follia. Mi sentivo impotente, non trovavo neanche le parole per risponderle. Un uomo, messo di fronte a una realtà che non può negare, resta senza voce prima di tentare la strada della menzogna.
«Quella donna è una strega, lo ha fatto apposta. Non lasciamoci fregare!» dissi tentando il tutto per tutto.
Chiyoko mi fissò con uno sguardo freddo, come se volesse farmi capire che non mi avrebbe mai creduto. Nel suo atteggiamento percepii addirittura una traccia di quella complicità femminile alla quale talvolta le donne usano ricorrere per avere la meglio sugli uomini che si comportano male. Eppure decisi di non abbandonare la via della falsità e della menzogna, infilandomi in un ginepraio senza ritorno.
«Stammi bene a sentire, è tutto vero, non ti ho affatto mentito. Ieri avevo una riunione da Isegen, ti giuro che non sono stato da lei. Ho perduto le chiavi per puro caso, non so nemmeno io come e dove. Devi credermi, è cosí. Da Isegen, ho visto Ebihara e Tada e abbiamo parlato della nostra rivista bevendo sake. Chiedi pure a loro, se la mia parola non ti basta. E se anche ti stessi mentendo − e sottolineo il “se”, bada bene −, un telegramma come quello nasconde sempre dei secondi fini. È cosí ovvio: quella donna vuole separarci, vuole distruggere la nostra famiglia perché mi odia. Devi restare calma e usare la ragione, altrimenti non fai altro che portare acqua al suo mulino. Te lo ripeto, è una strega pronta a colpirci con il suo veleno nella speranza di raggiungere il suo scopo. Fidati di me e vedrai che in qualche modo ce la caveremo».
«Non mi stupisce che quella donna ti odi e ce l’abbia a morte con te» ribatté in tono gelido Chiyoko. «Avrai riempito di menzogne anche lei, ormai ti conosco bene».
Rimasi atterrito dalla facilità con la quale mi aveva messo alle corde. Aveva ragione, non c’era molto altro da aggiungere. Ero distrutto, mi conveniva cambiare strategia, altrimenti mi sarei ridotto a dover considerare persino la strada del suicidio!
«Bene, allora dimmi che cosa intendi fare. Vuoi darle partita vinta? Vuoi che ci separiamo e vuoi suicidarti insieme ai nostri figli? Se è cosí, io ti seguirò e mi toglierò la vita con voi. Siete la mia unica famiglia. Non c’è niente di piú prezioso al mondo: la famiglia. Chi ha la fortuna di averne una, non dovrebbe mai rischiare di perderla. Quella donna agisce cosí perché vuole allontanarmi da voi, è possibile che tu non lo capisca? Svegliare le persone all’alba con un telegramma è qualcosa di diabolico! Ti prego, ascoltami, non lasciarti irretire da quella strega. Restiamo uniti, perché solo cosí potremo sperare di avere la meglio ed essere felici. Ma se proprio non vuoi capire, allora sarò io ad ammazzarmi e a togliere il disturbo per primo. Pensaci bene, prima di prendere qualsiasi decisione. Pensa ai nostri bambini: ti pare giusto che debbano morire per mano della loro madre? Per mano di una donna stolta che dà per vero quello che dice una donna ancora piú stolta? Cerca di metterti al mio posto, per favore. E se non mi lascerai scelta, mi ammazzerò per primo!»
Non appena ebbi pronunciato l’ultima parola, mi avviai di corsa verso la porta d’ingresso. Ero disperato. Mi voltai indietro, ma Chiyoko se ne restava lí impalata e non faceva niente per trattenermi. Si limitava a tenere lo sguardo fermo sui bambini, scura in volto. Allora tornai sui miei passi. L’unico modo per tentare di farla ragionare era denigrare il piú possibile X. Sentivo dentro di me un astio profondo nei confronti di quella donna e il bisogno urgente di vendicarmi.
«Mamma, chi sarebbe questa strega?» chiese in tono inquisitorio Takako, che d’un tratto si era alzata in piedi e si era avvicinata alla madre.
«Non ti riguarda! Io e tuo padre stiamo parlando di cose importanti» la fulminò Chiyoko.
Sorpresa da quel rimprovero inatteso, Takako trattenne a stento le lacrime e abbassò lo sguardo. Al che Michiko le si avvicinò per consolarla.
«Non devi rivolgerti cosí alle bambine!» intervenni io. «Questo è proprio quello che vuole X, vuole metterci l’uno contro l’altra, vuole creare scompiglio. Non lo capisci?»
«Sei serio? Pensi davvero quello che dici?» mi chiese Chiyoko in un sussulto di stupore, fissandomi negli occhi.
«Certo!»
