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Ineluttabilità

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La data di consegna della prima parte del romanzo alla redazione di Diablo si avvicinava inesorabile. Tamaki aveva detto a Saitō che intendeva scrivere una storia sulla misteriosa X dell’Innocente, ma non era ancora riuscita a raccogliere alcuna informazione sul suo conto. Quando si era incontrata con Motoko, già sospettava che quella donna non poteva essere X, ma si era presentata lo stesso da lei, animata dalla speranza meschina di estorcerle qualche notizia preziosa. Purtroppo tutte le persone coinvolte, Motoko inclusa, sembravano voler mantenere il piú stretto riserbo sulla faccenda. L’innocente era un romanzo molto famoso, e Tamaki si chiedeva come mai nessuno osasse parlare di X. Non sarebbe stato di per sé un fatto grave se avesse scritto piú o meno quello che immaginava, lavorando di fantasia, ma il carattere autobiografico dell’Innocente la spingeva a essere molto cauta sulla possibilità di attingere alla propria immaginazione, per cui non riusciva a procedere nella stesura del libro. D’altra parte, questo significava dare prova di una discrezione non indifferente per una scrittrice di mestiere come lei. Come se non bastasse, era ancora molto turbata dallo stile di quel romanzo, in cui l’autore si esprimeva con estrema sincerità, senza farsi scrupoli di sorta. Midorikawa Mikio si metteva a nudo, talvolta descrivendo se stesso e le sue azioni in modo tutt’altro che esaltante. Ecco perché il demone al quale L’innocente aveva dato vita non esitava a drizzare la testa e a sogghignare, prendendosi gioco di qualsiasi tentativo di scrittura basato su una vuota e debole finzione.

Tamaki ricordava molto bene il clamore suscitato dal romanzo di Midorikawa al momento dell’uscita in libreria. In particolare, non aveva dimenticato il contenuto di una lettera pubblicata nella rubrica dei lettori di un noto quotidiano. In sintesi, la lettera diceva che l’autore era un marito infedele e aveva avuto l’ardire di descrivere con crudezza le reazioni di sua moglie, della quale citava il vero nome senza preoccuparsi minimamente di ferire i suoi sentimenti e farla sprofondare nell’umiliazione. Era mai possibile una cosa del genere?, si chiedeva la casalinga autrice della lettera, che si diceva profondamente indignata. La sua domanda era piú che legittima, visto che di certo un gran numero di donne si poneva lo stesso interrogativo e condivideva la medesima reazione. Gli uomini, chissà come mai, preferivano mantenere il silenzio.

Tuttavia non c’erano forse un’ambiguità e una disonestà di fondo in quel romanzo? Nel mettersi totalmente a nudo, Midorikawa pareva aver abilmente mescolato la verità autobiografica alla finzione narrativa quasi a voler confondere il lettore, che non era in grado di comprendere dove finisse l’una e iniziasse l’altra. Nel romanzo ognuno aveva la sua propria verità: il marito, la moglie, l’amante e perfino i figli. E tutte quelle verità si intrecciavano tra loro nel corso della narrazione offrendo una descrizione dei fatti. Midorikawa non aveva mai dichiarato di aver scritto la verità, e fino alla morte aveva continuato a ripetere che L’innocente era pura finzione narrativa. Cionostante, dal terribile conflitto che opponeva i vari personaggi, aveva origine qualcosa che agli occhi dei lettori poteva apparire come una verità convincente. Midorikawa era un marito egoista, scaltro e depravato; Chiyoko era una povera moglie depressa; X una donna viziosa e dissoluta che seminava la discordia in una famiglia; i bambini, infine, erano le vittime innocenti degli adulti. E tali immagini perduravano intatte lungo tutto l’arco del racconto.

In seguito, era scoppiata una tragedia che nelle pagine finali del romanzo era solo accennata e di cui nessuno osava parlare. All’epoca in cui si consumava il contrasto tra i coniugi Midorikawa e X dando vita a una serie interminabile di dispute e provocazioni, il figlio piccolo della coppia, Yōhei, che aveva da poco cominciato a muovere i primi passi, era annegato in mare. La famiglia era riunita al gran completo sulla spiaggia, e il piccolo Yōhei era sfuggito alla sorveglianza degli adulti ed era annegato tra le onde a pochi metri dalla riva. La grave depressione di Chiyoko era dunque dovuta non solo al conflitto che la opponeva a X, l’amante del marito, ma anche e soprattutto alla tragica perdita del figlio. Quel dramma inaspettato, l’insieme di litigi, astio profondo e vincoli di varia natura costituivano l’universo del romanzo. Era terribile: in quanto a crudeltà, la realtà superava di gran lunga la finzione. Una realtà tanto intricata da sembrare essa stessa un romanzo.

«Signora Tamaki, come procede il lavoro? Crede che riuscirà a rispettare i termini di consegna?»

Saitō si era appena fatto vivo chiamandola al cellulare. Lei lo liquidò in quattro e quattr’otto, infastidita dalla sua insistenza, rispondendo che avrebbe fatto il possibile. Il tono preoccupato della sua voce le restò a lungo nelle orecchie. Poi gettò uno sguardo fuori dalla finestra: tutto rinverdiva. Forse perché era appena piovuto, gli alberi e le piante brillavano di un verde lucente. Tamaki avvertí l’odore pungente dell’erba e della terra bagnata. Ebbe un capogiro improvviso.

Di colpo le parve di sentire la voce di Seiji che le sussurrava qualcosa all’orecchio. Era solo un’illusione. «Oggi non ho proprio voglia di andare in ufficio» diceva a bassa voce nel dialetto di Ōsaka, dopo aver tratto un sospiro.

Era un giorno di giugno, un giorno come tanti, e mancava poco a mezzogiorno. Tamaki e Seiji erano seduti vicini su una panchina in un parco. Non sapevano dove andare e ammazzavano il tempo fumando una sigaretta dopo l’altra e bevendo una Coca-Cola presa al distributore automatico. Sarebbero stati molto contenti di recarsi da qualche parte, niente e nessuno glielo vietava: ristoranti per famiglie, cinema, love hotel. Ma l’umidità opprimente, che causava una specie di pizzicore su tutta la pelle, e la carenza di sonno li avevano resi fiacchi e indolenti. Tamaki, in particolare, si sentiva sospesa in uno stato di profondo torpore.

Dalla sera precedente non si erano piú lasciati. Come erano soliti fare ogniqualvolta stavano insieme, avevano chiacchierato fino a notte fonda e si erano addormentati all’alba. Seiji si era mostrato piú loquace del solito e aveva rivelato persino un certo rammarico, nell’attimo in cui aveva guardato l’orologio e aveva esclamato: «Il tempo non basta mai, vorrei continuare a parlare con te all’infinito!». Avevano lasciato l’albergo al mattino ed erano andati in giro senza una meta, incapaci di separarsi. Succedeva sempre cosí, tutte le volte che si vedevano. Ma quel giorno Seiji non voleva proprio lasciarla, come se si tenesse aggrappato disperatamente a lei. Mentre erano in macchina, lui continuava a chiederle di guidare, nell’illusione di rendere eterno quel momento.

«Che ne dici di rientrare?» gli aveva suggerito a un certo punto Tamaki, prendendo l’iniziativa.

E Seiji, l’aria smarrita, aveva sospirato e aveva detto con un filo di voce: «Oggi non ho proprio voglia di andare in ufficio».

Seiji era nato e cresciuto a Ōsaka, ma cercava di nascondere il piú possibile la sua inflessione dialettale, perché non sopportava che la gente lo giudicasse in base alla sua provenienza geografica. Tuttavia quella volta aveva pronunciato quella frase nel suo dialetto senza quasi farci caso. Ecco perché quell’accento insolito, uscito dalla sua bocca inavvertitamente e pregno di dolcezza, aveva colpito Tamaki dritto al cuore.

Tamaki si era limitata ad assentire con un lieve cenno del capo, senza chiedergli il perché. Seiji continuava a lamentarsi fin dalla sera precedente. Ai primi di giugno, in seguito a una ristrutturazione interna, era stato assegnato alla redazione di una delle riviste letterarie della casa editrice. In realtà se lo aspettava, ma era stato lo stesso un grande shock. Si era rammaricato a piú riprese, lui che fino ad allora aveva sempre curato l’editing dei romanzi di Tamaki: «È la fine, non potrò piú occuparmi dei libri. Mi mandano alla rivista, non ci posso credere. Per me è come una condanna a morte!».

E lo era anche per Tamaki, perché lei amava scrivere i suoi romanzi con Seiji, il quale ripeteva spesso con infinita passione che occuparsi dei libri era la sua vita. Di primo acchito aveva pensato di rivolgersi alla direzione editoriale chiedendo di evitare il trasferimento di Seiji, ma alla fine aveva rinunciato, dicendosi che una casa editrice di prima importanza non avrebbe mai preso in considerazione la richiesta di un’autrice. Per continuare a fare dei libri insieme, senza interferenze esterne, avevano un’unica strada da percorrere: Seiji avrebbe dovuto dare le dimissioni. Ne avevano discusso in piú di un’occasione, durante le loro lunghe conversazioni, ma si trattava di un’idea azzardata, irrealizzabile. Perciò avevano provato una profonda disperazione, per quanto il loro atteggiamento potesse sembrare assurdo e insensato agli occhi degli altri. Nessuno, al di fuori di loro due, poteva comprendere la gioia e la soddisfazione che provavano nel lavorare insieme. Né tanto meno il beneficio immenso che il loro amore traeva da quella situazione di totale armonia.

Seiji non ne aveva mai parlato con Tamaki in modo esplicito, ma pareva ci fosse un altro motivo che lo induceva a essere inquieto. Stando a quel che si diceva, essere trasferiti alla redazione di una rivista significava vedersi preclusa qualsiasi possibilità di fare carriera. A tal proposito, Seiji aveva citato a Tamaki alcuni esempi di colleghi incaricati della direzione di questa o quell’altra rivista e poi finiti nel dimenticatoio, in una sorta di limbo. Era indignato, a maggior ragione perché sospettava che quel trasferimento, e di conseguenza l’esclusione dai posti che contavano, fosse dovuto in buona parte alla scoperta della relazione con Tamaki. Al contrario di quest’ultima, ormai del tutto rassegnata, Seiji aveva una paura tremenda e sperava che la loro storia d’amore non fosse resa pubblica, anche se non gliene aveva mai fatto parola.

«E se andassimo da qualche parte?» propose alla fine Seiji, stringendole la mano mentre erano seduti sulla panchina. Si era appena tolto la giacca ed era rimasto in t-shirt. Le magliette a maniche corte gli donavano molto, perché era alto e ben piantato. A prima vista, sembrava uno di quei tipi pieni di sé, ma in realtà era una persona abbastanza umile e pareva non essere consapevole del proprio fascino. Tamaki lasciò cadere la cicca per terra e la schiacciò sotto il tacco della scarpa. Aveva fumato troppo, un sapore acre le riempiva la bocca e la gola.

«Dove?»

«Ovunque, in un posto qualsiasi».

«Non è cosí semplice».

Quella conversazione vaga e inconcludente proseguí fino a quando Seiji non scoppiò in una risata.

«Scusami. Devi tornare a casa, giusto?»

«Sí…» mormorò esitante Tamaki.

Aveva un sacco di incombenze e di lavoro da sbrigare, ma le costava molta fatica lasciarlo da solo sapendolo poco sereno. La sofferenza di Seiji era anche la sua. Quando discutevano insieme, con calma, riuscivano a risolvere ogni tipo di problema, pertanto in quel frangente si chiedeva se non fosse giusto mettere da parte gli impegni e dedicarsi a lui e al loro rapporto. Piantarlo in asso e tornarsene a casa non era un comportamento un po’ troppo freddo e distaccato?

«Non voglio trattenerti, so che hai molto da fare».

«No, non importa».

I loro sguardi si incrociarono. Seiji diede un’occhiata all’orologio e, dopo aver riflettuto un attimo, alzò la testa con aria decisa.

«Che ne dici di Ōsaka?» propose stavolta. «Se prendiamo uno shinkansen intorno all’una, saremo lí prima delle quattro. Potremmo fare un giro dalle parti di Dōtonbori».

«E il lavoro? Non è che ti faranno storie?» ribatté stupita Tamaki, fissandolo in volto.

Seiji fece spallucce e le sorrise. Poi tirò fuori l’agenda di pelle verde e controllò i suoi impegni.

«Domani ho una cena» disse. «Se rientriamo con il primo shinkansen del pomeriggio, non ci sono problemi. Che ne pensi?»

«Per me va bene, ma…» rispose Tamaki, interrompendosi di colpo.

«Ma?» la sollecitò Seiji, facendo un’espressione buffa.

«Niente, andiamo a Ōsaka, va bene».

Tamaki non riusciva a capacitarsi di aver deciso di partire seduta stante, senza nemmeno un bagaglio. Anche l’incontro della sera prima e la notte in albergo erano frutto dell’improvvisazione. Lei e Seiji si erano sentiti al telefono e avevano stabilito di vedersi, perché avevano scoperto di avere entrambi qualche ora libera a disposizione. E, una volta insieme, erano andati avanti a parlare per ore, incapaci di separarsi. Ora Tamaki si chiedeva se fosse veramente possibile prolungare di un’altra notte quell’incontro, per giunta con un viaggio inatteso a Ōsaka. Ma certo che lo era: insieme a Seiji niente era impossibile.

