1
Takako e Michiko sguazzavano a riva, avanzando esultanti tra le piccole onde dell’immenso mare, un paio di metri davanti a Yōhei. Indossavano entrambe un costume da bagno blu scuro e ciascuna aveva un salvagente rosa intorno alla vita. Yōhei, che portava ancora i pannolini, correva barcollando dietro alle sorelle. Io guardavo i bambini dalla spiaggia, il volto disteso in un sorriso di pura gioia. Sulla sabbia scura della battigia restavano le impronte dei minuscoli piedi di Yōhei, simili a quelle di un piccolo animale.
Di colpo mi sentii pervadere da un soffio di felicità. Volevo vedere tutto positivo. Mi voltai a guardare Chiyoko al mio fianco: riparandosi sotto il suo ombrello bianco, sorvegliava i bambini che giocavano in acqua a riva. Nel suo vestito leggero a motivi geometrici bianchi e neri acquistato l’anno prima, con un telo di spugna bianco in una mano, sembrava straordinariamente bella, assennata e serena.
Provai a sfiorarle il braccio. Il violento litigio della sera precedente, interrotto da quella scena radiosa al mare, mi aveva lasciato un ricordo penoso. Ma ora Chiyoko non mi respingeva e pareva disposta ad accettare le mie carezze. Contento e pieno di speranza, presi a massaggiare con le dita la sua tenera carne.
«Che c’è?» mi chiese all’improvviso, irrigidendosi appena, come se di colpo si fosse accorta che la stavo toccando.
«Niente, il tuo braccio è cosí morbido, sembra uno habutaemochi».
«Per essere uno scrittore, ricorri a paragoni piuttosto banali».
Le sue parole non suonavano molto gentili, ma almeno sorrideva spensierata. Ne fui molto sollevato, non mi sentivo cosí bene da tempo immemorabile. «Non ti arrabbiare piú, per favore. Guarda i nostri bambini come sono felici».
Senza rispondere, si chinò per scrollarsi di dosso la sabbia umida che le si era attaccata alle gambe, sfregando forte con il telo di spugna.
«Ritrova il tuo buon umore, ti prego, proviamo a tornare quelli di un tempo» aggiunsi subito dopo. «Uhm, va bene…» disse lei con un filo di voce.
In quel momento preciso, si sentí provenire un certo trambusto dalla riva. Al limite del mio campo visivo, distinsi una piccola sagoma bianca tra le braccia di un uomo.
«Yōhei!» urlò disperata Chiyoko, sollevando di scatto la testa, i capelli sconvolti da un’onda di terrore. Invece io, non so perché, mi ero già rassegnato e lasciai vagare lo sguardo sulla sabbia bagnata alla ricerca delle impronte dei passi di mio figlio. Era atroce pensare che le onde le avessero cancellate per sempre.
A bordo dell’aereo, Tamaki rileggeva le ultime pagine dell’Innocente. Dal rapporto di amore e odio che univa Midorikawa Mikio e sua moglie Chiyoko emergeva con prepotenza un’immagine: quella di una coppia che condivideva in egual misura quei due sentimenti contrastanti. Uno straordinario rapporto di amore e odio fortemente distruttivo.
La relazione familiare e di coppia, intensa e travagliata, aveva finito per deformarsi e snaturarsi a loro insaputa. Lui, uno scrittore famoso che aveva una storia con un’altra donna, e lei, una moglie tradita che soffriva le pene dell’inferno essendo a conoscenza dell’esistenza dell’amante: anche se in apparenza la coppia non sprofondava, in realtà si piegava, scricchiolava, si torceva e si trasformava giorno dopo giorno. I figli avevano subíto loro malgrado il comportamento dei genitori, povere anime trascurate e ignare di tutto. E un giorno, da un momento all’altro, le cose erano cambiate per sempre.
Nell’Innocente, Midorikawa identificava il momento del crollo definitivo nella disgraziata morte del piccolo Yōhei. Il libro si concludeva con il dramma della sua scomparsa improvvisa. Tuttavia, anche se il romanzo finiva lí, di certo la realtà non si era fermata. Le biografie dello scrittore riferivano che in seguito Chiyoko aveva cominciato a manifestare i sintomi di una grave depressione e che, nel quadro della terapia, si era messa a scrivere dei racconti per l’infanzia.
Le avventure di Chiyoko, scritte sotto lo pseudonimo di Midorikawa Midori, si aprono con la ragazzina protagonista che, senza una ragione evidente, si ritrova rinchiusa in una grotta sotterranea. Un critico letterario aveva avanzato l’ipotesi che per l’autrice la morte del figlio potesse corrispondere alla sensazione di essere segregata in una caverna buia. E una studiosa, in un altro articolo, aveva scritto che la vecchia che aveva confinato la protagonista del racconto nella grotta poteva essere la X dell’Innocente. Del resto, era molto probabile che l’autrice stessa fosse all’oscuro del significato profondo di ciò che aveva scritto. Forse, inconsciamente, aveva voluto dire che X era l’unica responsabile della distruzione della sua famiglia. L’innocente era la versione cinica e impietosa della storia della famiglia Midorikawa, in cui la morte di Yōhei segnava in via definitiva la soppressione dell’amore tra Mikio e X.
«L’ideale sarebbe domandare a Chiyoko cosa è successo e cosa ha provato in quel momento» disse Tamaki a Saitō, seduto al suo fianco, mostrandogli le pagine finali del libro che aveva in mano.
«Sí, certo, ci proveremo, ma non credo che le faccia molto piacere parlare di quell’evento».
Saitō aveva ragione. Tamaki aveva letto tutte le interviste di Chiyoko che lui e Nakagusuku le avevano procurato, e in nessuna c’era il minimo accenno alla morte del piccolo Yōhei. Nessuno osava porle domande sull’argomento, né tanto meno lei si azzardava a parlarne.
La morte di Yōhei aveva provocato dei grandi cambiamenti nel destino della famiglia. L’esordio letterario di Chiyoko era uno di questi, e un altro era senza dubbio la penitenza di Mikio, il quale aveva deciso di farsi battezzare. Dopo la tragedia, aveva giurato a se stesso di vivere solo e unicamente per Chiyoko, e pertanto tutta la famiglia si era trasferita in Hokkaidō, dove lei era nata e cresciuta. Aveva continuato a scrivere romanzi, mentre insegnava inglese in un’università femminile di Sapporo. Del resto, la pubblicazione dell’Innocente risaliva proprio al periodo di Sapporo, dove lui e la famiglia conducevano una vita quieta e tranquilla.
«Quella tragedia, di cui non erano responsabili, sembra quasi simboleggiare il contrasto all’interno della coppia» osservò Tamaki, come se parlasse a se stessa. «Per Chiyoko deve essere stato tremendo, sarà stata dilaniata dal dolore».
Saitō assentí e fece due o tre colpi di tosse. L’aria nell’aereo era molto secca.
«Credo che quello che dirà Chiyoko e quanto sarà capace di sbilanciarsi dipenderà soprattutto da lei e dal modo in cui le porrà certe domande» disse poi, come a voler rimettere l’esito dell’incontro solo nelle mani di Tamaki.
«Forse quello che ho appena detto non ha molto senso. In fondo si è trattato di un incidente. Il povero Yōhei è annegato, è stupido affermare che la sua morte potesse simboleggiare il dissidio che esisteva tra i suoi genitori».