«E allora perché vai da lei, eh?!»
Era un circolo vizioso. Ormai ne avevo abbastanza: liberai i pantaloni dalla gruccia e me li infilai in tutta fretta. Poi aprii con violenza l’anta del guardaroba e afferrai il primo pullover che mi capitò sottomano.
«Dove vai?» mi domandò Chiyoko, lo sguardo smarrito.
«Non lo so, non ce la faccio piú a stare qui!»
Verificai che il portafogli fosse ben dentro la tasca dei pantaloni e mi diressi a passo svelto verso la porta d’ingresso. Non avevo la piú pallida idea di dove andare, sapevo solo che restando a casa sarei stato costretto a sorbirmi l’interminabile piagnisteo di mia moglie. In quel momento ce l’avevo a morte con X, rea di aver rovinato tutto proprio quando le cose cominciavano a funzionare. Se Chiyoko fosse rimasta buona e tranquilla, avrei potuto continuare ad andare senza problemi da lei. La nostra relazione si sarebbe finalmente stabilizzata. Perché stava tentando di distruggere tutto? Non riuscivo a raccapezzarmi, mi sentivo con le spalle al muro. La mia priorità assoluta era preservare la serenità della famiglia, ma questo non significava che non amassi X. Anzi, per accrescere il mio amore nei suoi confronti e sperare che durasse il piú a lungo possibile, occorreva che la mia famiglia fosse felice e tutto andasse per il meglio. Perché X non lo capiva? Perché non voleva credere a quella importante verità? «E io dovrei starmene calma e tranquilla solo per fare in modo che il vostro matrimonio possa durare?» mi aveva rinfacciato una volta, esibendo un’espressione impenetrabile e facendomi provare una sensazione di rottura. Già in quell’occasione, pur volendole bene, avevo sentito esplodere nel petto un odio profondo nei suoi confronti.
«Aspetta, vengo con te» mi disse Chiyoko, togliendosi il grembiule e gettandolo per terra.
«Non dire idiozie! Hai dimenticato che ci sono i bambini?»
Come se non aspettasse altro, Yōhei si mise a piangere nella sua culla nella stanza accanto. Era un pianto debole e cupo, che metteva addosso un’angoscia indescrivibile. Aveva quasi sette mesi, ed era dopo la sua nascita che tutto aveva cominciato ad andare storto. X, che avevo costretto ad abortire, se l’era presa da morire e litigavamo di continuo. E, come se non bastasse, Chiyoko aveva finito per scoprire tutto.
«No, ma non me ne frega niente! E nemmeno a te importa di loro, o sbaglio? Ne avevi già fatto uno con quella, puoi provare a farne altri quando ti pare e piace, schifoso bastardo!»
Basta, falla finita!, gridai dentro di me, le mani nei capelli. Chiyoko e i nostri figli non mi avrebbero mai perdonato, neanche se mi fossi prostrato mille volte ai loro piedi. Non sapevo piú cosa fare, mi sembrava di impazzire. Piantando in asso tutto e tutti, uscii di corsa fuori di casa. Chiusi la porta a vetri sbattendola forte e restai in attesa della reazione di Chiyoko. Per fortuna rinunciò a seguirmi. Feci un sospiro di sollievo e mi misi in cammino, ma mi sentivo terribilmente scoraggiato e depresso. Tornare indietro era fuori discussione, perciò mi mescolai alla folla delle persone che andavano al lavoro e mi diressi verso la stazione. A piedi occorrevano piú di venti minuti. In mezzo agli impiegati in giacca e cravatta che avanzavano a passo spedito, provavo vergogna per non essermi lavato e rasato. Mi sentivo l’ultimo dei miserabili e camminavo a testa bassa, sperando che nessuno mi notasse.
Presi un biglietto al distributore automatico e raggiunsi i binari in attesa del treno diretto verso le zone centrali della città. Il treno arrivò subito, salii nel vagone di coda e mi ressi alle apposite maniglie. Allora mi affiorò alla mente il pensiero che forse nel frattempo Chiyoko stesse per togliersi la vita insieme ai bambini. Anche se all’inizio ero certo che fosse solo una futile minaccia, ricordai il suo sguardo disperato perduto nel vuoto e mi sentii raggelare. Mi ripetevo che non sarebbe mai stata capace di un gesto cosí estremo, eppure ero ossessionato dal timore che se non fossi rientrato subito a casa si sarebbe consumata una tragedia irrimediabile. Scesi dal treno alla stazione successiva e tornai a quella di partenza. Poi corsi a perdifiato fino a casa.