Si diedero appuntamento alla stazione un’ora piú tardi, e nel frattempo Tamaki riportò la macchina a casa. Il cane, che qualcuno aveva distrattamente lasciato fuori in giardino, era stremato dal caldo. La sua ciotola dell’acqua era vuota. Tamaki andò a prendere il guinzaglio e glielo fissò al collare: portarlo a spasso una decina di minuti l’avrebbe aiutata a sentirsi meno in colpa per la decisione di abbandonare casa per un’altra giornata. Scrisse un messaggio al figlio, che frequentava il primo liceo, prese degli indumenti di ricambio e qualche cosmetico e si allontanò in fretta. «Devo andare a Ōsaka per lavoro. Rientrerò domani, nel pomeriggio. Mi raccomando»: aveva scritto cosí su un foglietto volante. Quel “mi raccomando” suonava talmente ipocrita che arrossí per la vergogna. Ma al contempo sentiva crescere dentro di sé una gioia e un’eccitazione incontenibili. Stava partendo per un breve viaggio d’amore con Seiji! La felicità di poter stare al suo fianco aveva cancellato in un istante il rimorso di tradire la madre, il marito e il figlio, lo scrupolo di trascurare il lavoro e perfino il senso di colpa nei confronti del suo povero e viziatissimo cane.

Arrivò alla stazione con cinque minuti di ritardo. Quando la vide, Seiji la accolse con un sorriso smagliante colmo di affetto e passione. Aveva già preso i biglietti. Tamaki lo aveva immaginato, cosí come aveva immaginato che, mentre lei tornava a casa per lasciare la macchina, Seiji avesse telefonato alla moglie e in ufficio per dire che si sarebbe assentato, adducendo una qualche scusa. Tra loro c’era una sintonia perfetta, facevano e pensavano le stesse identiche cose. In fondo era cosí che ingannavano le rispettive famiglie, le persone con le quali lavoravano e anche un po’ se stessi.

«Tutto bene a casa?» chiese Seiji a Tamaki, mentre avanzavano a grandi passi.

«Sí, nessun problema» gli rispose lei in tutta convinzione.

In realtà, era piú che probabile che i suoi familiari ce l’avessero con lei, ma non aveva esitato a mentire. Invece lui era totalmente disteso e rilassato. Le sue incombenze familiari erano ben diverse dalle responsabilità che sentiva di avere Tamaki. Quest’ultima di tanto in tanto si ritrovava a riflettere su questo, ma non aveva mai chiesto a Seiji in cosa consistessero di preciso. E con ogni probabilità non lo avrebbe mai fatto.

«Meno male. Non puoi immaginare quanto sia felice di partire con te» disse Seiji, rivolgendole un sorriso radioso. Tamaki si voltò dalla sua parte e ricambiò il sorriso. Erano l’immagine perfetta di un amore maturo con un tocco di spensieratezza: un uomo e una donna di mezza età che si tenevano per mano senza pudore sul marciapiede di una stazione ferroviaria. Non provavano nessuna vergogna, era come se esistessero solo loro due e non ci fosse nessun altro al mondo.

In treno, Seiji comprò delle arachidi e due birre in lattina. Tamaki sgranocchiò le arachidi e sorseggiò la birra con immenso piacere. Poi, mentre guardava il paesaggio scorrere a gran velocità fuori dal finestrino, si sentí vincere dal sonno. La data di consegna del suo ultimo lavoro si avvicinava e lei era in ansia al pensiero del duro lavoro che la attendeva, ma decise di ignorare tutto e chiuse gli occhi. Seiji, seduto dalla parte del corridoio, le prese la mano e gliela strinse. Quando si tenevano per mano in quel modo, si sentivano invadere da una strana sensazione. Sembrava fossero un solo corpo e che il sangue, circolando, trasportasse le malinconie e i tormenti dell’uno nelle vene e nel cuore dell’altra, dove venivano in qualche modo depurati e trasformati in qualcosa di completamente diverso prima di tornare nuovamente a scorrere. Dal punto di vista fisico erano separati, eppure vivevano l’uno nell’altra, creando un mondo a parte.

Arrivarono a Ōsaka un poco prima delle quattro del pomeriggio. Nuvole grigie si addensavano nel cielo, minacciava pioggia. E in piú faceva un caldo umido terribile. Scesero dal treno alla stazione di Shin Ōsaka e si misero in fila in attesa di un taxi. Dovettero aspettare solo un paio di minuti.

«Dōtonbori» disse Seiji al tassista, non appena ebbe prese posto accanto a Tamaki. Aveva intenzione di passare la notte in un albergo piuttosto stravagante nella zona centrale del quartiere. Assomigliava a una specie di lounge bar ed era caratterizzato da una struttura in vetro e metallo. Lo aveva scoperto l’ultima volta che era stato in città, ma in quell’occasione non aveva trovato camere libere. Stavolta era stato piú fortunato: ce n’era una a disposizione, che si sviluppava tutta in lunghezza tanto da sembrare un corridoio. Dalla vetrata in fondo si poteva godere una splendida vista su Dōtonbori. Piccola, poco costosa e simile a un giocattolo, quella stanza al nono piano era perfetta: sembrava sospesa nel cielo. Lí pareva non esserci posto per la tristezza. Come se vi fossero stati catapultati dall’alto all’improvviso, l’uno accanto all’altra, Seiji e Tamaki contemplavano il panorama in silenzio. Lui appena un passo indietro, perché soffriva di vertigini e si sentiva come sull’orlo di un magnifico precipizio.

«E adesso che si fa?» disse Tamaki come se parlasse a se stessa. Prima di tutto immaginò di andare in giro con Seiji senza una meta. Scoprire come sempre nuovi vicoletti e stradine, evitando di seguire un percorso prestabilito, ed entrare in numerosi bar e ristorantini senza trattenersi piú di tanto, soprattutto se non risultavano di loro gusto. Avanti cosí, senza mai fermarsi, ripetendo piú volte lo stesso schema in totale spensieratezza, fino a notte fonda. Tamaki continuava a domandarsi dove andare, lo sguardo fisso al cielo offuscato dallo smog e dai gas di scarico.

Di colpo le tornò in mente la sensazione di apatia che aveva provato al mattino, quando lei e Seiji avevano girovagato in macchina per le strade di Tōkyō prima di rifugiarsi in un parco. Allora le venne spontaneo pensare che percorrendo a piedi le strade di Ōsaka, una città che conosceva molto bene, non avrebbe potuto fare chissà quali nuove scoperte. E provò un certo sfinimento, se non addirittura un senso di panico all’idea di dover passare un’intera serata ad ammazzare il tempo, né piú né meno come era accaduto al mattino. Non poteva permettere che andasse a finire cosí, quelle ore insieme se l’erano conquistate a caro prezzo e dovevano sfruttarle con gioia fino all’ultimo istante. Tamaki si sentiva spesso e volentieri in bilico tra due forze opposte: da una parte l’energia che metteva nella storia con Seiji e dall’altra la fatica che ne derivava. Da quando non erano piú capaci di sfruttare al meglio e con serenità

il loro tempo libero? Erano forse troppo avidi e insaziabili e pretendevano sempre di piú?

«Conosco un posto dove mi piacerebbe portarti» disse all’improvviso Seiji, con una lieve esitazione, interrompendo il flusso di pensieri di Tamaki.

«Ah sí? Dove?»

«Il quartiere dove sono nato. Che ne dici? Ti va?»

Che strano. Non era la prima volta che andavano insieme a Ōsaka, ma Seiji non le aveva mai proposto di visitare il posto dove era cresciuto. Tamaki sapeva che si trattava di un quartiere popolare della parte vecchia della città e che la madre di Seiji non ci abitava piú da diversi anni, da quando era rimasta sola, essendosi trasferita in una zona residenziale nell’area nord della metropoli. Con voce uggiosa, Seiji le disse che da quelle parti non aveva piú nessuno, né parenti né amici.

«È una proposta insolita da parte tua. Che ti succede?» gli chiese Tamaki.

«Bah, non lo so» rispose lui, piegando perplesso il capo da un lato.

«Comunque mi va, andiamoci».

«Ti avverto, non è niente di che, è un posto noioso».

«Non importa, sono curiosa. Però è strano che lo dica tu, è il tuo quartiere, no?» commentò Tamaki con un risolino.

«Bene, allora andiamo» disse Seiji, alzandosi in piedi.

Finalmente avevano una meta e lasciarono con entusiasmo la stanza dell’albergo. Giú in strada, salirono subito su un taxi. Si fecero portare fino alla stazione di Umeda e presero un treno delle ferrovie Hanshin. Tamaki era contenta, per lei si trattava di una novità assoluta. Nel vagone, mescolati ai pendolari che tornavano dal lavoro, si guardavano intorno con la stessa curiosità di una coppia di turisti. Poco dopo essere saliti in treno, attraversarono un ampio fiume. Tamaki chiese a Seiji come si chiamasse e lui le disse che era lo Yodogawa. Seiji continuava a fissarne in silenzio la superficie, come rapito. Al crepuscolo, quel grande fiume grigio metallo si fondeva con il cielo plumbeo, e i suoi argini in lontananza si distinguevano a malapena.

«Da bambino» mormorò Seiji, lo sguardo rivolto al corso d’acqua, «venivo spesso a portare dei gatti al fiume».

«Gatti? Vuoi dire dei cuccioli?»

«Sí, ne trovavamo sempre tanti, abbandonati per strada. Li mettevamo in una cesta e li affidavamo alla corrente. Tu non lo facevi?»

«Poverini, che cosa triste e crudele!» rispose Tamaki, portandosi la mano alla bocca e scuotendo la testa.

Seiji si mise a ridere. Poi la guardò e aggiunse: «Lo fanno tutti i bambini, ovunque».

«Non credo proprio, forse lo fanno solo dalle tue parti».

Mentre pronunciava quella frase, Tamaki ci ripensò su e concluse che lei non lo aveva mai fatto non perché le sembrasse una cosa triste e crudele, ma per la semplice ragione che nelle vicinanze di casa sua non c’era nessun fiume dove poter abbandonare dei gattini appena nati. E immaginò che se fosse stata insieme a Seiji avrebbe finito per farlo anche lei. Ora lui era lí, al suo fianco, lo sguardo fisso agli argini del fiume.

Scesero dal treno alla stazione che era sulla sponda opposta. Doveva essere stata rinnovata da poco, era nuovissima e sopraelevata. Quando scesero giú, al livello della strada, videro diverse bancarelle allineate nell’ampio spazio sotto il ponte ferroviario. Alcune vendevano sandali di plastica di vari colori, altre fermagli e nastri per capelli, altre ancora cd di vecchie canzoni popolari. Tamaki si fermò d’istinto. Mentre guardava i fermagli, un vecchietto la chiamò con un cenno della mano e le disse ad alta voce: «Venga, signora, non abbia paura, ne ho qui una montagna!». Prese una borsa e gliene mostrò degli altri, tirandoli fuori a gran velocità. Tre o quattro uomini dall’aria sfaccendata, spuntati fuori da chissà dove, si avvicinarono e si misero a osservare la scena, gli occhi che si spostavano dai fermagli al viso di Tamaki. Seiji, intanto, si era allontanato di qualche metro e la aspettava piú avanti con un’espressione seria in volto. Allora Tamaki fece un gesto di gentile rifiuto in direzione del vecchietto e si affrettò a raggiungerlo.

«Scusami, mi sono lasciata attrarre da quelle bancarelle».

Seiji le disse che non era grave, eppure sembrava molto teso. Era la prima volta che faceva ritorno nel quartiere della sua infanzia, da quando lo aveva lasciato all’epoca della scuola media. Perciò doveva sentirsi nervoso al pensiero di vedere quanto quel posto fosse cambiato e di come gli sarebbe apparso a distanza di diversi anni.

A destra della stazione si estendeva un’area industriale. C’era anche una specie di fossato simile a un canale, dove erano ormeggiate alcune chiatte nere e altre piccole imbarcazioni. Seiji e Tamaki si avviarono verso il lato opposto. Fin dal primo sguardo, era evidente che si trattava di un quartiere caotico, che in tutta probabilità si era sviluppato senza seguire un piano regolatore. Stradine anguste si diramavano in varie direzioni, piú che altro in diagonale. Accanto a un vecchio e polveroso negozio di sake, poteva sorgere una palazzina di recente costruzione: non c’era alcuna armonia, e quell’incoerenza assoluta risultava addirittura fastidiosa. Ma la zona doveva essere comoda e in una buona posizione, come si poteva dedurre dal numero non indifferente di nuove abitazioni. In fondo a una serie di basse costruzioni, si intravedevano gli alti argini del grande fiume che Seiji e Tamaki avevano attraversato poco prima con il treno delle ferrovie Hanshin. Tamaki immaginò Seiji da bambino che andava fin laggiú per affidare al fiume una cesta piena di gattini. Si sentí stringere il cuore e provò per lui un moto di affetto profondo. Amava quell’uomo come forse non aveva mai amato nessuno.

«Questa strada me la ricordo» esclamò di colpo Seiji, avvicinandosi a una casa col tetto rivestito di tegole nere. Poi tornò subito indietro. Guardava un po’ dappertutto, facendo vagare lo sguardo a destra e a sinistra, assorbito nei suoi pensieri. Arrestava il passo all’improvviso, assottigliava lo sguardo e ripartiva di corsa in un’altra direzione. Sembrava impaziente di trovare qualcosa. A un certo punto, disse con rammarico che il vecchio quartiere era stato quasi del tutto demolito per fare spazio alle nuove costruzioni e che era completamente cambiato.