Tamaki si era pentita di aver pronunciato quella frase, ma in effetti quella poteva essere una chiave di lettura dell’Innocente. L’autore si riteneva responsabile della morte del figlio, era evidente. Aveva avuto una lunga relazione con X, aveva ferito ed era stato ferito dalla moglie, cosí come aveva ferito ed era stato ferito da X, e alla fine ne era uscito con il cuore e con la mente a pezzi. E, come se non bastasse, il tutto si era concluso con la tragica scomparsa di Yōhei. Per lo scrittore, quella morte era un sipario che calava inesorabile sulla fine di un intero mondo.
Nel frattempo Saitō si era appisolato. Tamaki volse lo sguardo fuori dall’oblò. L’aeroplano oscillava impercettibilmente attraversando le nuvole. Poi quello strato compatto di nubi si ridusse a una nebbia sottile e l’aereo sbucò al di sopra di un’immensa distesa bianca, quasi fosse in un’altra dimensione. Tamaki notò in lontananza alcune strane formazioni nuvolose in guisa di imponenti colonne. Mentre osservava quello spettacolo surreale, si chiese che cosa ne fosse di Seiji. Non aveva piú ricevuto la fatidica telefonata da Yamaguchi. Forse sta meglio, forse si salverà, pensava tra sé e sé, aggrappandosi a una flebile e impossibile speranza.
Presto finí anche lei per chiudere gli occhi e addormentarsi. Fece uno strano sogno. Il tizio seduto davanti a lei si girava di colpo e le diceva, con aria seria: «I morti abitano il mare delle nuvole». Forse quel sogno era conseguenza di quanto accaduto poco prima, quando si era messa a osservare la distesa di nubi bianche fuori dall’oblò e aveva sentito un’esclamazione di stupore provenire dalla fila di sedili davanti?
Uscirono dall’aeroporto di Chitose. La temperatura era molto bassa, vicina allo zero. Il cielo era coperto e di tanto in tanto si vedeva volteggiare qua e là qualche fiocco di neve. Tamaki e i due editor presero posto in un taxi e comunicarono all’autista l’indirizzo di Chiyoko. Abitava in un condominio nell’area urbana di Sapporo. Nello stesso palazzo, alcuni piani piú su, viveva la figlia secondogenita Michiko con la sua famiglia. Era lei che si occupava dell’anziana madre, cosí come aveva fatto sapere a Saitō.
Michiko, che al pari dei suoi familiari appariva nelle pagine dell’Innocente con il suo vero nome, aveva subíto nella vita privata delle ripercussioni per essere diventata il personaggio di un simile romanzo? Tamaki aveva una gran voglia di chiederglielo di persona.
«Incontreremo anche Michiko, vero?»
«Sí» le rispose Saitō. «Abbiamo appuntamento con Chiyoko alle tre e sarà presente anche lei all’incontro».
Man mano che si avvicinavano a Sapporo, il traffico diventava piú intenso. Nakagusuku, seduto sul sedile davanti del taxi che ora procedeva lento, si voltò indietro verso Tamaki e disse: «A proposito, non sapevo niente di Abe, me l’hanno detto solo ieri… È terribile».
«Sí, è successo una decina di giorni fa».
Nel rispondere, Tamaki ricordò la scintilla di speranza che aveva sentito accendersi dentro di sé in aereo.
«Quando me l’hanno detto non volevo crederci, è stato un shock».
«Sí, infatti».
Tamaki aveva preferito rispondere in maniera evasiva. Nakagusuku sembrava sinceramente scosso dal fatto che un editor suo collega, famoso e all’apice della carriera, fosse stato colto da un malore improvviso.
«Non è andata a trovarlo in ospedale?» chiese Saitō a Tamaki, con un certo imbarazzo.
Lei si limitò a scuotere la testa.
«Forse non è nelle condizioni di ricevere visite, eh?» aggiunse lui.
Saitō, il quale sapeva che Seiji non aveva speranze, immaginava che Tamaki nutrisse in cuor suo il desiderio di poterlo vedere per un’ultima volta.
«Già, proprio cosí. Ma va bene lo stesso, abbiamo rotto i ponti da un pezzo».
«Sí, certo, ma se io fossi al suo posto, credo che vorrei vederlo almeno un’ultima volta».
«Se fosse successo il contrario, neanche lui sarebbe venuto da me».
Tamaki si disse ancora una volta che la loro relazione apparteneva ormai al passato. Il rapporto si era interrotto un anno e mezzo prima, e quando dopo oltre un anno si erano rivisti niente era cambiato. Seiji non le era forse apparso sotto forma di spirito per chiudere una volta e per sempre il lavoro che avevano iniziato insieme? Eppure, Tamaki non poteva evitare di sentirsi sul punto di crollare, afflitta da una malinconia inenarrabile. Che cosa potevano saperne i suoi attuali editor di quello che provava? Saitō e Nakagusuku sembravano aver perso la parola.
Il condominio dove abitava Chiyoko sorgeva nel cuore di un quartiere residenziale nella zona sud di Sapporo. Costruito all’antica, con la facciata rivestita di mattoncini, dava un’impressione di grande solidità e ricordava le costruzioni operaie di certe regioni teutoniche. Saitō si avvicinò alla tastiera del citofono e digitò il numero corrispondente all’appartamento che gli era stato indicato. Una voce femminile molto cordiale disse: «Prego, salite». Doveva essere Michiko, che aprí con solerzia il portone d’ingresso servendosi dell’apposito pulsante.
Quando arrivarono al terzo piano, la porta dell’appartamento era già aperta. In piedi sull’uscio ad attenderli c’era una donna di mezza età: Michiko, per l’appunto, la figlia piú piccola di Mikio e Chiyoko.
«Vi stavamo aspettando. Grazie per essere venuti fin qui da Tōkyō».
Le brillavano gli occhi, nero carbone come quelli di suo padre. Indossava un pullover di mohair bianco e una gonna nera. Il suo aspetto trasudava la piena maturità e la calma di una donna sulla cinquantina.
«Ho letto tutti i suoi libri, non vedevo l’ora di conoscerla» disse rivolgendosi a Tamaki.
«Grazie, molto gentile».
Tamaki fu un po’ spaventata dall’accoglienza di Michiko. Era molto preoccupata, temeva che la sua visita rischiasse di causare nuove scosse nella famiglia Midorikawa. Saitō e Nakagusuku si presentarono e Michiko li fece entrare.
Dall’ingresso partiva un lungo corridoio ricoperto da una spessa moquette. Le porte che si trovavano da una parte e dall’altra erano chiuse. Sembrava un appartamento come tanti. Nel vano d’ingresso non c’erano né piante né composizioni floreali, né tanto meno quadri appesi alle pareti. Non c’era nulla, nemmeno un paio di scarpe fuori posto, e per questo il pavimento e i muri, lucidi e impeccabili da sembrare nuovi, risaltavano in modo impressionante.
Una porta in fondo al lungo corridoio si aprí. Un’anziana signora, magra e minuta, avanzò a piccoli passi. Aveva i capelli canuti come brina di ghiaccio e un abito rosso. Era Chiyoko, la moglie di Midorikawa. Tamaki era emozionatissima, tanto da restare impietrita. Quasi non riusciva a credere di trovarsi a tu per tu con quella donna conosciuta attraverso le pagine di un romanzo. Soggiogata dall’Innocente, mentre Seiji era sospeso tra la vita e la morte, finalmente era al cospetto di Chiyoko.
«Benvenuti» li accolse la padrona di casa in fondo al corridoio, inchinandosi con molta educazione. In controluce, era impossibile distinguere chiaramente il suo viso. Tamaki, ma anche Saitō e Nakagusuku, erano rimasti senza parole, lí impalati come tre statue di cera.