Un passo dopo l’altro, sentivo la mia collera nei confronti di X crescere a dismisura. Lei non sapeva tutto quello che pativa la mia famiglia e le difficoltà che dovevamo fronteggiare tutti i giorni. Mi resi conto una volta di piú che doveva sentirsi tradita pensando che mi occupavo di mia moglie e dei miei figli e che volevo loro un gran bene. X voleva il male della mia famiglia! Distruggerci era il suo scopo! Quel maledetto telegramma ne era la prova. E forse era talmente malvagia da farsela con altri uomini a mia insaputa.
Di colpo mi venne in mente la lettera di un tizio di una casa editrice, che avevo trovato a casa sua l’estate precedente, e quel ricordo attizzò ancora di piú la mia rabbia. Un vecchio amante che, avendola rivista per puro caso, aveva voluto riprovarci. Dopo di me, sarebbe forse stato di nuovo il suo turno? I dolci pensieri che di solito nutrivo per X si volatilizzarono all’istante: pretendeva troppo, ora era piú che altro un ostacolo tra me e la mia vita familiare, e mi torturavo all’idea che fosse solo una donna avida e perversa dedita ai piú svariati piaceri.
Takako e Michiko stavano giocando davanti casa. Meno male, erano ancora vive! Per poco non stramazzavo al suolo per la gioia.
«Papà, dove sei andato?» mi chiese Takako vedendomi arrivare. Aveva la stessa espressione attonita di sua madre, piegava il capo da un lato esattamente come lei.
«A fare una passeggiata» le risposi. Dopo di che strinsi forte a me lei e la sorella. Takako, che aveva intuito che io e la madre avevamo litigato di brutto, si irrigidí all’istante: dopotutto non era abituata a quel genere di slanci affettuosi da parte mia. Invece Michiko si lasciò abbracciare e prese a sfregare con assoluta innocenza la sua guancia contro la mia. Fui inebriato dalla morbidezza e dalla purezza della sua pelle. Era cosí graziosa, un vero tesoro! E pensare che avevo rischiato di perderla!
«Michan, hai fatto la pappa?» le chiesi.
«Sí, certo».
«E che cosa hai mangiato?»
«Riso con i porri».
Poi indicò chissà perché l’interno della casa e il giardino. Lasciai lei e Takako e andai subito dentro a cercare Chiyoko. La trovai in cucina, intenta a lavare i piatti. Al mattino, quella parte della casa era immersa nella penombra, e Chiyoko sgobbava al buio come una serva, le maniche del vestito risvoltate fino ai gomiti. Nel vederla mi si strinse il cuore, anche se fino a poco prima la sua presenza mi ripugnava.
«Chiyoko, perdonami, ho sbagliato» dissi prostrandomi sul pavimento di legno della cucina.
«Che ti succede? All’improvviso ti sono venuti i sensi di colpa?» ribatté lei, indietreggiando imbarazzata.
«No, ti assicuro che sono veramente dispiaciuto per quel telegramma. Finalmente ho aperto gli occhi. Non mi ero accorto che quella donna fosse cosí cattiva e sfrontata. Noi uomini siamo dei veri idioti, mi sono fatto fregare. È venuta da me chiedendomi di aiutarla a scrivere un romanzo, ma non mi ero reso conto che aveva architettato tutto fin dall’inizio. Sono un uomo debole e stupido! Ecco perché mi sono lasciato abbindolare, ma non succederà mai piú, te lo prometto. Ti obbedirò in tutto e per tutto, mi dirai tu quello che devo fare. Non farò niente che tu non voglia e non uscirò mai di casa senza dirti dove vado. Non andrò nemmeno a bere con gli amici senza prima averti avvertito. Devi credermi! Perdonami, ti prego, ti giuro che non si ripeterà piú!»
Alla fine del monologo, abbassai la testa fino a sfiorare il pavimento con la fronte, in attesa della risposta di Chiyoko. Ma lei rimase in silenzio. Allora sollevai piano lo sguardo e la vidi sfregare forte con lo straccio il bordo dell’acquaio, il volto contratto come prima in una smorfia intransigente.
«Hai mangiato?» mi chiese in tono sprezzante, dandomi la netta sensazione che mi avesse rivolto quella domanda per puro senso del dovere.
«Certo che no! Non ho fatto altro che vagare senza meta» risposi, cercando di mantenere i nervi saldi e di non suonare scortese. «E per tutto il tempo ho continuato a pensare a che cosa avrei fatto se tu e i bambini foste morti. Ho avuto una paura tremenda, mi sembrava di impazzire».
Mentre pronunciavo quelle parole, mi voltai d’istinto verso Yōhei, che era lí accanto in salotto. Comodo nel suo seggiolone, mi guardava sorridendo. E quella scena di pace e serenità mi fece venire le lacrime agli occhi.