Nel frattempo aveva cominciato a piovere, stava per scatenarsi un temporale. Tamaki andò a ripararsi sotto la tettoia di un vecchio negozio di sake, in attesa che Seiji la raggiungesse. Ma poco dopo lo vide ad alcune decine di metri di distanza, lí che si sbracciava facendole segno di raggiungerlo. Lei corse sotto la pioggia battente e lui, grondante acqua, le indicò una vecchia casa a un solo piano.

«È questa, credo. Lí dietro c’è la casa di mio zio, mentre qui abitavamo noi. Ce l’aveva affittata lui».

«Tuo zio abita ancora qui?» gli chiese Tamaki.

«No, non credo… Si è trasferito altrove» rispose Seiji, stavolta indicando la targa con un nome sconosciuto all’ingresso della casa a due piani sul retro.

«Altrove? È tuo zio e non sai neanche dove sia?»

«Certo che lo so, è morto!»

Inzuppati di pioggia fino all’osso, sollevarono all’unisono lo sguardo verso la casa dove Seiji era vissuto da bambino. Il tetto di lamiera e la facciata erano invasi dall’edera, i cui rami spogli e nerastri davano l’impressione che l’intera costruzione fosse costellata di lunghe e sottili crepe. Come per magia, Tamaki immaginò che la piccola porta d’ingresso di legno si aprisse e Seiji bambino sgattaiolasse fuori in silenzio. Se lo figurava in canottiera bianca, pantaloncini corti grigi e berretto da baseball degli Hanshin Tigers, lí che si guardava intorno con circospezione prima di mettersi a correre in direzione del fiume.

«Mia madre faceva la sarta» disse Seiji. «Aveva messo su un piccolo laboratorio in una stanza della casa e dava anche lavoro ad alcune signore».

«Ah, brava, quindi tua madre era una donna piuttosto intraprendente, eh?» commentò Tamaki.

Seiji rilassò i muscoli della mascella e scoppiò in una risata. Si voltò verso le case là intorno e disse: «Comunque, questo posto me lo ricordavo molto peggio. È passata una vita, ero un bambino quando vivevo qui».

Il viso gocciolante di pioggia, spostò piano lo sguardo al fiume. Poi, quasi si fosse appena accorto della presenza di Tamaki, assunse una strana espressione. Lei pensò che quel repentino cambio di atteggiamento fosse dovuto a una sorta di antico rimpianto.

«Andiamo?» le disse con voce spenta, come se avesse smarrito in un sol colpo tutto l’entusiasmo. A Tamaki avrebbe fatto molto piacere dare un’occhiata al fiume e ai suoi argini, ma la pioggia non accennava a smettere e Seiji non sembrava piú interessato. Senza dire una parola, tornarono camminando fianco a fianco alla stazione. Quando passarono davanti alle bancarelle sotto il ponte ferroviario, Tamaki vide di spalle il vecchietto che aveva tentato di venderle i fermagli per capelli intento a fumare una sigaretta. Forse perché aveva sentito il suo sguardo su di sé, l’uomo si voltò di scatto e la guardò per qualche istante, ma non parve riconoscerla e tornò alla sua sigaretta.

Seiji e Tamaki presero il primo treno delle ferrovie Hanshin diretto alla stazione di Umeda. Nel vagone, Seiji teneva lo sguardo fisso verso il quartiere della sua infanzia, oltre la zona industriale. Anche Tamaki gettò un’occhiata all’agglomerato di case nei pressi del fiume e le venne spontaneo pensare alla gente che abitava da quelle parti e al frastuono dei treni che passavano di continuo. Era calata la notte, tutto era immerso nell’oscurità, e la pioggia rendeva ancora piú buio ed evanescente il quartiere dove Seiji era vissuto da bambino.

Al piano sotterraneo dei grandi magazzini Hanshin, Tamaki si mise in fila al chiosco dell’ikayaki insieme agli impiegati che rientravano dal lavoro. Seiji le aveva detto che era la specialità del posto e voleva assaggiarla a tutti i costi. In piedi, mangiando a pieni bocconi quella gustosa pietanza, sorseggiarono insieme una birra alla spina. Presero due porzioni in piú di ikayaki, con l’intento di consumarle dopo in albergo, ma Tamaki pensò subito che non le avrebbero toccate. Finiva sempre cosí quando andavano da qualche parte: si lasciavano prendere dall’avidità, volevano troppo.

«E ora che si fa?» chiese Tamaki a Seiji.

«Già, che facciamo?» ribatté lui, completamente privo dell’allegria del mattino e dell’eccitazione che aveva manifestato all’arrivo a Ōsaka. Abbassò lo sguardo e si mise a riflettere.

«Torniamo a Dōtonbori?» propose Tamaki, vedendolo svogliato e stanco.

«Uhm» rispose senza troppa convinzione Seiji, lí a guardare con aria assente le persone che facevano avanti e indietro per le corsie del grande reparto alimentare.

Finalmente, all’arrivo a Dōtonbori, acquistarono un ombrello di plastica trasparente in un konbini. Abbracciati stretti, sfidando la pioggia, si trascinarono per le vie del quartiere. Le luci colorate delle insegne al neon si riflettevano nelle pozzanghere come in specchi deformanti. Era uno spettacolo che metteva addosso una certa tristezza. E in piú avevano entrambi lo stomaco pieno e non avevano molta voglia di bere. Dopo un po’, Seiji scorse un ristorantino e lo indicò gridando.

«E se andassimo lí?» disse. «Era uno dei miei posti preferiti quando ero uno studente del liceo».

Il locale apparteneva a una nota catena di piccoli ristoranti piuttosto economici specializzati in gyōza. Che genere di liceale era Seiji? Com’era a sedici o diciassette anni? Tamaki gli rispose di sí con un cenno del capo, mentre faceva lavorare come al solito l’immaginazione. Il ristorante era molto affollato e pieno di giovani del posto. Si sedettero a un tavolino in un angolo in fondo, su dei piccoli sgabelli in similpelle appiccicosi e unti di grasso. Senza chiedere il parere di Tamaki, Seiji ordinò una birra in bottiglia e due porzioni di gyōza. Dopo mangiato, sazia fino a scoppiare e con la pancia gonfia di birra ghiacciata, Tamaki si accese una sigaretta. Di colpo, mentre leggeva i nomi delle pietanze scritti in grande alla parete, Seiji richiamò la sua attenzione dandole di gomito.

«Ehi, lo conosci il jingisukan?» le chiese. «Quando venivo qui, lo prendevo sempre».

«Allora prendiamone una porzione, no?»

Il jingisukan era un piatto di carne di agnello cotto alla piastra e condito con una salsa a base di cipolle, verdure varie e altri ingredienti.

Nel giro di pochi minuti, ne fu servita in tavola una porzione molto abbondante e stracolma di condimento: era la classica pietanza che doveva far gola agli studenti pieni di energia di un liceo maschile.

«Buonissimo!» esclamò Tamaki, mentre raccoglieva il cibo dal piatto con la punta delle bacchette e ripensava agli avvenimenti delle ultime ore. «È stata una giornata strana, eh?» aggiunse dopo una breve pausa, trattenendo a stento una risata.

«Trovi?» ribatté Seiji.

«Sí. Tanto per cominciare, non avevamo in programma di venire a Ōsaka, no? Poi mi hai portata per la prima volta nel quartiere dove sei nato e cresciuto, e adesso addirittura nel ristorantino che frequentavi quando eri un adolescente. Si potrebbe dire che siamo nel bel mezzo di un piccolo viaggio sentimentale all’insegna della nostalgia, o sbaglio? Venivi qui al ritorno da scuola?» chiese alla fine Tamaki.

«Sí, ci venivo con i miei compagni di classe tra un cambio di treno e l’altro» rispose Seiji, lasciando vagare lo sguardo tutt’intorno e dopo aver fatto un tiro di sigaretta. «Però, pensandoci bene, ora mi risulta difficile dire che sono di Ōsaka, perché me ne sono andato quando avevo solo diciotto anni. Ho trascorso molto piú tempo a Tōkyō che non qui, tu lo sai».

«Certo, ma sei nato in questa città, in quel quartiere in riva al fiume. Da bambino era lí che giocavi e ti divertivi, abbandonando i gattini alla corrente e a chissà quale destino».

«Sí, andavo molto spesso al fiume… Mi piaceva, mi divertivo da matti. Però in quel punto era poco piú che un canale e puzzava da morire, ricordo che mi veniva sempre il voltastomaco. Ancora oggi, quando per un motivo o per l’altro penso a un fiume, mi viene subito in mente quel canale putrido e non il corso principale dello Yodogawa. A proposito, visto che siamo in tema di ricordi, c’era un tizio molto strano che lavorava con mia madre e a volte si fermava a casa per diverse ore: se solo lo vedevo, mi veniva il nervoso e restavo di cattivo umore per un bel pezzo. A dire il vero, non ho molti bei ricordi della mia infanzia».

«È normale, è piú o meno cosí per tutti. I bambini sono molto sensibili soprattutto agli eventi negativi e tendono a ricordarli piú di quelli belli e positivi. Neanche la mia infanzia è stata chissà quanto piacevole, te lo assicuro. Se ti va, la prossima volta ti mostrerò il posto dove sono nata. Che ne dici?»

«Sí, d’accordo».

Seiji fece una risatina e si versò dell’altra birra nel bicchiere. Allora Tamaki ricordò l’espressione di rimpianto che era emersa poco prima sul suo viso, quando erano nel quartiere sull’altra sponda del fiume, e le venne spontaneo chiedersi se avrebbe reagito anche lei allo stesso modo nel rivedere i posti della propria infanzia.

Di colpo squillò un cellulare. Era quello di Seiji, il quale chiese scusa e uscí fuori dal locale. Tamaki, rimasta sola, bevve un lungo sorso di birra e allungò adagio una mano a sfiorare il pacchetto che conteneva le due porzioni di ikayaki ormai fredde.

2

Ogniqualvolta Tamaki riandava con la mente al paesaggio dell’altra riva del Gange, le succedeva sempre di restare attonita. Avvolta nella bruma del mattino, l’altra riva aveva l’aspetto di una terra incolta e desolata che pareva estendersi all’infinito. Mentre la sponda dove era lei, fiancheggiata da magnifiche costruzioni e gremita di gente che pregava ad alta voce, era molto animata.

Tamaki e Seiji, varcando una “linea” dopo l’altra, si erano sentiti in obbligo di approssimarsi all’estremità ultima della loro storia d’amore. Alcune di quelle linee le avevano superate senza accorgersene, altre con una certa esitazione. E alla fine avevano attraversato il grande fiume che non consentiva loro di tornare indietro.

Ora, risalendo la corrente del tempo, Tamaki provava un senso di sfinimento al ricordo della vacuità che aveva percepito in India, quando si era fermata a contemplare quella landa desolata che si estendeva sull’altra riva del grande fiume. In quel preciso istante, le numerose linee che aveva varcato insieme a Seiji le erano apparse di colpo come un’unica successione di mere illusioni: i pomeriggi al cinema, il corso di yoga iniziato in primavera, le lunghe e lente passeggiate in un enorme centro commerciale delle Hawaii. Momenti intensi e pieni di gioia di vivere, tali da rendere di colpo insignificanti i piaceri del presente. Ma poi tutto era finito, come un sogno, un’illusione.

Anche Midorikawa Mikio, sua moglie Chiyoko e la sua amante X avevano senza dubbio attraversato un grande fiume ed erano approdati sull’altra riva, dove non restava altro da fare che voltarsi di continuo verso il passato, senza smettere di guardare il paesaggio desolato che avevano davanti e pensando al tempo che li separava dalla fine della vita terrena.

Era successo circa otto anni prima, in un giorno di primavera. Per sfuggire agli sguardi indiscreti, Tamaki e Seiji camminavano a breve distanza l’una dall’altro per le stradine laterali del quartiere di Nakano. Viuzze un po’ equivoche dove si susseguivano bar di vario genere, night club e ristorantini di rāmen. Tamaki aveva da poco preso in affitto un nuovo appartamento non lontano dal suo studio e stava andando a visitarlo insieme a Seiji. Era stato proprio quest’ultimo a insistere perché affittasse un alloggio piú grande, dal momento che lei si lamentava spesso dell’esiguità dello studio e ripeteva che aveva bisogno di piú spazio. Una volta, scherzando, le aveva detto chiaro e tondo: «Prendi in affitto un posto piú grande, che cosa aspetti? I soldi ce li hai, no? Altrimenti la gente penserà che sei tirchia e non comprerà piú i tuoi libri». Ma quando poi Tamaki era passata all’azione e aveva deciso di seguire il suggerimento, lui le aveva detto in tutta nonchalance: «Che bisogno c’era di affittare un appartamento? Lo studio non andava bene?». Roba da matti, a volte Seiji parlava a vanvera ed era impossibile riuscire a capirlo.

Tamaki, alquanto irritata dal suo comportamento a dir poco contraddittorio, camminava a passo rapido per lasciarlo indietro. E lui non faceva il minimo sforzo per raggiungerla: procedeva tranquillo alla stessa andatura, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, accontentandosi di seguirla a qualche metro di distanza. In quella scena, dietro i loro volti corrucciati, si celava come non mai la paura del cambiamento.