«È un vero onore fare la sua conoscenza» disse alla fine Tamaki, prendendo un po’ di coraggio.
«Sono io a essere onorata, lei mi toglie le parole di bocca» replicò Chiyoko, ridendo con una voce bassa che colse Tamaki di sorpresa. «Entrate, vi prego».
L’ampio soggiorno in cui Chiyoko accolse i tre ospiti era una stanza ad angolo con grandi finestre su due lati, il che dava una sensazione di libertà e leggerezza. Fuori, si estendeva sconfinato il cielo cupo e nuvoloso dello Hokkaidō. Tamaki lasciò vagare lo sguardo intorno a sé con discrezione. La stanza era pulita e ordinata, con dei bei piatti di ceramica giapponese esposti nella credenza e nessuna traccia dei libri di Midorikawa. In un angolo, faceva bella mostra di sé una testa bronzea che assomigliava a una maschera mortuaria. Tamaki ne fu attratta e non poté fare a meno di fissarla.
«Quella è la maschera mortuaria di mio marito» le disse di colpo Chiyoko. «Di norma si fa il calco solo del viso, ma volevo ricordarmi anche la forma e le dimensioni della testa, e allora ordinai un calco completo in gesso».
Era inquietante. La testa di Midorikawa Mikio, che Tamaki non aveva mai avuto occasione di vedere dal vivo, era enorme e caratterizzata da un osso occipitale molto sviluppato, simile a una specie di arma contundente.
«Signora, le sono davvero grata per la sua disponibilità e per averci accolti in casa sua» disse Tamaki, rinnovando i suoi ringraziamenti.
«Non mi chiami “signora”, va bene anche solo “Chiyoko”» le disse la padrona di casa, volgendo verso di lei il suo viso quasi del tutto privo di rughe.
«D’accordo, allora metterò da parte l’etichetta, Chiyoko».
Alla risposta di Tamaki, Chiyoko sorrise di gusto.
«Sí, cosí è perfetto» le disse. «E io, se permette, la chiamerò semplicemente “Tamaki” e non “signora Suzuki”».
Il tono della sua voce suonava molto gioviale e solare. Tamaki si sovvenne di una frase dell’Innocente che aveva letto in aereo: «Per essere uno scrittore, ricorri a paragoni piuttosto banali».
Forse Chiyoko aveva pronunciato per davvero una frase cosí irriverente, quel giorno sulla spiaggia, poco prima della tragedia. La sua esistenza concreta e innegabile restituiva a quelle parole tutta la loro forza. Era una donna anziana, ma un’energia vitale di rara potenza vibrava in tutto il suo essere. Sembrava impossibile che avesse ottantasei anni. Le rughe sul volto non si notavano quasi, e il suo sguardo era vivo e penetrante. Tamaki si emozionò al pensiero di trovarsi di fronte a una donna dotata di una vitalità non comune. E quella donna era Chiyoko, la moglie di Midorikawa Mikio, che aveva conosciuto grazie all’Innocente. Le pareva tutto cosí incredibile, ed era felice di non essersi sbagliata riguardo alle sensazioni che aveva provato leggendo quel libro: il rapporto di amore e odio di quella coppia era molto piú forte e intenso di quello della maggior parte delle persone. Era proprio come aveva immaginato, si trattava di una storia tra un uomo e una donna eccezionali, i quali avevano poco o nulla di ordinario.
Michiko entrò nella stanza portando un vassoio con il tè. Tè verde di qualità superiore in tazze di fine ceramica Kiyomizu di Kyōto, con tanto di rari sottocoppa di corno di bufalo indiano. Tamaki e i due editor restarono allibiti nel vedere apparire alle spalle di Michiko un uomo attempato e piuttosto alto, con in mano un bel cestino decorato pieno zeppo di mandarini.
«Ce li hanno mandati giusto oggi. Sono freschi e deliziosi» disse Chiyoko. «Prendete, non fate complimenti».
Dietro le sue insistenze, i tre ospiti ne presero uno ciascuno facendo un inchino col capo. E anche Chiyoko ne afferrò uno con decisione e lo sbucciò in quattro e quattr’otto, appoggiando la buccia direttamente sul tavolo. Di primo acchito si sarebbe potuto pensare che conducesse una vita di agi, circondata dal lusso, ma in realtà sembrava una donna modesta e non si dava per niente arie da gran signora. Anche se qualcosa nella sua espressione restava indecifrabile e non era facile cogliere la sua vera personalità. Tamaki sbucciò il suo mandarino e appoggiò come lei la buccia sul tavolo. Intanto Chiyoko rimuoveva i filamenti bianchi con molta cura, con le sue dita sottili e ossute, e nella stanza si sprigionò un odore intenso di agrumi che contribuí a rendere l’atmosfera piú rilassata.
Il tizio che aveva portato i mandarini se ne stava in piedi da un lato e sorrideva. Tamaki pensava fosse il marito di Michiko, ma si sbagliava.
«Buongiorno a tutti, molto piacere» disse il tizio subito dopo, senza smettere di sorridere. «Mi chiamo Tomonō, sono l’aiutante della signora Chiyoko».
Dimostrava intorno ai sessantacinque anni. Aveva degli occhiali con la montatura metallica e la schiena leggermente ingobbita. Tamaki lo guardava senza troppa insistenza, mentre rifletteva sul legame che quell’uomo poteva avere con Chiyoko. Poi lui fece un inchino e lasciò la stanza, salutando con un educatissimo «Prego, signori, fate con comodo». Michiko, da parte sua, non disse nulla. Seduta accanto alla madre, se ne stava in silenzio con un mandarino stretto in mano. Era il momento di cominciare l’intervista, toccava a Tamaki dare il la e porre la maggior parte delle domande.
«Chiyoko, mi permetta di ringraziarla ancora una volta per il tempo che vorrà concederci. Come certamente saprà, siamo venuti qui da lei perché ci terrei a chiederle alcune cose in relazione al romanzo che sto scrivendo. Non è facile sintetizzarne il contenuto in due parole, ma posso dirle che il tema principale è la “soppressione del rapporto d’amore”. Non si preoccupi, le spiegherò tutto nel dettaglio».
Tamaki si interruppe per un attimo e Chiyoko ne approfittò per dire subito qualcosa.
«Sono io che la ringrazio, cara Tamaki, e mi dispiace molto se l’ho costretta a venire fino a Sapporo» disse con voce chiara e squillante. «Tomonō mi ha procurato gli ultimi numeri della rivista su cui lei sta scrivendo il suo romanzo, L’indecenza. Ho letto tutto quello che è stato pubblicato finora, perciò non deve spiegarmi niente, non si preoccupi. Mi faccia pure tutte le domande che vuole, sono pronta».
Tamaki si lasciò sfuggire un piccolo sospiro. Ora non le restava che prendere il coraggio a due mani e venire al punto.
«Lei è davvero una persona squisita, grazie. Forse suonerò troppo diretta e magari anche scortese, ma non me l’aspettavo. Voglio dire che lei è una donna magnifica, unica, molto piú di quanto avessi immaginato. Mi perdoni se oso iniziare con una domanda del genere, ma lei si veste spesso cosí? Le piace molto il rosso?»
«No, solo da poco, direi» rispose Chiyoko ridendo e sfiorandosi il vestito con la sua piccola mano esangue. «Visto che ho parecchi annetti e sono una nonnina, ho pensato che non era il caso di metterlo in evidenza con i soliti abiti sobri e scuri che indossano le donne di una certa età. Perciò sono andata in un bel negozio con Michiko e ho comprato questo vestito rosso fiammante».