«Vuoi mangiare?» insisté Chiyoko nello stesso tono aspro. «Ma ti avverto che c’è solo dello sgombro grigliato al sale».
Ricordandomi che poco prima Michiko mi aveva detto di aver mangiato del riso con i porri, mi venne da ridere. E anche Chiyoko si lasciò scappare un risolino. Almeno in parte rincuorato, mi alzai in piedi e la abbracciai da dietro. Era ingrassata e le sue natiche erano diventate enormi e quadrate. Dopotutto era inevitabile, non era piú una ragazzina ed era madre di tre figli. «Ti amo, ho fiducia in te e dipendo solo da te!» avrei voluto gridarle in quel momento dal profondo del cuore. E desideravo che anche lei provasse per me gli stessi sentimenti, solo che era convinta che io amassi alla follia X. Ma si sbagliava, io non amavo X, né tanto meno avevo fiducia e dipendevo da lei. Volevo provarglielo, volevo che Chiyoko non avesse dubbi. Come farle capire che era lei l’unica donna importante della mia vita?
Ravvivò in fretta il fuoco del piccolo braciere a carbone e grigliò lo sgombro. Nel frattempo mise a riscaldare della zuppa di miso ai porri e mi serví una ciotola di riso bianco. Non c’era altro per colazione, ma trovai lo stesso quel pasto eccellente.
«Ti ho fatto del male, lo so. Ma ti prometto che non lo farò mai piú, perciò devi perdonarmi, ti prego. Oggi, quando è arrivato quel telegramma, finalmente ho capito che quella donna è una strega e non vale niente».
«Forse lo ha fatto perché ti ama alla follia, no?» osservò Chiyoko, l’aria contrariata.
«No, ma che dici? Ti ripeto che finalmente ho aperto gli occhi. Quella donna è un’ipocrita, vuole stringere nelle sue mani anche quello che non può avere. Lei non mi interessa affatto, perché io ho già qualcuno di molto prezioso… Io ho te, Chiyoko! Per me niente conta di piú!»
Sottolineai quell’affermazione con ripetuti cenni del capo, mentre mandavo giú un lungo sorso di tè.
«No, non è vero, per te il lavoro conta piú di tutto il resto» protestò lei, in uno strano tono venato di ironia.
«Che c’entra? Il lavoro è un’altra cosa» replicai scuotendo la testa. «Anzi, sai che ti dico? Alla base del lavoro c’è proprio la solidità della famiglia. A proposito, perché non mi mostri quello che hai scritto? Mi piacerebbe molto leggerlo».
Lo avevo detto per semplice curiosità. Mi auguravo e al tempo stesso temevo di scoprire che Chiyoko avesse piú talento di me. Erano due sentimenti contrastanti che si mescolavano in un unico groviglio: da una parte la speranza che il suo eventuale maggiore talento potesse mitigare la collera e il disprezzo nei miei confronti, e dall’altra il timore che la mia statura di scrittore ne uscisse ridotta.
«No, non è il momento» rifiutò lei categorica. Dopo di che assunse un’aria indispettita e si chiuse nel silenzio. Mi sentii respinto con freddezza, al punto da provare un sentimento di profonda irrequietudine.
«E se ci prendessimo insieme una rivincita nei confronti di quella strega?» provai allora a dirle.
«Che cosa intendi?» mi chiese lei, alzando di scatto gli occhi verso di me.
«Potremmo renderle quel che si merita. Le scriviamo una lettera in cui gliene diciamo di tutti i colori e gliela portiamo fino a casa, insieme. Cosí forse ti sentirai meglio».
Ero convinto che in quel modo X avrebbe rinunciato alle sue cattiverie e Chiyoko si sarebbe di nuovo fidata di me. In un angolo della mia mente non potevo evitare di pensare che fosse un’idea molto stupida, ma d’altra parte tutto era iniziato con quella frase: «Ieri sera, dimenticato chiavi da me». Era stata X a cominciare, se l’era voluto lei! Anche a costo di scatenare un putiferio, dovevo darle assolutamente prova della complicità che esisteva tra me e Chiyoko, la nostra coppia doveva apparire solida e indistruttibile. E in ogni caso non avevo piú niente da perdere.
«Va bene, facciamolo» rispose Chiyoko dopo averci riflettuto un po’ su. «Voglio vederla soffrire. Quella donna è una puttana!»
Finalmente si era decisa a sputare il suo odio, meglio non aggiungere altro. Era bastato un telegramma per far cambiare di centottanta gradi l’orientamento dei miei pensieri nei confronti di X.
«Non è che per caso conosci un suo punto debole?» mi chiese.
«Credo di sí, lasciami riflettere».
E intanto mi misi a scrutare la penombra della cucina.