Seiji amava trascorrere il suo tempo nel piccolo studio dove Tamaki lavorava. Quando per esempio pranzava fuori, non mancava mai di passare da lei e di fermarsi il piú a lungo possibile. Aveva l’abitudine di sedersi come meglio poteva sullo striminzito divano per gli ospiti e di appoggiare il bicchiere di whisky sul tavolino del computer, pronto a discutere di vari argomenti. Apriva le buste con le riviste e i giornali che Tamaki riceveva quasi tutti i giorni, correggeva le bozze che si portava sempre dietro, leggeva i libri che trovava sugli scaffali. A volte si fermava fino al mattino seguente e dormiva sul divano-letto, lamentandosi della sua eccessiva durezza e delle molle di scarsa qualità. Quello studio era il suo secondo ufficio, un luogo che gli permetteva di sfuggire alla routine quotidiana e di lavorare con piacere.

Seiji lo trovava comodo, ma Tamaki aveva un’assistente, e perciò dovevano prendere le dovute precauzioni per mantenere una certa riservatezza. Quando lui si presentava all’improvviso e decideva di restare anche per la notte, al mattino Tamaki aspettava che andasse via e si dava da fare per rimettere tutto a posto e non lasciare tracce. Non era facile fare il bucato in fretta e furia e riporre le lenzuola e gli asciugamani senza dare nell’occhio. Per Tamaki era un vero grattacapo, ma Seiji non ci faceva caso e si concentrava come al solito sul lato piacevole delle cose. Una volta lei gli aveva rivelato che si prendeva la briga di andare a lavare le lenzuola in una lavanderia automatica a gettoni, e lui si era limitato a sfoggiare un ampio sorriso e a dichiararsi felice all’idea che se ne prendesse cura di persona. Allora Tamaki, sulle prime indispettita, gli aveva fatto notare che il tutto le costava tempo e fatica e che avrebbe dovuto mostrarsi perlomeno un po’ piú riconoscente. Ma in fondo Seiji era fatto cosí, e quel suo candore disarmante le piaceva molto. Piú che essere viziato, forse desiderava solo un posto speciale, un’oasi che fosse il piú possibile lontana dalla sua quotidianità. O almeno questo era ciò che pensava Tamaki.

Ben presto, gli incontri segreti allo studio di Tamaki erano diventati un’abitudine, anche se i suoi romanzi cominciavano a vendere abbastanza e la mole di lavoro era in costante aumento. A quel punto, il dubbio era: traslocare in uno studio piú grande o prendere in affitto un secondo alloggio? Tamaki esitava, ma Seiji l’aveva spinta a optare per la seconda soluzione.

«In che zona si trova?»

Seiji sembrava leggermente spaventato. Aveva un’espressione timorosa, quasi fosse preoccupato perché alla fine Tamaki aveva preso in affitto un appartamento riservato ai loro incontri clandestini. Eppure era stato lui a insistere! La nuova realtà lo metteva a disagio, poiché costituiva senza dubbio una prima “linea” molto importante e difficile da superare. Solo in quel momento Tamaki si rese conto di quanto fosse complicato per Seiji accettare la nuova situazione. In fondo per lei era stato tutto piú semplice, perché aveva già varcato la sua prima “linea” superando certi timori quando aveva acquistato il divano-letto che aveva collocato in un angolo dello studio, una cosa all’apparenza di poca importanza. Da quando Seiji era entrato nella sua vita, il fuoco della passione era scoppiato ed era diventato sempre piú ardente. Dopo aver a lungo tentennato, alla fine Tamaki aveva deciso di acquistare quel divano cedendo alle insistenze dello stesso Seiji, oltrepassando cosí la sua prima “linea”. Ora, a confronto con l’esitazione di quel primo passo, la decisione di prendere in affitto un nuovo appartamento si era rivelata quanto mai facile e razionale, dal momento che si trattava di una logica conseguenza della scelta precedente. Senza contare che avere un appartamento a disposizione era anche un modo per evitare che chiunque potesse vederli insieme nello studio di Tamaki e intuire la natura della loro relazione. In definitiva, l’apprensione di Seiji quel giorno a Nakano appariva a Tamaki assolutamente ingiustificata e le faceva sospettare una mancanza di complicità.

«Aspetta ancora un po’ e lo vedrai da solo. Ci siamo quasi».

L’appartamento non era lontano dallo studio ed era ormai in vista, ma Tamaki aveva preferito non anticipargli niente, voleva vedere che faccia avrebbe fatto. L’alloggio si trovava in una palazzina situata tra un locale a luci rosse e un love hotel. Seiji, come era prevedibile, fu attratto dall’insegna molto kitsch del locale a luci rosse e si fermò a guardarla. Entrambi avevano una certa predilezione per le zone chiassose e un po’ equivoche, e perciò Tamaki era quasi certa che Seiji avrebbe apprezzato la sua scelta.

«Eccoci, siamo arrivati» disse Tamaki arrestando il passo davanti all’ingresso della palazzina.

«Wow, è uno sballo!» esclamò Seiji.

Come lei si aspettava, il suo viso si era disteso in un’espressione di pura gioia.

«È il genere di posto che piace a te, no?»

«Certo, puoi dirlo forte!» rispose Seiji, guardando Tamaki con occhi colmi di felicità.

Si trattava di una palazzina di cinque piani con i muri esterni bianchi, il tetto rivestito di tegole blu e la facciata rossa, che accentuava non poco l’aria chiassosa e stravagante dell’insieme. L’atrio di ingresso era modesto ma ben pulito, anche se non c’era il portiere. In un angolo risaltavano le cassette metalliche della posta, molte delle quali con lo sportello completamente spalancato. Di fronte c’era un piccolo ascensore che poteva ospitare non piú di quattro persone.

Tamaki e Seiji salirono al quinto e ultimo piano. Al terzo, come indicava la targhetta sulla pulsantiera dell’ascensore, c’era un alloggio adibito a “sala di riposo” per i lavoratori di un noto ristorante della zona. Quella era l’unica targhetta leggibile: le altre, vuote o cancellate dall’usura del tempo, erano vecchie e sporche. L’appartamento che Tamaki aveva affittato era situato in fondo al ballatoio scoperto, illuminato dai raggi potenti del sole di aprile. Da lí, sporgendosi dal parapetto, era possibile scorgere l’ingresso del locale a luci rosse dell’edificio accanto. Seiji e Tamaki gettarono d’istinto un’occhiata all’interno, attraverso la porta a vetri viola resa trasparente dalla luce intensa del sole, e intravidero le gambe fasciate da sottili collant di alcune ragazze in attesa dei clienti.

Tamaki aprí la porta dell’appartamento con la chiave che aveva appena ricevuto dall’agenzia immobiliare. Le era piaciuto subito e aveva deciso di prenderlo già dopo la prima visita, per cui era solo la seconda volta che ci metteva piede. Si era stupita lei stessa della sua rapida e ardita decisione. La porta, rivestita da un pannello di compensato scurito dal sole, era resa rovente dai raggi che vi battevano direttamente.

«D’estate sarà un forno» commentò Tamaki mentre apriva la porta.

«Sí, puoi ben dirlo» concordò Seiji con aria poco entusiasta. Forse, in quel momento, immaginava di essere sotto il sole cocente dell’estate, in attesa che Tamaki aprisse la porta per fare l’amore.

L’appartamento era in pratica un monolocale: ingresso con angolo cottura, un piccolo bagno e un’unica stanza di circa dieci tatami. Vuoto, senza mobili, sembrava abbastanza ampio. Tamaki si mise a sedere sul parquet e si accese una sigaretta, utilizzando una vecchia lattina di birra come posacenere. Intanto Seiji andò ad aprire la portafinestra scorrevole e diede un’occhiata fuori: uno striminzito balcone si affacciava su una stradina laterale. Di fronte c’era una palazzina simile, con al pianterreno un izakaya di quelli molto popolari. A destra, spiccava un piccolo edificio che ospitava una tipografia e, al piano interrato, un locale notturno. Era facile immaginare che lí davanti, nelle ore serali, comparissero puntuali un paio di procacciatori di clienti che promettevano belle ragazze e divertimento a volontà. Infine, a sinistra, c’era l’ennesima palazzina a uso misto residenziale e commerciale, occupata dal pianterreno al secondo piano da un karaoke, e da alloggi in locazione nei restanti due o tre piani. A farla breve, l’appartamento si trovava nel bel mezzo di un caotico quartiere notturno. Per Tamaki si trattava di una nuova esperienza, non aveva mai abitato in un posto simile ed era molto eccitata, al pari di Seiji.

«Il posto è carino, mi piace» disse Seiji, chiudendo la portafinestra e avvicinandosi a Tamaki. Lei gli sorrise, gettò uno sguardo intorno e fece un sospiro. Era convinta che fosse stata una buona idea prendere in affitto quell’appartamento, ma non c’erano ancora le tende e neanche l’ombra di un mobile. Bisognava partire da zero, aveva un mucchio di cose da fare. Prima di tutto occorreva pensare alla mobilia e all’arredamento. Ma con una certa oculatezza, evitando di acquistare troppi pezzi, altrimenti sarebbe stato un problema sbarazzarsene in caso di necessità. Per cominciare, poteva portare lí il famoso divano-letto, che in fondo allo studio era d’ingombro, e limitarsi a prendere un tavolo nuovo e delle sedie. Naturalmente le servivano anche un telefono e un fax, visto che l’appartamento avrebbe fatto da secondo studio. Senza dimenticare le tende per le finestre e la tendina della doccia. E poi c’erano i piccoli accessori, quelli di cui non si poteva fare a meno, dal portasapone al calzascarpe. Anche puntando solo all’essenziale, arredare una casa richiedeva pur sempre tempo e fatica, oltre che denaro.

«Quant’è l’affitto mensile?» chiese di punto in bianco Seiji.

«Centotrentacinquemila yen» rispose Tamaki.

«Facciamo a metà?» le propose lui, dopo averci pensato un attimo.

«Ma no, non è il caso» disse subito lei.

«Sei sicura?»

«Certo. In fondo ho intenzione di utilizzarlo anche come secondo studio».

Seiji assentí con un sorriso, l’espressione sollevata. Tamaki era sorpresa di se stessa, non riusciva a capire perché avesse rifiutato in modo cosí categorico la collaborazione economica di Seiji. Si era data una gran pena per prendere in affitto quell’alloggio, in tutti i sensi. Aveva fatto il giro delle agenzie immobiliari, esponendosi in prima persona, e aveva dovuto chiedere a uno zio di farle da garante, secondo prassi. Tra le spese di agenzia, il deposito cauzionale e le mensilità a fondo perduto, aveva dovuto sborsare piú di ottocentomila yen. Senza contare che aveva perso un sacco di tempo. In circostanze normali, avrebbe chiesto alla sua assistente di occuparsi di tutto, ma stavolta per ovvie ragioni era stata costretta a fare da sola. Piú ci pensava e piú le sembrava assurdo che dovesse accollarsi tutte le spese, ma d’altra parte non voleva ricorrere all’aiuto di Seiji, non voleva che lui tirasse fuori un solo yen. Anche perché sapeva che in fondo non era disposto a farlo. E poi, visto che delegava tutto a lei e dava tutto per scontato, non era di certo facendogli pagare la metà di un affitto che avrebbe capito e apprezzato i suoi sacrifici. Perciò alla fine si era rassegnata e non gli aveva chiesto niente. Per una sua forma di orgoglio non parlava mai di soldi con lui.

«La prossima volta, vieni direttamente al nuovo appartamento, d’accordo?» gli disse piú tardi, mentre erano sulla via del ritorno verso lo studio.

«Sí, va bene».

Seiji sembrava turbato. Se allo studio ci andava anche in quanto editor di Tamaki, in quell’appartamento riservato agli incontri segreti ci sarebbe andato solo come semplice amante. La nuova situazione lo inquietava parecchio, glielo si leggeva in faccia. Anche Tamaki era preoccupata, aveva paura, ma preferí non dirglielo. D’altra parte quella era l’unica soluzione per alleggerire la tensione e proteggere il loro segreto. Ma perché era toccato a lei fare il passo? La risposta era scontata: perché lui non lo avrebbe mai fatto, e anche perché tra i due era lei quella che soffriva di piú della situazione.

Dopo che si furono salutati con la promessa di rivedersi quella sera stessa, Seiji si diresse alla casa editrice e Tamaki tornò al nuovo appartamento per prendere le misure per le tende. Le annotò su un pezzo di carta e, senza perdere tempo, andò in un negozio di arredi per la casa. Scelse il tessuto, il colore e firmò il modulo per l’ordinazione. Dopo di che passò al supermercato e comprò stracci e detersivi. Lasciò le buste con gli acquisti nell’appartamento e, approfittando dello slancio del momento, portò le lenzuola, le federe dei cuscini e gli asciugamani alla lavanderia automatica. A fine giornata, dopo un appuntamento di lavoro allo studio, era sfinita, non aveva neanche piú la forza di parlare. Era molto occupata e aveva un bel po’ di lavoro arretrato: in altre circostanze non si sarebbe mai sognata di complicarsi la vita in quel modo. Ma ora era diverso, sentiva il brivido di una nuova avventura, e l’idea di aver affittato quell’appartamento le dava la giusta carica per fronteggiare la stanchezza. Voleva pensare positivo e godersi il momento, anche se il tutto le costava denaro, fatica e preoccupazioni.