«Le dona molto, mi creda».
«Grazie mille. Qualcuno potrebbe pensare che indossare un abito del genere alla mia età sia inopportuno, me ne rendo conto. E credo che molte persone, ora che sono solo la vecchia signora che in passato è apparsa in un romanzo come L’innocente, si tranquillizzerebbero nel vedermi appassire in silenzio e ridurmi a una vecchina innocua e grinzosa. Ma io non la penso allo stesso modo e non vivo per compiacere gli altri! I miei parenti, i conoscenti e gli amici mi hanno sempre considerata in un certo modo, hanno sempre pensato di sapere tutto di me, e perciò ho vissuto tutta la mia vita con in testa il chiodo fisso di dover nascondere il mio mondo interiore e di dovermi proteggere. Ecco perché adesso che ho piú di ottant’anni questo vestito rosso rappresenta un po’ la mia corazza, la mia armatura».
Saitō e Nakagusuku, stupefatti dalla vitalità e dall’energia prorompente di quella donnina ottantaseienne, si lasciarono scappare un’esclamazione di profonda ammirazione.
«Quindi, oggi, ha deciso di indossare quel vestito perché forse ha pensato che avremmo potuto farci un’impressione errata sul suo conto?» le chiese Tamaki, stando ben attenta a soppesare le parole.
Chiyoko la guardò dritto negli occhi e sorrise. Tamaki, sempre piú convinta di trovarsi di fronte a una donna intelligente e sensibile come poche, ebbe una specie di vertigine improvvisa.
«No, forse mi sono spiegata male. Questo vestito rosso è solo una corazza esterna, una sorta di armatura. Lo prenda solo per quello che è: una sottile armatura fatta di filo rosso che ho voluto usare per accogliere lei e i suoi collaboratori. Le assicuro che non è il caso di stupirsi, forse lei si sta facendo un’idea sbagliata su di me. Come dico sempre, solo il mio defunto marito conosceva la mia vera natura. Ovviamente si trattava della mia “vera natura” di allora, che corrispondeva a ciò che pensavo e dicevo in quel momento, e di certo non è uguale alla mia “vera natura” di adesso. E dirò di piú, sperando di essere precisa: quella non era la mia natura originaria, bensí un mio nuovo “sé”, nato dalla mia relazione con l’uomo che rispondeva al nome di Midorikawa Mikio. Non so se rendo l’idea, ma si trattava di una nuova realtà che scaturiva dalla coppia che lui e io formavamo insieme. Naturalmente, come avrà intuito, nel romanzo che Mikio ha scritto su di noi, c’è una parte di verità e una parte di finzione. Con questo non sto dicendo che L’innocente sia solo il frutto di pura invenzione, per carità. Anzi, devo dire che io e Mikio formavamo una coppia molto vicina a quella del romanzo. Ma d’altro canto, come affermavo poc’anzi, non tutto corrisponde alla verità, e ci sono parti e dettagli inventati, un po’ come in tutti i romanzi. Perché trasformare una coppia reale in una coppia fittizia? O meglio, perché utilizzarla per scrivere una finzione, un romanzo? Be’, questo lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro, visto che è una scrittrice, no? Sono molto curiosa di conoscere la sua opinione».
Ora che si era lanciata, Chiyoko non riusciva piú a fermarsi e continuava a parlare a raffica. Saitō e Nakagusuku erano incantati e ammutoliti. Quanto a Tamaki, chiamata a esprimere la propria opinione, non poteva esimersi dal rispondere, pur temendo che l’intervista potesse prendere una piega diversa da quella che lei desiderava.
«Direi perché in un romanzo la verità non è mai la verità fino in fondo» affermò convinta. «Uno scrittore che è consapevole di questo trasforma la verità in finzione nell’attimo stesso in cui la trasferisce su car-ta. Perché descrive la verità in modo molto piú intrigante e seducente rispetto alla realtà, finendo col darne una visione differente. D’altra parte, rovesciando la medaglia, un buon romanzo deve essere basato su una finzione verosimile. Ecco perché un ottimo romanzo è sempre un’ottima finzione».
«Giusto, è proprio cosí!» esultò Chiyoko, e allungò la mano per prendere un altro mandarino ridacchiando. «Questa sí che è una risposta degna di una brava scrittrice».
«Chiyoko, mi scusi, sta forse cercando di dirmi che tutte le sue risposte alle mie domande su di lei e sul romanzo di suo marito resteranno sospese tra la verità e la menzogna? O meglio, che lei stessa non potrà dirmi dove finisce l’una e dove comincia l’altra?» le chiese Tamaki con una certa apprensione.
«No, no, per carità. Nella misura del possibile, le dirò tutta la verità, o almeno ciò che ritengo tale. Con il trascorrere del tempo siamo tutti soggetti alla tendenza ad amplificare e abbellire il nostro passato. L’odio si trasforma in malinconici ricordi, cosí come la passione. E le parole del presente non sono mai sufficientemente adeguate per rendere i ricordi di un tempo, non crede?»
Chiyoko aveva pronunciato quelle ultime frasi con un’aria molto seria. Michiko tese il braccio e le appoggiò la mano sulla spalla, ma lei la respinse con delicatezza. E Michiko, forse perché ci era abituata, non sembrò prendersela piú di tanto e si rimise composta sulla sedia. Le interviste dovevano costituire una prova importante per Chiyoko, un impegno al quale teneva in modo particolare. Forse il gesto nei confronti della figlia significava che non voleva essere né disturbata né compatita.
«Capisco molto bene quello che vuole dire e in parte sono d’accordo con lei» rispose Tamaki. «Ma non è forse proprio grazie al trascorrere del tempo che è possibile riflettere con obiettività sul nostro passato?»
«Non saprei, lei crede che questo possa avere un senso?» ribatté Chiyoko, dopo essersi portata la mano alla bocca in un gesto meditabondo. «Il tempo è capace di trasformare anche i ricordi… E può darsi che io non mi accontenti solo di modificare i miei ricordi, ma che voglia in qualche modo giustificarmi. Sono fatta cosí, non so essere oggettiva, nemmeno quando si parla del passato. Perciò, quale significato potrà mai esserci in quello che le dirò?»
«Potrei provare a farle qualche domanda e vedremo, no?» insisté Tamaki.
«Va bene, d’accordo» assentí Chiyoko emettendo un risolino imbarazzato. «Mi chieda pure tutto quello che vuole».
In quel momento, Tamaki ebbe la sensazione di scorgere qualche centimetro di pelle nuda sotto l’armatura rossa di Chiyoko. Era triste all’idea che una donna cosí straordinaria dovesse vivere indossando una corazza, e in ogni caso percepiva in lei una sofferenza e una durezza che nessuna protezione avrebbe potuto mai dissimulare.
«Grazie, ho una montagna di domande da farle, comincio subito, eh? Prima ha detto che L’innocente, pur essendo una finzione, contiene allo stesso tempo una parte di verità, giusto? Ovvio che, se fosse stato scritto adesso e non molti anni fa, sarebbe completamente diverso. Tuttavia, anche se è stato scritto allora ed è in parte frutto di pura invenzione, nelle sue pagine non mancano degli sprazzi di verità, dico bene?»
«Certo, è proprio cosí. Ecco perché bisogna leggerlo tenendo questo aspetto ben presente, altrimenti si corre il rischio di fraintenderlo».
Chiyoko assunse un’espressione contenta e soddisfatta, le brillavano gli occhi.