In serata, Seiji le telefonò e si diedero appuntamento al solito bar di Nakano. Si sentiva un po’ a disagio, forse perché, a differenza del solito, erano passate poche ore dal loro precedente incontro. Si guardarono in faccia e risero senza un motivo particolare, dopo di che ordinarono due birre alla spina e si misero a chiacchierare del piú e del meno. All’epoca, Seiji era tormentato da un problema sorto con un certo scrittore. Tuttavia non ne aveva ancora parlato con Tamaki. Quest’ultima, invece, aveva cominciato a pensare di scrivere anche per altre case editrici, senza dipendere solo da Seiji. Voleva provare a cavarsela con le proprie forze e a farsi strada da sola, anche perché non erano marito e moglie e non c’era nessuna garanzia che la loro storia potesse durare per sempre. Seiji sembrava aver intuito le sue intenzioni e non era granché contento. Nella sua veste di editor, spesso era turbato dal comportamento lunatico e bizzoso degli scrittori, tanto da arrivare a detestarli. E certe volte capitava che finisse per riversare il suo odio e la rabbia anche su Tamaki, prendendosela ingiustamente con lei. Il suo esordio letterario era abbastanza recente e non era ancora una scrittrice affermata, e talvolta lui criticava i suoi lavori con una durezza tale da spingerla sull’orlo delle lacrime. Lei aveva bisogno di un rapporto paritario per poter lavorare serenamente e crescere come scrittrice, il legame sentimentale con Seiji non doveva influire piú di tanto sulla sfera lavorativa, altrimenti non ne avrebbe cavato fuori niente di buono. In quel periodo, la loro relazione non si era ancora consolidata e non avevano ancora conquistato una fiducia reciproca.

«Ehi, non ti andrebbe di sapere come si sta di notte nel tuo nuovo appartamento?» le chiese Seiji, pieno di curiosità.

In realtà anche Tamaki aveva voglia di passare qualche ora in quell’appartamento, ma non c’era niente, era ancora spoglio.

«Sí…» rispose dopo averci pensato un po’ su. «Potremmo andare allo studio e prendere il materasso del divano-letto, che ne dici?»

Seiji rimase ammutolito, non si aspettava una proposta cosí audace. Ma Tamaki riuscí a convincerlo e a farsi seguire. E dire che a un certo punto aveva pensato di sbarazzarsi di quel divano, mai e poi mai immaginando che da un momento all’altro potesse rivelarsi tanto prezioso. Il materasso si rimuoveva con facilità dalla struttura e poteva essere appoggiato direttamente sul parquet. Non aveva senso acquistare un letto nuovo, avrebbe solo rischiato di creare problemi in futuro, vale a dire nell’eventualità di una rottura con Seiji. Naturalmente Tamaki si augurava che quel momento non arrivasse mai, ma preferiva essere previdente e agire con un minimo di razionalità.

Seguendo le direttive di Tamaki, Seiji prese il materasso, lo portò nel vano d’ingresso dello studio e lo mise fuori dalla porta. Poi lo trasportarono in due lungo l’angusto ballatoio esterno, Seiji in testa. Era piú alto e pesante di quanto Tamaki immaginasse.

«Questo materasso pesa come un macigno» si lamentò presto, incapace di tenerlo sollevato da terra. «Non ce la faccio piú».

Cosí toccò a Seiji caricarselo. Tanto meglio, in fondo era meno difficoltoso trasportarlo da solo, anche se era molto ingombrante. Se lo sistemò sulla schiena e partí a passo spedito nella notte, Tamaki che lo seguiva a un paio di metri di distanza. A quell’ora non c’era quasi nessuno in giro, per cui non diedero nell’occhio. Ma non appena misero piede nella zona dei ristoranti e dei locali notturni, Seiji diventò il centro dell’attenzione. Gli sguardi degli impiegati ubriachi e delle coppiette sottobraccio si concentrarono su di lui e sul materasso come fossero l’attrazione principale di uno spettacolo. «Che imbarazzo, che vergogna!» brontolava Seiji a denti stretti, ogni due o tre passi. Dopo oltre una decina di minuti di cammino e dopo essere passati davanti all’ingresso del locale a luci rosse della palazzina accanto, finalmente giunsero a destinazione. Per far entrare il materasso nell’ascensore lo misero in posizione verticale e inclinato, cosicché Seiji e Tamaki si ritrovarono come divisi da un paravento e nessuno dei due poteva vedere il viso dell’altro.

«Giuro che questa è la prima e l’ultima volta che mi costringi a fare una cosa del genere! Che figura, non lo dimenticherò per tutta la vita».

La voce di Seiji arrivava da dietro il materasso. Tamaki soffocò una risata e prese il mazzo di chiavi dalla borsa. E intanto, dall’altro lato, Seiji continuava a mugugnare.

«Io ti amo» le disse, bofonchiando.

«Anch’io ti amo».

Giunsero al quinto piano. La loro storia si stava evolvendo, ma cosa sarebbe successo da lí in avanti? Fin dove sarebbero arrivati, ora che avevano preso in affitto quell’appartamento e avevano superato una “linea” importante? Tamaki non ne aveva la piú pallida idea. Ma andava bene lo stesso, perché al momento tutto filava liscio ed era soddisfatta.

Uscirono dall’ascensore, si guardarono per un attimo negli occhi e scoppiarono in una risata. Non riuscivano piú a fermarsi, ridevano a crepapelle.

«Se qualcuno ci avesse visto per strada» disse Seiji mentre si asciugava le lacrime, «sarebbe stata la fine».

«Sí, è vero».

Tamaki tornò seria in un attimo e cominciò a tormentarsi. Una rivista di gossip aveva da poco pubblicato un articolo molto ironico sulla loro presunta relazione. E Seiji aveva commentato dicendo che stavano correndo un grosso rischio e che prima o poi qualcuno li avrebbe fotografati insieme. Si sentivano perseguitati ed erano diventati entrambi paranoici, ormai potevano fidarsi solo l’uno dell’altra.

«Dobbiamo stare molto attenti» disse Seiji, affrettandosi a portare il materasso all’interno dell’appartamento. Tamaki chiuse la porta e mise la catenella di sicurezza. Certo che attraversare quel quartiere cosí frequentato trascinandosi dietro un materasso a due piazze era stata una mossa tutt’altro che cauta. Tamaki stava per mettersi a ridere, ma si trattenne. Di colpo, figurandosi la struttura nera del divano-letto senza materasso nel suo studio, pensò piú convinta che mai che lei e Seiji avevano appena superato la “linea” piú importante e pericolosa da quando stavano insieme.

Quell’appartamento circondato da night club e locali a luci rosse si rivelò molto piú confortevole e accogliente di quanto Tamaki non avesse immaginato. Quando era lí si sentiva serena, soprattutto perché non doveva preoccuparsi, come invece succedeva nel suo vecchio studio, degli sguardi della sua assistente e delle persone con le quali aveva appuntamenti di lavoro, e finalmente aveva uno spazio tutto suo dove conservare gli oggetti personali e le lettere che non voleva che gli altri vedessero.

Presto anche Seiji cominciò a portare i suoi libri e i cd nel nuovo appartamento. Quel monolocale diventò tra l’altro il luogo dove potevano conservare il materiale relativo ai loro progetti di lavoro, un vero e proprio luogo di discussione dove dare forma ai romanzi di Tamaki. Inoltre quest’ultima continuava a svolgere gran parte del suo lavoro nell’altro studio, cosicché nel nuovo appartamento, dove aveva comunque provveduto a installare il telefono e il fax, poteva concedersi il lusso di trascorrere diverse ore a leggere tranquilla sdraiata sul materasso del divano-letto.

Durante il lungo ponte di inizio maggio, Seiji le propose di fare qualcosa insieme. Di solito, nei periodi di vacanze lunghe come l’Obon e il Capodanno, non si faceva mai vivo e non si vedevano, ma quell’anno le cose andarono diversamente e, una volta tanto, prese l’iniziativa. La sua famiglia era partita per un viaggio ed era rimasto da solo in città: aveva un bel po’ di tempo libero a disposizione. D’altronde, Seiji era uno di quei tipi che in certi momenti soffrono in modo particolare la solitudine. Quando per esempio era fuori città per lavoro, spesso chiamava Tamaki anche in piena notte.

«Perché non sei andato con loro?» gli disse lei al telefono.

«Non ne avevo voglia».

Era la prima volta che succedeva. Di norma tutti gli anni passava le vacanze con la famiglia a casa di amici.

Dopo la telefonata, Seiji si presentò da Tamaki con una sgargiante camicia hawaiana gialla. Non aveva messo il gel sui capelli: la frangia folta, che gli copriva una buona parte della fronte, lo faceva sembrare un altro.

«Ehi, quasi non ti riconoscevo!» esclamò Tamaki.

«A casa mia le camicie hawaiane e gli occhiali da sole sono banditi, perciò ho pensato di approfittarne» disse Seiji, senza pensarci.

«Perché? Invece secondo me stai molto bene» replicò Tamaki, storcendo le labbra in una smorfia.

In quel momento le venne spontaneo immaginare che Seiji fosse un buon padre. Cosí come lei era convinta di essere una buona madre. Eppure giocavano a fare i fidanzatini e se la spassavano in un vivace quartiere del vizio. Lí si concedevano l’illusione di vivere la vita con la massima intensità, anche se poi avevano entrambi una casa e una quotidianità alle quali fare ritorno. E quando, come in quell’occasione, capitava che si vedessero in un giorno festivo, quella sensazione di mordere la vita ed evadere dalla routine era piú che mai forte.

Uscirono sottobraccio a fare la spesa per il pranzo. Erano sereni e spensierati come in un giorno di vacanza. Quando rientrarono, notarono una motocicletta di grossa cilindrata posteggiata vicino alla porta a vetri del locale a luci rosse. Accanto alla moto, c’era un tizio col casco che fumava una sigaretta, il quale gettò loro un’occhiata rapida e distolse lo sguardo. Indossava uno di quei gilet da fotografo pieni di tasche, il che mise in allarme soprattutto Tamaki. Tuttavia lei e Seiji, ancora sottobraccio e senza scomporsi, entrarono di filato nel palazzo.

«Lo hai visto quel tizio?» chiese Tamaki. «Non era lí anche prima?»

«Non lo so, ma la cosa non mi piace» disse Seiji.

Tamaki ricordò di aver sentito dire che la gente che lavorava per le riviste di gossip girava spesso in moto, cosí da avere maggiore libertà di movimento. Paranoie e deliri di persecuzione a parte, la situazione iniziava a destare inquietudine. Seiji andò a dare un’occhiata senza farsi vedere e tornò agitando le mani, l’espressione angustiata.

«Non lo so, ma forse è meglio tornare su di nascosto, senza prendere l’ascensore. Se quel tipo è qui per noi, non dobbiamo assolutamente permettere che scopra qual è il nostro appartamento».

La serenità spensierata dei giorni festivi era ormai per Seiji e Tamaki solo un lontano ricordo. Si avviarono su per le scale a capo chino, in modo da non farsi riconoscere, e percorsero il ballatoio esterno che portava all’appartamento camminando piegati in due dietro il parapetto. Si erano lasciati suggestionare? Si stavano comportando come due matti? Poteva anche darsi ma, non potendo sapere chi fosse il tipo con la moto, preferivano agire con la massima cautela. Tamaki, che era davanti, aprí la porta senza fare rumore e sgattaiolò subito dentro. E Seiji, che la seguiva a breve distanza portando la busta con i bentō e le lattine di birra, fece altrettanto.

«Secondo te era qua fuori già da prima?» chiese non appena ebbe chiuso la porta.

Tamaki annuí. Il tizio si aggirava davanti al locale a luci rosse fin dal mattino. Ne era certa: lo aveva notato e aveva pensato che fosse un cliente.

«È pazzesco. Cazzo, come avranno fatto a trovarci?» disse in tono spazientito Seiji. Poi aprí adagio la porta di casa e si affacciò con cautela al parapetto per dare di nuovo un’occhiata in basso. «È ancora lí, non se ne va» fece rientrando, dopo aver tratto un sospiro. «Forse ha chiamato il fotografo e lo sta aspettando. Fanno sempre cosí: prima un giro di ricognizione in moto e poi chiamano i rinforzi. Certo che ne hanno di soldi da buttare, eh? Bastardi!»

Seiji sapeva quello che diceva, dal momento che in passato aveva lavorato per la stampa scandalistica.

«Sono disposti a investire del denaro su di me? Valgo cosí tanto?» chiese Tamaki, perplessa.

«Purtroppo sí, puoi giurarci» rispose Seiji scoppiando in una risata. «“Clamoroso doppio adulterio tra la scrittrice Suzuki Tamaki e il suo editor A!”: un titolo del genere non passerebbe inosservato».

«Tu dici? Secondo me non è di grande richiamo, non se lo filerebbe nessuno».

Seiji e Tamaki si guardarono negli occhi e si scambiarono un sorriso complice. Bisogna viverla cosí, non c’è altra scelta, pensò lei in quell’istante. Ormai avevano varcato la “linea” e dovevano andare avanti, insieme.

Tuttavia, circa sei mesi dopo, Tamaki decise di lasciare il nuovo “studio” accanto al locale a luci rosse. Perché l’anziana proprietaria, che si occupava anche delle pulizie della palazzina, era troppo curiosa. Tutte le volte che incrociava Tamaki, la squadrava da capo a piedi e la guardava fisso negli occhi, come se volesse sottoporla a un interrogatorio. A quanto pareva, l’impiegata dell’agenzia immobiliare le aveva riferito che la nuova inquilina era una nota scrittrice. E l’anziana signora non perdeva mai occasione di spiare i movimenti di Tamaki. Guarda caso, si dilungava tutti i giorni nelle pulizie del ballatoio del quin-to piano, quasi fosse un agente segreto in incognito. Era irritante, Tamaki non la sopportava. E piú di una volta, uscendo di casa al mattino, lei e Seiji se l’erano ritrovata davanti.