«Sí, è ovvio. L’autore, Midorikawa Mikio, crea un personaggio femminile che chiama semplicemente “X” e racconta nel dettaglio e in prima persona la sua intensa relazione con lei. E quando la moglie, Chiyoko, scopre il tradimento, scoppia tra loro un conflitto feroce e senza fine. Dunque il romanzo si può anche interpretare come la storia del rapporto di amore e odio di una coppia di coniugi, no? E a un certo punto, man mano che il racconto si focalizza sul contrasto tra marito e moglie, l’amante, X, viene relegata in secondo piano fino a scomparire del tutto. Secondo lei, come mai?»
Tamaki ebbe l’impressione di scorgere una luce nello sguardo di Chiyoko, una luce che forse proveniva dal fondo della sua anima. L’anziana signora si protese in avanti e strinse forte i pugni. E in quell’istante, chissà come mai, il suo sguardo sembrava paradossalmente piú lontano, perduto nel vuoto.
«Fino a oggi» disse in tono molto pacato, «nessuno mi aveva mai rivolto domande su X, anche se ho sempre pensato che molti avrebbero voluto farlo. Forse non ne avevano il coraggio e ci rinunciavano, temendo che potessi prendermela. Invece lei è stata sincera ed è andata fino in fondo, perciò le dirò la verità… In realtà, X non è mai esistita».
Tamaki, allibita, si voltò suo malgrado verso Saitō e Nakagusuku. Il primo, sbalordito quanto lei, aveva la bocca spalancata. Nessuno dei due era in grado di spiccicare parola.
«Davvero?»
«Certo. X è un personaggio inventato da Mikio».
«Quindi X esiste solo nel romanzo… Mi perdoni la domanda, ma nella realtà suo marito aveva altre donne?»
«Credo proprio di sí. Mikio aveva un carisma eccezionale e riscuoteva molto successo con l’altro sesso». Mentre lo diceva, Chiyoko volse lo sguardo alla testa bronzea del marito. Poi aggiunse: «Però non aveva nessuna donna in particolare. Forse X era un insieme di tutte le donne che cercavano di intrufolarsi nel nostro mondo e volevano crearci dei problemi, il mondo esclusivo mio e di Mikio».
«Scusatemi, ma non credo di capire…» intervenne finalmente Saitō. «Si è sempre detto che L’innocente raccontava vicende reali, e invece adesso scopriamo che X, l’amante che ha abortito piú di una volta, non esiste. Di conseguenza non esistono né la Chiyoko folle di gelosia, né il Mikio che cerca di difendersi con accanimento, né tanto meno le due bambine che giocano sempre da sole e in disparte, giusto?»
«Sí, giusto» rispose con calma serafica Chiyoko. «Solo i nomi sono reali, ma i personaggi cosí come sono descritti esistono solo nel romanzo. Quella non è la realtà, è un mondo di finzione».
«Però c’era Yōhei…» disse all’improvviso Michiko. La madre ebbe un sussulto e si voltò di scatto verso di lei, che abbassò all’istante gli occhi neri ereditati dal padre e continuò a parlare con voce flebile. «Lui esisteva tale e quale anche nella realtà, ma purtroppo adesso non c’è piú. È morto tanto tempo fa, quando era solo un bambino innocente, come è scritto nel romanzo. I nostri genitori stavano chiacchierando sulla spiaggia e non lo tenevano d’occhio con la dovuta costanza. Me lo ricordo bene, anche se ero piccola, perché una volta tanto non stavano litigando. Ero cosí contenta che lo dissi anche a mia sorella… “Ehi, hai visto?” le feci. “Oggi mamma e papà vanno d’accordo”. Lei era china a raccogliere delle conchiglie ma, nel sentire le mie parole, si voltò subito dalla loro parte per guardarli. In quel momento, scrutando l’espressione sul suo viso, mi resi conto che anche lei era preoccupata per loro e per la nostra famiglia. Eravamo molto unite, stavamo sempre insieme. Non so bene sotto quale luce io sia descritta nel romanzo e quanto ci sia di vero sul mio conto, ma posso dire che nella realtà giocavo sempre e solo con mia sorella, mentre i nostri genitori non facevano altro che litigare. E il povero Yōhei, quel maledetto giorno, è morto in solitudine, mentre nessuno gli prestava attenzione… Ecco perché non posso non pensare che forse anche nella realtà esisteva una donna che rispondeva piú o meno alla X del romanzo».
«Che esistesse o meno, non è cosí importante» disse Chiyoko, dopo aver tratto un profondo sospiro. «Forse esisteva per davvero, o forse no. Vogliamo dire che esisteva? Bene, allora L’innocente andrebbe inteso come un romanzo in cui la verità è resa sotto forma di finzione. Ma poiché fin da principio ciò che era ambiguo è stato riadattato, trasformato in finzione e reso verosimile, è lecito affermare che non si tratta della pura verità!»
«Mamma, perché devi farla sempre cosí complicata? Quando quel romanzo è stato pubblicato per la prima volta, a puntate, frequentavo il liceo e ricordo che se ne parlò molto. Circolavano voci e commenti di tutti i tipi».
«Sí, ma tu che ne pensavi? Te la sarai fatta un’idea tua, no?» la ammoní in tono severo Chiyoko, che intanto si era sporta in avanti sulla sedia e guardava la figlia dritto negli occhi. Le sue iridi, il cui colore era sbiadito con l’età, lanciavano lampi di puro terrore. L’obiezione di Michiko l’aveva sorpresa fino a quel punto? Temeva forse che potesse dire qualcosa di imbarazzante? Tamaki, reprimendo il desiderio di studiare a fondo l’espressione di Chiyoko, si limitò ad abbassare lo sguardo e restò in silenzio. Si sentiva ancora in soggezione nei confronti dell’anziana e carismatica padrona di casa.
«Su, spiegaci quello che hai pensato e provato in quei momenti» disse Chiyoko alla figlia che tardava a rispondere, prendendole le mani e stringendogliele forte. Ci stava mettendo tutta l’energia possibile, al punto che le sue piccole mani pallide diventarono ancora piú bianche. Michiko stava forse scegliendo le parole giuste prima di esprimersi?
«Da quel punto di vista» disse dopo averci riflettuto su, sollevando di scatto la testa e rivolgendosi direttamente a Tamaki, «credo che io e mia sorella ci trovassimo nella posizione piú complicata».
«Se non le dispiace, potrebbe parlarcene meglio?» le chiese imbarazzata Tamaki, sotto lo sguardo fisso di Chiyoko.
Chiyoko doveva essere la protagonista assoluta dell’intervista, e di certo se l’era un po’ presa ora che l’attenzione si stava spostando sulla figlia. Tuttavia si sforzò di fare finta di niente e continuò a fissare con cipiglio Michiko. Allora Tamaki si rese conto che anche Chiyoko voleva scoprire a tutti i costi che cosa pensava la figlia.
Michiko volse verso la madre il suo viso piuttosto squadrato, che ricordava molto quello di suo padre.
«Voglio molto bene a mia madre» disse, stavolta rivolgendosi a tutti i presenti. «È una donna intelligente, forte e gentile. Come lei ce ne sono poche, è una persona eccezionale. Ma, come avete avuto modo di vedere, le capita ancora di scaldarsi e di perdere la calma. Perché, secondo voi? Be’, senza dubbio perché è la principale interessata in tutta questa storia. Il suo amore non si è ancora spento… Il suo amore per mio padre, Midorikawa Mikio. E allora voglio dirlo una volta per tutte, con la massima franchezza: mia madre non ha ancora perdonato X, né tanto meno ha perdonato mio padre».