Dopo qualche tempo, Tamaki aveva ricevuto una telefonata dall’agenzia immobiliare. Le proponevano di trasferirsi in un altro alloggio, in una palazzina alle spalle della prima: l’affitto era piú caro, ma il livello di sicurezza era maggiore, grazie a un sistema di videocitofono e al portone automatico. «Gli dia almeno un’occhiata, le assicuro che non se ne pentirà» le aveva detto l’agente immobiliare. E lei, al colmo dell’esasperazione, aveva deciso di seguire il suggerimento. Non ne poteva piú della proprietaria ficcanaso, desiderava un po’ di privacy.

Il nuovo appartamento si trovava giusto di fronte a un love hotel. Dal ballatoio esterno, era facile vedere uomini di pelle scura intenti a pulire le camere e rifare i letti. L’alloggio era nuovo e appena un po’ piú piccolo di quello precedente. Ma essendo esposto a nord era immerso nella penombra al pari di un antro sotterraneo, il che non dispiaceva affatto a Tamaki, la quale in quel momento era piú che altro alla ricer-ca di una sorta di nascondiglio. Come aveva temuto, nei mesi estivi l’appartamento vicino al locale a luci rosse era caldo e afoso come una sauna, e neanche il condizionatore al massimo bastava a rinfrescarlo a dovere. Invece quest’ultimo era l’esatto opposto, e in piú gli accessori della stanza da bagno e della cucina erano nuovi di zecca e di ottima qualità. Mentre si guardava intorno, pensò che avrebbe potuto rintanarsi lí anche per scrivere. Poteva essere per davvero il suo secondo studio, uno spazio estremamente privato.

«Ho deciso di traslocare nella palazzina alle spalle di quella attuale» disse a Seiji, a cose ormai fatte.

«Perché? Non ti trovi bene dove sei adesso?» obiettò lui. «Il posto è bello, mi piace un sacco».

«Sí, ma la proprietaria mi fissa sempre con quello sguardo insolente, come se sapesse tutto di me e di noi, non la sopporto piú».

Seiji non fece alcun commento in proposito, lui che si era mostrato cosí nervoso in occasione dell’episodio dell’uomo con la motocicletta. Andava da Tamaki in media una o due volte a settimana e gli capitava di incrociare la vecchia ficcanaso solo di rado, per cui era una faccenda che non lo riguardava. Tamaki era convinta che la sua reazione fosse dovuta solo a questo, ma preferí non dirglielo per evitare discussioni.

Sborsò ancora una volta una barca di soldi per le spese di agenzia, la cauzione e le mensilità a fondo perduto, dopo di che fece sgombrare l’alloggio accanto al locale a luci rosse e si trasferí in quello piú lussuoso di fronte al love hotel. Trattandosi di un nuovo appartamento, aveva superato un’altra piccola “linea”. E una volta che aveva superato una nuova “linea”, per quanto piccola e insignificante, Tamaki guardava avanti senza mai voltarsi indietro.

Per la portafinestra scorrevole del balcone decise di utilizzare le stesse tende di prima, che per fortuna si adattavano bene. Ma in prossimità dell’angolo cottura c’era una finestra fissa ad altezza d’uomo che bisognava assolutamente schermare: andò allo stesso negozio della volta precedente e acquistò delle ten-dine a vetro di colore scuro, che proteggevano dalla luce e da possibili occhi indiscreti. Piazzò il tavolo con le sedie contro la portafinestra e sistemò il famoso materasso in un angolo della stanza. Avendo, oltre al tavolo e alle sedie, anche un piccolo frigorifero e altri accessori, aveva preferito rivolgersi a una ditta di traslochi.

«In tanti anni di lavoro non mi era mai capitato un trasloco cosí strano» le disse con aria perplessa il tizio della ditta, un uomo che aveva abbondantemente superato la sessantina. «Tra lí e qui ci sono solo poche decine di metri, personalmente non ci vedo nessuna differenza».

La distanza tra le due palazzine era davvero minima, bastava attraversare una strada. Era legittimo concludere che si trattasse di un puro capriccio. Forse Seiji aveva addirittura pensato che Tamaki si fosse lasciata intortare dall’agente immobiliare. Ma lei, dopo l’episodio del tizio in motocicletta e l’invadenza della proprietaria dell’alloggio precedente, aveva perso la tranquillità e non aveva potuto fare a meno di compiere quel passo, per quanto breve e forse non del tutto efficace. D’altra parte, un’eventuale fotografia scattata di nascosto e pubblicata su qualche rivista da quattro soldi non avrebbe ritratto solo lei, ma anche Seiji. Correva pure lui lo stesso rischio! A impensierirla piú di ogni altra cosa e a spingerla a traslocare era stato senza dubbio il timore che qualcuno avesse individuato l’appartamento e potesse spiare i loro movimenti.

Seiji era di cattivo umore quando andò a trovarla per la prima volta nel nuovo alloggio.

«Uhm, non è male qui» le disse sedendosi su una sedia. Ma a Tamaki non sfuggí l’espressione contrariata che era emersa sul suo viso, mentre teneva lo sguardo rivolto alle spesse tendine di merletto della cucina.

«Che cos’è che non ti piace?»

«Niente! Ti ho detto che non è male, no?»

Il problema, forse, era che Seiji non aveva voglia di varcare altre “linee”. Era esattamente questo ciò che pensò Tamaki in quel momento. Fino a poco prima non faceva una piega quando si trattava di andare da lei in quel misero monolocale incastrato tra una miriade di night club e locali a luci rosse di infimo ordine, e invece ora si permetteva di fare il difficile nonostante l’appartamento fosse molto piú carino ed elegante. Tamaki sentí affiorare dentro di sé una tristezza enorme e al contempo una rabbia incontenibile nei confronti di un simile egoismo.

3

Oltre la porta spalancata, Tamaki vide ammassate numerose scatole di cartone. Ce n’era una montagna, erano cosí tante che ostruivano l’accesso alla stanza da bagno e non consentivano di mettere piede nell’appartamento. Dando un’occhiata dal ballatoio, si chiese stupefatta come potesse starci tutta quella roba nel suo piccolo studio. Al di là delle pile di scatoloni, sentí il rumore di nastro adesivo che veniva srotolato con energia. Evidentemente Erie, la sua assistente, stava imballando dei pacchi. Da fuori, le disse ad alta voce: «Grazie mille per l’aiuto!».

Erie fece capolino da dietro gli scatoloni, si aggiustò gli occhiali sul naso con la punta dell’indice e la salutò con voce strascicata: «Buongiorno». Aveva un berretto di lana e una vistosa mascherina per proteggersi dalla polvere. Le lenti degli occhiali erano tutte appannate per via di quella mascherina che le copriva naso e bocca. Tamaki le aveva affidato il compito di occuparsi da sola del trasloco. Si inchinò come fosse un ospite che entrava in casa d’altri e si aprí pian piano un varco tra le scatole di cartone.

«Ha ricaricato il cellulare?» le chiese Erie, in tono leggermente preoccupato. Al che Tamaki si limitò a fare di sí con la testa. «Ne è sicura? Il signor Abe ha telefonato qui diverse volte chiedendo di essere richiamato. Ha detto di aver provato invano a raggiungerla al cellulare. A dire il vero, ci ho provato anch’io, ma senza riuscirci».

«Ah, che strano…»

In realtà non c’era niente di strano, Tamaki stava facendo la gnorri. Il suo cellulare era fuori uso, la sera prima lo aveva scagliato contro il muro di casa e lo aveva fracassato.

«In ogni caso, forse dovrebbe telefonargli. Pare si tratti di un’intervista o qualcosa del genere, è urgente».

Bugiardo, ma quale intervista?!, pensò tra sé e sé Tamaki. Constatando che la sua datrice di lavoro se ne restava ferma e immobile, Erie si avvicinò al telefono con fax, appoggiato in equilibrio precario su uno degli scatoloni, e compose di sua iniziativa il numero di Seiji.

«Buongiorno, la signora Tamaki è appena arrivata, gliela passo subito».

Dopo il gesto inaspettato e le parole molto formali di Erie, Tamaki si sentí in obbligo di prendere il ricevitore. Ma il cavo dell’apparecchio era corto e per parlare fu costretta a restare china per tutto il tempo. «Eccomi, sono io» disse, la schiena piegata quasi in due. Dopo di che, all’altro capo della linea, sentí Seiji emettere un sospiro di sollievo.

«Si può sapere che cosa è successo? È da ieri sera che sto cercando di mettermi in contatto con lei, avrò provato a chiamarla come minimo dieci volte. Ho persino temuto che le fosse successo qualcosa».

Seiji non doveva essere solo, ecco perché le si rivolgeva dandole del lei. Anche se la formalità con cui si esprimeva era contraddetta in pieno dal tono impaziente della voce.

«Non è successo niente. Mi dispiace di averla fatta preoccupare» rispose con studiata esitazione Tamaki.

Stupita dalla spudorata lentezza delle proprie parole, lasciò vagare lo sguardo da un angolo all’altro del suo piccolo studio. Finí col pensare a dettagli che non avevano niente a che fare con lei e Seiji, come la sveglia che giaceva dimenticata in fondo a uno degli scaffali della libreria, o i libri che aveva preso in prestito e messo da parte e che forse Erie aveva impacchettato insieme a tutti gli altri.

«Oggi è il giorno del trasloco?» le chiese Seiji.

«Sí. Gliel’ho detto che ho trovato un nuovo appartamento in un bel palazzo, no?»

«Ah, già, è vero. E l’altro lo lascia?»

Seiji aveva abbassato la voce. Si riferiva al secondo appartamento riservato ai loro incontri clandestini, quello di fronte al love hotel.

«Credo di sí».

«Finisco di lavorare e vengo a darle una mano».

«No, non si preoccupi, ho già chi mi aiuta. La ringrazio per la gentilezza».

Dopo quella semplice frase di circostanza, Tamaki riagganciò. Aveva preso la sua decisione già da un pezzo, e ormai parlarne con Seiji le costava solo fatica. Era esausta. Se avesse potuto, si sarebbe infilata nel letto e avrebbe dormito per due giorni di seguito. Si sentiva spossata al punto da non voler pensare a niente, ma al contempo era felice come una bambina. Incrociò lo sguardo di Erie, la quale la guardava con occhi colmi di ansia. Sembrava preoccupata per il suo aspetto. Tamaki indossava una vecchia giacca di pile rossa piena zeppa di pallini e una gonna nera lunga alla caviglia. Aveva attraversato a piedi il quartiere dei locali notturni ed era arrivata al vecchio studio in quella mise raffazzonata, per di piú calzando dei brutti e rumorosi zoccoli di legno. Di solito usava quel tipo di abbigliamento in casa e non si azzardava mai a mettere il naso fuori conciata in quel modo. La sera prima, impegnata fino a tardi con i preparativi per il trasloco, si era addormentata con quegli abiti addosso e il mattino seguente, senza neanche cambiarsi e truccarsi, era uscita in tutta fretta e si era diretta al vecchio studio. Camminare in una zona affollata e piena di negozi nei pressi di una stazione con indosso i vestiti di casa non rientrava di certo tra le sue abitudini. La morsa che le serrava il cuore si era forse allentata?

«Oggi verrà anche il signor Abe?» le chiese un po’ impacciata Erie.

«Non lo so» rispose Tamaki, inclinando il capo da un lato. «Forse lo ha detto tanto per dire, come suo solito».

Erie ebbe un sussulto e la fissò in volto. Era facile intuire che avrebbe voluto chiederle che cosa fosse successo e se potesse rendersi utile, ma era lí che esitava, sapendo che non era nella posizione di rivolgerle una domanda del genere. Ci pensò la stessa Tamaki a toglierla dall’imbarazzo, cambiando subito argomento.

«Allora, posso contare sul suo aiuto per il trasloco? Può farmi la cortesia di restare qui per controllare che tutto vada bene?» le chiese.

«Ma certo, ci conti pure» rispose Erie, la voce un po’ strozzata.

Senza aggiungere altro e senza neanche guardarla negli occhi, Tamaki lasciò in fretta lo studio. Suo malgrado, aveva finito col sentire la voce di Seiji. E ne aveva ricavato una sensazione molto sgradevole, come quando si respira il fumo della sigaretta di un’altra persona mentre si sta cercando di smettere di fumare.

Tamaki aveva preso una decisione definitiva: rompere una volta per tutte con Seiji. Sapeva che non sarebbe stato facile e temeva fortemente di non riuscirci, ma era determinata ad andare fino in fondo. Doveva mettere da parte qualsiasi scrupolo e mollarlo, non doveva lasciarsi ingannare dalle sue moine. Gli eventi che si erano consumati di recente l’avevano fatta rinsavire, costringendola di colpo a vedere Seiji sotto un’altra luce. L’amore si era tramutato in odio, e la fiducia in sfiducia. Tutto le sembrava futile e insensato, si sentiva invadere sempre piú da una voglia irrefrenabile di lasciar perdere ogni cosa. E al fondo di tutto c’era una tristezza infinita, un abisso desolato in cui sprofondava.

Nel secondo appartamento, avevano iniziato a discutere sempre piú spesso. Seiji continuava a farsi vivo di frequente, con una certa regolarità, ma ultimamente si mostrava cinico e parlava molto dell’importanza della famiglia. Tutte le coppie, dopo una lunga frequentazione, attraversano dei momenti difficili, ma forse loro erano giunti a un punto morto. Seiji glielo aveva detto chiaramente: «Il nostro rapporto non porta da nessuna parte». Le aveva ripetuto piú volte che, se si fossero incontrati prima, forse tutto sarebbe stato diverso e avrebbero potuto compiere un vero percorso insieme. I suoi discorsi erano sempre molto vaghi, non le dava mai delle spiegazioni valide e razionali, ma si limitava piú che altro a ripetere fino alla noia che le loro strade si erano incrociate troppo tardi e non portavano da nessuna parte. E che l’unica soluzione era continuare a frequentarsi come avevano fatto fino ad allora, vivendo il rapporto alla giornata e senza pretendere di cambiare alcunché.

«E questo, secondo te, sarebbe amore?» le aveva chiesto una volta Tamaki.

«Certo che sí».

«Ma siamo come due piante dalle radici aeree… Secondo te è possibile andare avanti cosí?»

A quelle parole, Seiji si era lasciato sfuggire un sorriso ironico.

«In che senso? Non capisco».

«Non hai mai sentito parlare di quelle piante le cui radici si sviluppano al di fuori del terreno? Noi due siamo come loro, ecco».

Tamaki capiva che Seiji ne aveva abbastanza e che non sopportava piú quel suo modo di parlare per metafore. Ma anche lei non ne poteva piú di lui, era affranta e stremata. Solo che non riusciva a gridarglielo in faccia, perché era troppo amareggiata e le sembrava tutto cosí insulso. Seiji aveva completamente trasformato la loro relazione. Per quanto tempo ancora potevano resistere in quel mondo ormai sottosopra?

Tamaki aveva reagito con prontezza alla situazione e, all’incirca un mese dopo, aveva acquistato un appartamento in un palazzo di nuova costruzione nei pressi dell’uscita Sud della stazione di Nakano. Di conseguenza aveva deciso di lasciare senza alcuna esitazione il monolocale destinato agli incontri segreti con Seiji. Era come se il suo istinto di sopravvivenza, messo in allarme dal pericolo di una violenta e sconosciuta crisi psicologica, le avesse gridato: «Presto, devi scappare via!».

«Erie, ha presente quel palazzo che stanno costruendo vicino all’uscita Sud della stazione?» aveva detto in quei giorni alla sua assistente. «Ho appena comprato un appartamento e, non appena tutto sarà pronto, ho intenzione di trasferire lí lo studio».

«Ah, che splendida notizia!» aveva replicato sorpresa Erie. «Ha già visto un appartamento finito? Non sarebbe stato meglio aspettare ancora un po’?»

«Ne ho visto uno, una sola volta».

«Mmh, una casa è un acquisto impegnativo, è sicura di non aver agito di fretta? Di solito, si valutano varie opzioni e ci si prende il tempo necessario per decidere con calma».

Tamaki sapeva che Erie aveva ragione. Ma in quel momento le interessava solo scappare. Non voleva piú avere due appartamenti, uno per il lavoro e l’altro per gli incontri con Seiji, era stanca di amare quell’uomo. Non sopportava l’idea di aver fatto un passo piú di lui. Ormai era evidente: il peso del rapporto gravava solo sulle sue spalle. Non era giusto, non si poteva andare avanti cosí. Quanti bocconi amari aveva dovuto mandare giú? Quante volte si era astenuta dal dirgli quello che pensava?

Finalmente, dopo aver lasciato il monolocale di fronte al love hotel, aveva provato un senso di sollievo. Ora toccava a lui muovere un passo e sentire il peso della situazione sulle spalle. L’aveva fatta franca per troppo tempo. E siccome mai e poi mai gli sarebbe saltato in mente di prendere in affitto un nuovo alloggio, la loro storia poteva anche finire lí. Perché non gli avrebbe mai permesso di mettere piede nell’appartamento che aveva appena acquistato. Era stato lui a spingerla a varcare quella “linea”, ma poi aveva rinunciato a seguirla e l’aveva lasciata sola, tradendo le sue aspettative.

Quando lo aveva messo al corrente dell’acquisto della casa, Seiji era apparso sconvolto.

«Perché non mi hai detto niente? Perché non hai chiesto il mio parere?» le aveva detto, gli occhi fuori dalle orbite.

«Mi dispiace, ma ho preferito decidere da sola».

«E l’altro appartamento?»

«Sono già stata in agenzia e ho disdetto il contratto d’affitto. Posso starci ancora per un mese. Se vuoi, puoi pensarci tu a prenderne un altro».

«Certo, è quello che farò!» aveva replicato Seiji serio, messo con le spalle al muro dalla determinazione di Tamaki.

Lei si era limitata a guardarlo negli occhi con aria di sfida. Credeva fosse inutile ribattere con frasi del tipo «Bene, fallo!», perché sapeva che non sarebbe mai stato capace di prendere un’iniziativa del genere. Quelle di Seiji erano parole buttate al vento, quell’uomo non aveva la volontà necessaria per prendere una decisione drastica. Gli conveniva non agire, e in ogni caso non aveva la forza per cambiare le cose. Nei giorni successivi fece il giro delle agenzie immobiliari alla ricerca di un monolocale ma, guarda caso, il risultato era sempre lo stesso: uno non andava bene perché era troppo piccolo e vecchio, un altro era rumoroso, un altro ancora era lontano dalla stazione e cosí via. E naturalmente stava sempre attento a fare a Tamaki il resoconto dettagliato dei mille difetti che riscontrava, sommergendola di lamentele quasi a volerla sfinire.

«Ammesso che si riesca a trovare qualcosa di decente» le aveva detto nel corso di una delle numerose discussioni, «ci sarebbe il problema delle consegne: se per esempio si compra un frigorifero o qualcos’altro, ci deve pur essere qualcuno in casa, no? E io, col mio lavoro, non posso rendermi facilmente disponibile».

«Eppure io l’ho fatto, e per ben due volte! Pensi forse che io abbia tempo da perdere e che il mio lavoro non mi tenga abbastanza impegnata?» aveva replicato stizzita Tamaki.

Seiji si era ammutolito all’istante e non aveva piú tirato in ballo l’argomento. Fine della breve ricerca dell’appartamento. Da quel momento, Tamaki aveva avuto la netta sensazione che Seiji si stesse allontanando da lei, ora che il suo atteggiamento nei suoi confronti era cambiato.

Tra un battibecco e l’altro, i lavori del nuovo appartamento di Tamaki erano stati ultimati. Dopo il sopralluogo finale, nonostante tutto, lei aveva cercato di stabilire di comune accordo una data per il trasloco, ma Seiji aveva continuato a tergiversare e a rimandare accampando ogni volta un pretesto diver-so. Che cosa aveva in testa? Se non aveva voglia di collaborare, perché non lo diceva chiaro e tondo? Tamaki era fuori di sé, non ne poteva piú di dover sconvolgere i suoi programmi a causa del comportamento di Seiji. Tanto piú che ormai sapeva perché agiva in quel modo. Preferiva non muovere un dito sperando che facesse tutto lei come al solito. Ma se voleva tirarsene fuori, doveva avere il coraggio di non farsi piú vivo: ormai era cosí che la pensava Tamaki. Aveva aperto gli occhi una volta per tutte, e stentava a credere di essere stata cosí stupida da lasciarsi soggiogare tanto a lungo. Non era piú disposta a dare le chiavi del suo mondo a un uomo del genere.

In un accesso di collera, mentre era nel vecchio appartamento alla vigilia del trasloco, Tamaki aveva afferrato le tendine della piccola finestra dell’angolo cottura e le aveva strappate con forza. Si era sentita invadere da uno strano piacere nel vedere l’orlo merlettato lacerarsi producendo uno stridio sordo. Poi le erano riaffiorati alla mente la frenesia e il nervosismo che aveva provato quando le aveva acquistate ed era sprofondata di nuovo nello sconforto. Sembrava tutto cosí vacuo e inutile, aveva la sensazione di aver perso solo tempo. E al pensiero che Seiji non condividesse la sua stessa disperazione, si sentiva ancora piú esasperata e avvilita. Alla fine si era decisa a telefonargli e a dirgli tutto quello che pensava, ma purtroppo aveva trovato la segreteria telefonica.

Ecco il messaggio che gli aveva lasciato: «Non posso aspettarti in eterno, cosí non risolviamo niente. Ho deciso di fare il trasloco domani. Ora puoi anche dimenticarmi».

Dopo, era rimasta immobile per qualche secondo, lí a fissare il cellulare stretto nella mano destra. Adesso non le restava che attendere la risposta al messaggio. Ne aveva abbastanza, la sua pazienza era ormai arrivata al limite. Non voleva ritrovarsi prigioniera di Seiji. O meglio, non voleva restare ingabbiata chissà per quanto tempo ancora nella relazione che avevano costruito insieme. Non aveva nessuna intenzione di restare sola e abbandonata nel mondo desolato che si estendeva al di là dell’ultima “linea” che solo lei aveva varcato. Sentiva il bisogno di fuggire altrove, il piú in fretta possibile. E, mentre rifletteva, aveva scagliato con forza il telefonino contro la parete. Sulla carta da parati plastificata, che il proprietario si vantava di avere da poco sostituito, era rimasto un segno evidente. Il cellulare era rimbalzato con violenza sul pavimento e si era frantumato. E quando Tamaki lo aveva raccolto da terra, come c’era da aspettarsi, non funzionava piú. Una relazione amorosa distrutta insieme a un telefono cellulare. Senza volerlo, aveva preso ad accarezzare con la punta delle dita quel piccolo e innocuo apparecchio che non c’entrava niente. E cosí, al di là della tristezza, aveva cominciato a provare anche un senso di liberazione. Basta, ora abbiamo chiuso per sempre!, continuava a ripetersi tra sé. È finita!

Quella notte, mentre imballava un pacco dopo l’altro, aveva bevuto da sola brindando alla decisione che finalmente aveva preso. «Non lasciarti imprigionare, sei una donna libera» mormorava tra sé e sé. «Devi rinascere e vivere una nuova vita!» Esausta nel fisico e nella mente, si era poi messa a osservare lo spettacolo della vita notturna di Nakano attraverso le tendine di merletto ridotte a brandelli. Qua e là brillavano le insegne al neon dei bar e dei locali notturni, era tardi, si spegnevano una dopo l’altra. Regnava ormai l’oscurità e di lí a poco sarebbe sorta l’alba. Ed ecco che erano spuntati i primi raggi del sole e il cielo si era colorato di un rosa pallido, annunciando l’arrivo di un nuovo e tardivo mattino invernale. Poi, quando i primi corvi erano apparsi sulla strada e avevano cominciato a far sentire il loro grido spettrale, Tamaki aveva aperto le ante inferiori della credenza e i cassetti e aveva iniziato a riempire un paio di scatole di cartone con documenti, fotocopie, riviste e fotografie. Aveva avvolto nella carta di giornale le poche stoviglie in suo possesso e le aveva messe con cura in un sacchetto di carta. Quante volte aveva traslocato negli ultimi sei mesi? Nel pensarci, non poté fare a meno di increspare le labbra in un sorriso amaro. Dopo aver finito di imballare tutti i pacchi, era andata a stendersi per un’ultima volta sul materasso che lei e Seiji avevano trasportato insieme per le strade del quartiere e che ora aveva intenzione di buttare. A quel pensiero, finalmente i tratti del suo viso si distesero e si lasciò prendere dal sonno.

Seiji si fece vivo dopo che Tamaki era stata allo studio ed era rientrata nell’appartamento. Stringeva una sigaretta tra le dita e indossava un pesante cappotto blu scuro, che lei era solita chiamare “il cappotto della polizia di frontiera”. Quella mattina la temperatura era scesa sottozero. La nuvola di vapore che fuoriusciva dalle sue labbra insieme al fumo della sigaretta era bianchissima.

«Ah, sei venuto?»

«Certo, perché ti stupisci? Mi hai fatto preoccupare. Mi lasci un messaggio in cui mi dici “Ora puoi anche dimenticarmi”, come se tra noi non ci fosse piú niente… Yumi-chan, sei terribile, non credi di esagerare? Dài, pensa a quanto ci vogliamo bene».

Era nel suo stile, tentava subito la carta delle lusinghe.

«Smettila! Quando una donna sta per sfuggirti, le corri dietro per non perderla, eh?»

Tamaki abbozzò un sorriso freddo e si mise a scattare alcune foto dell’appartamento con la sua fotocamera digitale: il solco lasciato dal cellulare sulla carta da parati; i resti delle tendine di merletto; i cumuli di polvere negli angoli della stanza, sulla moquette che per tre mesi non aveva mai beneficiato dell’aspirapolvere. Aveva un mal di testa terribile a causa della mancanza di sonno.

«Perché, ti stai allontanando da me?» le chiese Seiji aggrottando le sopracciglia, afferrandola per la giacca di pile rossa.

«Non lo so, tu che dici?» rispose Tamaki senza ten-tare di divincolarsi, limitandosi a inclinare dubbiosa il capo da un lato. Voleva evitare ogni malinteso. Voleva fargli capire che non stava fuggendo da lui, ma dal loro rapporto ormai logorato che la teneva in trappola. Puntò l’obiettivo della fotocamera su Seiji e inquadrò il suo volto, sul quale campeggiava un sorriso infantile.

«Perché stai scattando tutte queste fotografie?»

«Per ricordo. Perché non prenderò mai piú un appartamento in affitto».

«In che senso? Che vuoi dire?»

Seiji la guardava con il fiato sospeso. E Tamaki emise un lungo sospiro prima di replicare.

«Quello che ho detto…» rispose in tono afflitto. «Non prenderò mai piú un appartamento in affitto in tutta la mia vita».