Chiyoko ritrasse con un gesto brusco le mani e se le portò alla bocca ridendo.
«Ma che cosa ti salta in mente, Michiko?» esclamò ad alta voce. «Sono una donna di ottantasei anni!»
«L’età non c’entra niente» ribatté subito la figlia. «Non troverai mai pace, lo sai bene».
Michiko osservava la madre con uno sguardo perspicace. Chiyoko era ancora innamorata del marito?
«Ha sentito quello che ha detto mia figlia?» disse Chiyoko a Tamaki sorridendo con gli occhi, in cerca di consenso. «Le assicuro che non è affatto vero e che sono una donna tranquilla e serena».
Tamaki sorrise e volse di nuovo lo sguardo verso Michiko, come per esortarla ad aggiungere qualcosa. E quella, infastidita da un pelucco del suo maglioncino di mohair bianco che doveva esserle finito in bocca, si accostò l’indice alle labbra e lo rimosse dalla punta della lingua facendo una strana smorfia.
«Come ho già affermato numerose volte, mia madre è la protagonista assoluta di tutta questa storia» disse subito dopo. «Ecco perché è in grado di farne una specie di grande romanzo. O forse si sente addirittura obbligata a metterla in questi termini. Anzi, pensandoci meglio, credo che le faccia comodo poter passare dalla realtà alla finzione e viceversa a suo piacimento, a seconda delle circostanze. Invece io e mia sorella siamo state delle semplici spettatrici, oltre che vittime dei suoi continui e violenti litigi con nostro padre. Ci hanno trascinate nostro malgrado nella spirale di amore e odio del loro tormentato rapporto di coppia. Ma l’essere piú sfortunato, in tutta questa storia, è il piccolo Yōhei, il quale ha perso la vita senza avere nessuna colpa. È lui la vera vittima innocente. La sua tragica morte è stata una sorta di sacrificio necessario alla sopravvivenza della nostra famiglia».
Tamaki era talmente tesa che le mancava il respiro. Durante il viaggio in aereo aveva chiesto a Saitō se fosse il caso di porre delle domande sulla morte di Yōhei, ed ecco che ora il discorso era finito senza volerlo sullo sfortunato ultimogenito di casa Midorikawa.
«Ah, mi è venuta in mente un’altra cosa» continuò Michiko, ignorando il borbottio di protesta della madre, che aveva cercato invano di prendere la parola. «Poco dopo i funerali di Yōhei, mia sorella disse a nostra madre: “Mamma, per favore, fai nascere presto un altro fratellino”. Adoravamo Yōhei ed eravamo molto tristi e dispiaciute. In piú lei, in quanto sorella maggiore, doveva sentirsi in colpa per non avergli prestato sufficiente attenzione mentre eravamo in acqua. Eravamo completamente assorbite dai nostri giochi al mare e non avevamo voglia di occuparci di nostro fratello, che all’epoca camminava ancora con passo malfermo. Ecco perché, nel suo cuore di bambina, si era accesa la speranza di poter ricominciare tutto da capo. Ora, in una famiglia normale, la madre avrebbe dovuto rispondere alla sua ingenua richiesta dicendole delle parole in grado di alleviare il suo dolore. Qualcosa del tipo: “Va bene, ci proverò, te lo prometto”. Anche a costo di mentirle, no? Perché in una circostanza come quella anche una semplice bugia sarebbe bastata a tranquillizzare una bambina. E invece sapete quale fu la reazione di nostra madre? Prima di tutto assunse un’espressione accigliata, da far paura, e poi fece esplodere la sua rabbia contro nostro padre, fissandolo e urlandogli in faccia: “Non potrei mai avere un altro bambino per sostituire Yōhei! È tutta colpa tua, maledetto!”. Ricordo come fosse ieri il suo volto inviperito e la smorfia di frustrazione e avvilimento emersa sul viso di nostro padre. Ero ancora piccola, ma percepii fino in fondo l’odio e la collera che provava nei suoi confronti. Anche se non lo diceva in modo esplicito, era fin troppo evidente che lo ritenesse responsabile della morte di Yōhei. Quanto a lui, sembrava odiare con tutto il cuore nostra madre, che per l’ennesima volta si era lasciata andare a una scenata folle in nostra presenza. Io e mia sorella, pensando di essere la causa della reazione violenta e del litigio dei nostri genitori, scappammo in un angolo della stanza e ci tenemmo strette l’una all’altra, tremando e piangendo. Purtroppo era una scena ricorrente, andava a finire sempre cosí. Loro litigavano furiosamente, e noi lí che ci abbracciavamo piú forte che potevamo per vincere la paura. Come ho detto prima, io e mia sorella andavamo molto d’accordo e giocavamo sempre insieme, ma il timore che i nostri genitori potessero bisticciare a causa nostra non ci abbandonava mai. Quando discutevano non pensavano affatto a noi e a come potevamo sentirci, era come se si dimenticassero della nostra esistenza. E ora mia madre, la protagonista principale di tutta la vicenda, continua a pretendere che si tratti soltanto di una finzione e che l’unica realtà sia legata ai nomi utilizzati nel romanzo! Roba da matti!»
«La realtà di cui parli tu non esiste!» urlò Chiyoko alzandosi in piedi, come per dare inizio alla sua arringa di difesa. «All’epoca avevi solo tre anni, puoi forse negarlo? Si tratta solo di falsi ricordi, rimasti impressi nella tua mente. E forse questo è dovuto proprio a quel romanzo, L’innocente, che ti ha fatto confondere la verità con la menzogna. È assurdo! Se solo ci penso, mi vengono i brividi. Lo dico e lo ripeto, quel romanzo è tutta una finzione, è un mondo che non esiste nella realtà. La verità si trova solo nei flebili ricordi di ciascuno di noi. E quei ricordi non sono tutti uguali, ma differiscono leggermente da persona a persona. Tu e tua sorella eravate due bambine speciali alle quali avevano fatto dono di una bibbia intitolata L’innocente. E la lettura di una bibbia, come tutti sanno, può modificare i ricordi delle persone».
Michiko, che era rimasta ad ascoltare immobile e in silenzio, scoppiò in una gran risata.
«Si vede che è anche lei una scrittrice, eh? Mia madre ha una fantasia formidabile» commentò in tono gentile e senza troppa ironia, rivolgendosi in particolare a Tamaki. Poi, prima di continuare, lanciò uno sguardo anche a Saitō e Nakagusuku. «Una bibbia… Suona molto interessante, non lo nego. Ma se quel romanzo è veramente una specie di bibbia, allora lo è solo per lei e per mio padre. È uno strumento che mia madre utilizza per dare coerenza ai ricordi. Una bibbia in grado di dare nuova vita agli eventi di quel lontano passato, oltre che una prova d’amore. Loro due potevano leggerla e parlarne insieme in memoria dei tempi andati, sapendo come stavano le cose veramente e quali erano le verità e le menzogne. E allora, dopo aver fatto questa premessa, c’è una cosa che vorrei chiedere a mia madre… Mamma, io e mia sorella come dovremmo porci nei confronti della tua bibbia? Come dovremmo affrontare la realtà? Qual è il nostro posto in questa vita? Dimmelo, per favore».
«Tu hai piú di cinquant’anni, Michiko!» rispose Chiyoko, mollandole una pacca sulla spalla. «Sei abbastanza matura per trovartelo da sola il tuo posto nella vita, non credi?»
A quelle parole, il viso di Michiko si distese in un ampio sorriso.