Di colpo Seiji si adombrò e il suo viso divenne una maschera malinconica e dolente. Non disse niente, trasse solo un profondo sospiro e abbassò la testa. Forse in quel momento era anche lui triste e disperato e provava al contempo un senso di liberazione, solo che non era facile leggerglielo in faccia.

«Buongiorno!» dissero ad alta voce i traslocatori, presentandosi all’improvviso alla porta. Erano in due, entrambi sulla ventina e con i capelli lunghi. Avevano lo stesso sorriso giocondo stampato in faccia, come fossero in preda a uno stato di euforia immotivata.

«Questo è tutto?» dissero a bassa voce guardandosi l’un l’altro, perplessi di fronte all’esiguità dei bagagli da trasportare. In mezz’ora circa portarono via il tavolo, i libri e tutto il resto. Infine si avvicinarono al materasso.

«No, quello no» disse Tamaki. «Devo liberarmene, non serve piú».

«Vuoi che me ne occupi io?» intervenne Seiji con aria sconsolata.

«Sí, grazie. Puoi portarlo qui dietro, nell’apposito spazio per i rifiuti».

Per qualche attimo si domandò se fosse il caso di accompagnarlo, ma sapeva che non doveva cedere ai rimpianti. Cosí lasciò che ci andasse da solo e si ritrovò a contemplare l’appartamento vuoto. Aveva le lacrime agli occhi, era emozionata al ricordo dell’entusiasmo che aveva provato quando aveva preso in affitto quel monolocale, appena tre mesi prima. Si era sentita al settimo cielo, presa da un’eccitazione speciale che solo lei poteva capire. Era cosí felice di poter preservare il suo segreto, in quell’appartamento molto piú tranquillo di quello precedente. Le piaceva molto, e tra l’altro era anche nuovo.

«Ecco fatto, l’ho buttato» disse Seiji, che intanto sembrava aver socializzato con i traslocatori.

«La scattiamo qui la foto ricordo?» gli chiese uno dei due, indicando la fotocamera di Tamaki. Al che Seiji, ridacchiando e senza dire niente, afferrò Tamaki per un braccio e la tirò a sé. L’uno accanto all’altra nel ballatoio esterno, a braccia conserte, guardarono fisso nell’obiettivo abbozzando un sorriso artefatto. Il giovane traslocatore scattò due foto a breve distanza l’una dall’altra, per sicurezza. Dopo, guardando il display della fotocamera, Seiji e Tamaki si accorsero che in entrambi gli scatti c’era un uomo mediorientale alle loro spalle, forse un addetto alle pulizie. Il tizio aveva sporto la testa da una delle finestre del love hotel di fronte e li osservava tutto divertito.

Nel palazzo di nuova costruzione dove Tamaki stava per trasferire il suo studio, tutto procedeva per il meglio. Erie aveva chiesto aiuto a due amiche e insieme si davano un gran da fare, come fossero una squadra ben affiatata. Per non destare inutili sospetti, Tamaki disse che aveva portato da casa il tavolo e le sedie che in realtà provenivano dall’appartamento degli incontri segreti. Ci pensarono lei e Seiji a sistemarli in un angolo, precisando che sarebbero serviti per le riunioni. Poi, da sola, ripose con cura sugli scaffali i libri, le riviste e i documenti di lavoro. Una giornata non bastava per mettere tutto in ordine, perciò Erie e le sue amiche si diedero appuntamento per l’indomani mattina e andarono via.

«È nuovo ed è molto accogliente, complimenti. Ed è anche bello ampio» commentò Seiji con voce squillante, guardandosi in giro, mentre tutt’intorno aleggiava un odore gradevole di legno nuovo. Tamaki era su di giri, felice di ripartire da zero. Ma aveva ancora qualcosa di molto importante da dire a Seiji.

«Senti, Sei-chan…» Seiji, che intanto stava sorseggiando una lattina di birra, si voltò di scatto verso di lei. «Credo sia meglio che tu non venga piú qui…» Seiji rimase impietrito e abbassò la testa. «Ci ho riflettuto a lungo, ma se davvero è impossibile, allora è meglio smettere».

«Che cosa è impossibile?»

Il comportamento di Seiji era inammissibile, stava eludendo la domanda, come al solito. Tamaki era esasperata.

«Tra noi due non c’è futuro, lo sai benissimo».

Frattanto, dal momento che Seiji se ne stava zitto, un’altra voce risuonava nel fondo della sua coscienza e le diceva: «No, non è vero, sai che non è cosí. Il fatto è che non sei stata capace di monopolizzare il suo amore». Sí, era vero, monopolizzare… Quando si ama, non c’è verso, è cosí.

«Ora te lo dico chiaro e tondo, visto che continui a far finta di non capire» disse Tamaki guardando Seiji dritto negli occhi. «Io non voglio dividerti con nessun’altra persona. È molto semplice: se non è possibile averti tutto per me, preferisco soffrire e mettere fine alla nostra storia. Ecco perché ti ho chiesto di non farti piú vedere».

Prima di rispondere, Seiji mandò giú un sorso di birra e distorse il viso in una smorfia, come se fosse molto amara.

«In poche parole, mi stai chiedendo di scegliere?»

«Sí, proprio cosí» disse Tamaki.

Seiji, lo sguardo basso, sprofondò in un lungo silenzio. Poi, dopo quasi cinque minuti, disse: «Allora scelgo te».

Tamaki rimase senza parole, non riusciva a credere alle sue orecchie. Oltre che sbalordita, era anche molto felice: non era pronta a una risposta del genere, si aspettava tutt’altro.

«Non posso vivere senza di te» continuò Seiji. «Sei troppo importante per me, non ti lascerò mai. Separiamoci dalle nostre rispettive famiglie e continuiamo a stare insieme come abbiamo fatto finora. Forse dovrò lasciare il lavoro alla casa editrice, ma non m’importa, so solo che voglio stare con te».

Non appena ebbe pronunciato l’ultima parola, si gettò ai piedi di Tamaki, sul parquet nuovo di zecca. Lei era ancora piú stupefatta, sconvolta, tanto da non riuscire ad aprire bocca. Non gli aveva fatto quel discorso per vederlo prostrato ai suoi piedi. E solo in seguito, molto tempo dopo, si rese conto che lo aveva messo con le spalle al muro perché desiderava che anche lui varcasse finalmente una “linea” importante.

Nei suoi ricordi lontani non c’erano dei limiti netti e ben definiti. Seduta davanti al pc, Tamaki lasciava che gli eventi del passato affiorassero alla rinfusa dal fondo della memoria, uno dopo l’altro. Forse a scatenare il flusso dei ricordi era il profumo stordente di gardenie sfiorite, che aleggiava nell’aria e riportava in superficie sia gli episodi belli che quelli brutti, indiscriminatamente.

Il trasloco di Tamaki e la scelta inaspettata di Seiji avevano costituito un punto di svolta fondamentale nella loro relazione. In seguito avevano vissuto una nuova luna di miele e il loro legame si era consolidato, ma alla fine erano arrivati lo stesso al capolinea, cinque anni piú tardi.

Seiji, esattamente come nella precedente occasione, le aveva chiesto di ripensarci e di restare ancora insieme, piú o meno una settimana prima del litigio furioso in cui Tamaki avrebbe perso il controllo e lo avrebbe schiaffeggiato. In quale stato d’animo si trovava lui quella seconda volta? Tamaki era forse talmente fuori di sé da non essere in grado di capire i veri sentimenti di Seiji? Il suo giudizio sull’uomo con il quale aveva condiviso diversi anni della sua vita era sbagliato? Mentre si poneva queste e altre domande, perse il filo dei suoi pensieri e si sentí molto confusa.

Il cellulare squillò. Era Nakagusuku. Di recente, aveva cominciato a interessarsi seriamente al romanzo che Tamaki era in procinto di scrivere e che le stava costando tanta fatica e afflizione, L’indecenza. Si era messo a fare numerose ricerche e si teneva in contatto costante con lei, nella speranza di rendersi utile.

«Sono Nakagusuku. Come procede il lavoro?»

«Non male, sto andando avanti» rispose come suo solito Tamaki, mentendo spudoratamente.

«Perfetto, non vedo l’ora di leggere qualcosa. In realtà, le ho telefonato perché devo dirle una cosa molto importante, si tenga forte».

La voce del giovane editor tradiva un entusiasmo impetuoso, come se avesse tra le mani una notizia bomba.

«Di che si tratta?»

«Non ci crederà, ma ho scoperto chi è la X dell’Innocente

«Davvero?»

Tamaki sentí il battito del cuore accelerare, non stava piú nella pelle.

«Sí! La scrittrice Miura Yumi!»

Era la prima volta che sentiva quel nome. Un altro scrittore, pensò, mentre lo annotava nel bloc-notes che era sulla scrivania. Del resto non c’era molto da stupirsi: Midorikawa Mikio, secondo alcune fonti non confermate, aveva avuto piú di una relazione con donne che gravitavano intorno alla sua rivista letteraria. Era in ogni caso una notizia inaspettata, Tamaki era sbalordita.

«Che genere di libri scriveva?» chiese col fiato sospeso.

«Giusto, è una domanda molto sensata, ma pare che non abbia scritto granché. Comunque, farò qualche ricerca e le porterò al piú presto del materiale, va bene?»

Nakagusuku pronunciò quell’ultima frase con una foga tale da far pensare che si sarebbe precipitato subito in biblioteca.

«Aspetta un attimo… Si tratta di notizie certe? Da chi le hai sapute?»

«Piú che certe, direi. La mia fonte è Fujiyama Mamoru».

Fujiyama Mamoru, scrittore passato dalla letteratura pura ai romanzi erotici, era l’autore della celebre serie intitolata Il club della carne. Alcuni decenni prima, la sua espressione “stato d’animo e passione” aveva fatto tendenza, creando un’aura di scandalo intorno al suo nome. Tamaki aveva sentito dire che era ancora vivo, ma non avrebbe mai immaginato di apprendere grazie a lui la verità su X. Nutriva una sorta di pregiudizio nei confronti degli scrittori legati a Shusui ed era pressoché certa che nessuno di loro avrebbe mai aperto bocca riguardo alla misteriosa amante di Midorikawa.

«Come hai fatto a metterti in contatto con Fujiyama Mamoru e a sapere certe cose da lui?»

«È semplice, sono andato a trovarlo e gliele ho chieste. Avevo un impegno di lavoro a Odawara e ne ho approfittato per fargli visita. Ha ottant’anni, ma gode di ottima salute ed è in possesso di una memoria prodigiosa. Pensi che all’inizio credeva che fossi andato da lui per chiedergli di scrivere qualcosa per noi. È ancora molto arzillo, non ne vuole sapere di smettere di lavorare».

Dopo aver riattaccato, Tamaki provò a fare una ricerca sul web digitando il nome “Miura Yumi”, ma c’era ben poco, non piú di venti risultati. Una pagina, però, riferiva un episodio di notevole interesse:

Nell’ottobre del 1955, presso una sala comunale della cittadina di Tobari, era in programma una conferenza di due scrittrici che attendevo con molta trepidazione. Protagoniste dell’incontro sarebbero dovute essere Murakami Sadako e Miura Yumi. Amavo moltissimo le storie tristi di operaie scritte da Murakami Sadako, nelle quali mi identificavo non poco. All’epoca, mi occupavo della contabilità in una fabbrica di coperte, ma prima avevo lavorato anch’io come semplice operaia. Per fortuna, dopo un certo periodo, mi avevano affidato un lavoro d’ufficio, che era molto meno faticoso e mi dava maggiori soddisfazioni. Quando vedevo le mie giovani colleghe spaccarsi la schiena in fabbrica, mi ripetevo che ero stata davvero fortunata. Nei suoi libri, Murakami Sadako descriveva quelle povere ragazze con grande vivacità, ma anche con straordinaria tenerezza. La ritenevo una scrittrice formidabile e la rispettavo moltissimo, era una delle mie preferite. Ma in quel giorno di ottobre, mi sentii tradita e la mia opinione cambiò del tutto. Lei e Miura Yumi decisero di annullare la conferenza perché le terme di Beppu, dove erano state la sera precedente, erano piaciute loro cosí tanto da spingerle a prolungare il soggiorno! Pare addirittura che Miura Yumi avesse detto qualcosa del tipo «Freghiamocene della conferenza, restiamo qui un’altra notte». Il che mandò in bestia gli abitanti di Tobari, me compresa.

Il brano, di cui era autrice un’anonima settantacinquenne, era riportato in un sito Internet dedicato a Murakami Sadako. Miura Yumi, menzionata solo in rapporto alla collega e criticata in termini negativi, ci faceva tra l’altro una pessima figura. Murakami Sadako era nota per il suo forte legame con il movimento della letteratura proletaria e, al di là del fatto che era strano trovare il suo nome associato a quello di Miura Yumi, era molto difficile crederla capace di annullare una conferenza solo per godersi qualche giorno in piú in una stazione termale. Tamaki reputò la storia alquanto inverosimile e avvertí un alone di malevolenza intorno a quella scrittrice di cui non aveva mai sentito parlare in precedenza: Miura Yumi.

Se era davvero lei X, allora non era improbabile che avesse scritto qualcosa riguardo all’Innocente. O almeno era questo ciò che Tamaki sperava, mentre un sorriso amaro le affiorava sulle labbra. Midorikawa Mikio, sua moglie Chiyoko – in seguito diventata scrittrice di libri per bambini con lo pseudonimo di Midorikawa Midori –, Miura Yumi… Scrittori, nient’altro che scrittori! Perché? Che cosa poteva significare?