«Lo ripeto, secondo me, l’età non c’entra niente» disse subito dopo. «Però tu sei la solita, riesci sempre ad avere l’ultima parola e a capovolgere le cose a tuo piacimento. Sei incredibile, mamma!»
Chiyoko si mise a ridere coprendosi la bocca con le mani. Madre e figlia ridevano insieme e si guardavano con complicità. E i tre ospiti, che avevano ascoltato quel lungo scambio di battute trattenendo il fiato, si lasciarono andare a loro volta a un riso goffo e forzato.
2
«Michiko, potrei sapere qual è stata la reazione delle persone con le quali aveva a che fare tutti i giorni dopo la pubblicazione dell’Innocente?» chiese Tamaki.
Michiko, che sembrava un po’ stanca, mandò giú un sorso di tè verde e trasse un piccolo sospiro.
«Me ne hanno dette e ne ho sentite di tutti i colori» rispose. «E hanno parlato male alle nostre spalle. Allora ho subito pensato che dovevano aver messo in giro delle voci false sul nostro conto. Per i miei genitori non era cosí grave, visto che facevano gli scrittori e potevano anche starsene in disparte a lavorare, senza avere contatti con gli altri. Ma per me e mia sorella era molto diverso. Quando la pubblicazione serializzata di quel romanzo è cominciata, io ero al primo anno di liceo e mia sorella al terzo e ultimo. Eravamo nel bel mezzo di un mondo immaturo e selvaggio. Le ragazze del club di letteratura e le nostre compagne di classe i cui genitori amavano leggere misero in giro una lunga serie di pettegolezzi e cattiverie gratuite sulla nostra famiglia. Per non parlare di tutti quelli che mi si avvicinavano al solo scopo di domandarmi se fossi davvero io la “Michiko” del romanzo. Ricordo che l’insegnante responsabile della classe cercava di consolarmi dicendomi che immaginava quanto fosse complicata la vita a casa e che dovevo tenere duro. E poi c’era addirittura gente che mi invidiava perché apparivo in un romanzo! Dopo la pubblicazione, come era ovvio che fosse, molti iniziarono a criticare severamente mio padre. Ma c’era anche chi si accaniva contro mia madre, sottolineando il suo comportamento folle e affermando che spesso esagerava. Alcune persone ci prendevano in giro senza ritegno, trattandoci davvero male. Ah, mi ricordo che qualcuno ci disse addirittura che nella realtà la nostra famiglia era meno peggio di quanto facesse intendere il romanzo. Insomma, le reazioni erano molte e di vario tipo. Io e mia sorella eravamo veramente disperate. Facevamo di tutto per comportarci come due ragazze normali e non darla vinta a quelli che sostenevano che eravamo dei mostri solo perché eravamo cresciute con dei genitori che non si facevano scrupolo di litigare davanti ai figli. Ma è innegabile che l’esperienza che abbiamo subíto durante l’infanzia abbia avuto delle conseguenze piú o meno gravi sulla nostra vita».
Michiko si interruppe per spiare la reazione della madre, la quale sorseggiava il tè con aria impassibile.
«A proposito» intervenne Chiyoko, approfittando della pausa e assumendo un’espressione intrigante, «ora che mi ricordo, una volta si presentò da me un ragazzo che sosteneva di essere la reincarnazione di Yōhei».
«La reincarnazione?» fece Saitō drizzando la schiena, di colpo interessato al discorso.
«Sí, era poco piú che un adolescente, venne qui a casa» rispose Chiyoko mettendosi a ridere, mentre sbucciava un altro mandarino. «Lo so che può sembrare assurdo, ma ci è capitata anche questa. Poco dopo la pubblicazione del libro, un ragazzo che aveva l’aspetto di uno studente del liceo si presentò a casa nostra dicendo di essere Midorikawa Yōhei. Aveva i capelli rasati a zero e indossava per l’appunto una divisa scolastica da liceale. Mio marito ne fu molto incuriosito e lo lasciò entrare nel suo studio, dove rimasero a parlare da soli per un po’. Io mi limitai a lanciargli un’occhiata e, siccome non assomigliava per niente al nostro Yōhei, me ne andai subito in un’altra stanza. Però l’età piú o meno corrispondeva: Yōhei era morto una quindicina di anni prima e, se fosse stato ancora tra noi, a quel tempo avrebbe frequentato il liceo. Detestavo quel genere di superstizioni e di inganni, perciò rimasi per tutto il giorno di cattivo umore».
«Mamma, tu parli di superstizioni e di inganni, ma hai dimenticato come era serio quel ragazzo? Non sembrava per niente uno scherzo, anche se era tutto molto strano, è ovvio. “Mamma, papà, sono Yōhei, avete visto come sono cresciuto nell’altro mondo?” diceva. “Dovete stare tranquilli, io sto bene. Voi, piuttosto, avete smesso di litigare? Non dimenticate che vi tengo sempre d’occhio e vi proteggo da lassú”».
Michiko aveva cantilenato quelle frasi con una voce comica, mentre la madre teneva gli occhi strizzati in una smorfia assenziente.
«Sí, hai ragione, disse proprio cosí» concordò Chiyoko. «E tuo padre lo prese anche un po’ in giro… “Ah, Yōhei, sei proprio tu? Che piacere rivederti dopo tutto questo tempo” gli disse, in un tono volutamente ambiguo. Dopo di che lo invitò a entrare e gli fece cenno di accomodarsi su una sedia».
«Ma qual era lo scopo del… falso Yōhei?» le domandò Saitō.
«Perché, secondo lei doveva avere per forza uno scopo?» ribatté Chiyoko, guardandolo con occhi miti. «Forse era solo un ragazzo buono e gentile. Doveva aver saputo che avevamo perso un figlio a causa dei nostri problemi familiari ed era venuto a darci il suo conforto, anche se in quel modo strambo e originale. In quel senso, era una specie di angelo».
Tamaki si ricordò del tizio che le aveva telefonato per dirle che sua madre era X. Gente strana di cui il romanzo di Midorikawa si impadroniva e trascinava nella sua scia. Un romanzo capace di persuadere a torto una persona di essere uno dei personaggi della storia, un romanzo che attraeva verso zone liminali dove era impossibile esistere e resistere, e che alterava in gran segreto la bussola della vita. Per non parlare della misteriosa “apparizione” di Seiji. Tamaki lanciò uno sguardo pieno di ansia alle nuvole grigie attraverso le grandi finestre che sembravano sospese sull’immensa distesa celeste. Pensò che molto presto Seiji avrebbe abbandonato quel mondo in cui lei continuava a sopravvivere. Perché le veniva di fare quei pensieri? Forse perché finalmente era riuscita a incontrare la vera Chiyoko e poteva vedere il suo viso e ascoltare la sua voce mentre parlava dell’Innocente? Forse perché il mistero di quel romanzo stava ormai per risolversi?
«Quel ragazzo è tornato altre volte?» chiese Nakagusuku.
«No, è venuto una sola volta. Però, ora che ci penso, mio marito parlò di lui dopo tanto tempo, pochi giorni prima di morire».
«E che cosa disse?» intervenne in tono interdetto Michiko.
«Che forse era davvero Yōhei…»
«Mamma, ti prego! Non ti sembra un discorso un po’ macabro? E poi hai detto tu stessa che non gli somigliava per niente, no?»
Michiko si sfregava le braccia come infreddolita, lo sguardo inquieto.
«Sí, ma tuo padre mi disse che in fondo nostro figlio era morto a un’età in cui neanche io, sua madre, ero in grado di immaginare l’uomo che sarebbe potuto diventare» continuò con voce seria Chiyoko. «Volle semplicemente farmi notare che nessuno poteva essere sicuro della verità e che non si poteva escludere che quel ragazzo non fosse Yōhei, niente di piú».
«Dài, smettila, non amo questo genere di storie. Mi danno i brividi, lo sai» protestò Michiko storcendo le labbra.
«Ma è solo una bugia!» replicò Chiyoko ridendo a crepapelle. «Tuo padre non credeva affatto nella reincarnazione, negli spiriti e in altre cose del genere».
Quella donna era tremenda, sapeva essere molto cattiva. Tamaki osservò bene il suo sguardo trionfante, che poco a poco perse quella luce di esultanza. In particolare quando alla fine andò a posarsi sulla testa bronzea di Midorikawa.
«In quell’occasione mia sorella ebbe molta paura, rimase turbata per giorni» disse Michiko.
«Sí, è vero, Takako era molto sensibile riguardo a Yōhei, poverina» confermò Chiyoko, che per la prima volta sembrava aver assunto le sembianze di una vera madre.
«Mia sorella, come sa, era la primogenita ed era convinta che la morte di nostro fratello fosse soprattutto colpa sua» puntualizzò Michiko rivolgendosi a Tamaki, avendo colto sul suo viso un’espressione interrogativa. «Credo che abbia sofferto molto piú di me per la scomparsa di Yōhei, perché come ho già detto si rimproverava di non averlo saputo tenere d’occhio a sufficienza».
«Poverina!» esclamò suo malgrado Tamaki.
«Sí, infatti. Ecco perché rimase sconvolta quando seppe che si era presentato da noi quel ragazzo che sosteneva di essere Yōhei. All’epoca faceva un po’ da segretaria a mio padre e si occupava anche di una parte delle faccende di casa. Ma quel giorno caso volle che fosse uscita per alcune commissioni. Al suo ritorno, se la memoria non mi inganna, i nostri genitori le riferirono l’accaduto e lei cominciò a fare una serie di domande a raffica. Insisteva in un modo strano, come se non riuscisse a darsi pace. “Ma era lui?”, “Era veramente Yōhei?”, “Forse era proprio il mio fratellino!” continuava a ripetere. A un certo punto nostra madre, intuendo che la situazione si stava facendo pesante, cercò di toglierle quell’idea dalla testa alzando la voce e gridandole in faccia: “Takako, falla finita, non essere ridicola! Smettila di dire idiozie!”. Ma mia sorella non si diede per vinta e non smise di pensare all’accaduto per un bel pezzo, ripetendo che avrebbe rintracciato quel ragazzo e verificato tutto di persona. Credo che questo dimostri quanto abbiamo sofferto tutti noi, mia sorella Takako in particolare, per la morte di Yōhei».
«Dove abita adesso Takako?» chiese Tamaki.
«A Tōkyō, da sola» rispose Chiyoko, precedendo la figlia e riprendendo in mano le fila del discorso. «Io e lei non andiamo molto d’accordo. Credo che non mi abbia mai perdonata».
«Perché pensa una cosa del genere?»
Chiyoko inclinò perplessa il capo da un lato e volse gli occhi a Michiko, la quale ricambiò lo sguardo e assunse un’aria impensierita.
«Mia sorella è una persona molto buona e non ama litigare» rispose Michiko al posto di sua madre.
«Non è vero, sta’ zitta!» ribatté con rabbia Chiyoko. «Tua sorella non mi ha mai perdonata perché a suo avviso sono la causa della rovina della nostra famiglia. E quindi della morte di Yōhei».
«Questo significa che non ha perdonato lei ma che ha perdonato suo marito?» chiese ancora Tamaki.
«Credo di sí. Takako gli era molto affezionata ed era sempre d’accordo con lui, in tutto e per tutto».
Chiyoko aveva un’aria rassegnata. Nel materiale racimolato da Saitō e Nakagusuku, si diceva che Takako aveva lavorato a lungo come assistente del padre e che dopo la sua scomparsa aveva trovato impiego presso un centro specializzato in letteratura moderna. Considerando l’età, non doveva essere molto lontana dalla pensione.
«Non vi vedete molto spesso?»
«No, non viene mai qui» rispose Chiyoko, sollevando le spalle alla maniera degli occidentali. «Non so di preciso il perché, ma penso non esista al mondo un figlio che detesti piú di lei i libri scritti dal proprio padre. Eppure gli voleva un gran bene, per cui sono ancora piú allibita».
Tamaki pensò che presto le sarebbe piaciuto incontrare anche Takako, ma per ovvie ragioni preferí non manifestare la sua intenzione in presenza di Chiyoko. Intanto Michiko teneva stretta la mano di sua madre per darle conforto.
«E lei, Michiko, di tanto in tanto riesce a vedere sua sorella?» non poté fare a meno di chiederle Tamaki.
«Be’, sa, non è facile, Tōkyō è lontana» rispose lei sorridendo. «Ci scambiamo qualche e-mail, piú che altro per questioni di natura amministrativa o per gli auguri in occasione delle feste comandate. Quando andrà in pensione, per esempio, pare non abbia nessuna intenzione di tornare qui, a Sapporo».
«Vede, mia cara Tamaki» si inserí Chiyoko, «è possibile che Takako non mi abbia perdonata per il fatto di essermi salvata da sola grazie alla scrittura. Sono sicura che può capirmi, perché anche lei è una scrittrice».
«Sta per caso alludendo al suo primo libro, Le avventure di Chiyoko?» le chiese Tamaki, voltandosi sorpresa dalla sua parte.
«Sí. Come forse saprà, è un libro per bambini, ma scriverlo è stato fondamentale per la mia rinascita e per tutte le possibilità che mi ha dato. Io e mio marito siamo voluti uscire da soli da quel periodo tragico della nostra vita, senza preoccuparci piú di tanto della famiglia. Takako deve essere rimasta sconvolta dal nostro egoismo, ma non ha capito che non esistevano altre vie d’uscita».
«Però alla fine anche sua figlia ha trovato un lavoro che ha a che fare con la letteratura, e in ogni caso ha perdonato il padre scrittore, no?»
Chiyoko annuí con ripetuti cenni del capo. In lei non c’era piú spazio per sentimenti come il rancore e l’amarezza. Era tranquilla, serafica, ben consapevole che ormai era impossibile tornare indietro e riparare agli errori fatti in passato. Ora, negli ultimi anni della sua vita, dava la netta impressione di volersi lasciare tutto alle spalle, forte di una personalità straordinaria e di un carisma che finivano per imporsi sugli altri.
«Mi scusi, Chiyoko, potrei farle una domanda riguardo a quello che ha detto poco fa sua figlia?» le chiese Nakagusuku, forse incoraggiato dall’atmosfera finalmente meno tesa.
Chiyoko volse lo sguardo nella sua direzione e fece di sí con la testa. In quel gesto e nei suoi occhi regnava una calma che sembrava appartenere a un altro mondo.
«Prima sua figlia ha detto che lei non ha mai perdonato X, giusto? Questo significa che una X esisteva anche nella realtà?»
Tamaki dovette trattenersi per evitare di esultare, anche lei stava aspettando il momento giusto per rivolgere a Chiyoko la stessa domanda. Solo che non ci riusciva, perché stentava a trovare lo slancio necessario per rimettere sul tavolo un argomento che era stato già respinto in precedenza. Avrebbe voluto alzarsi in piedi e ringraziare Nakagusuku seduta stante per la sua sfrontata audacia. Come era lecito attendersi, Chiyoko mostrò una certa perplessità nell’ascoltare la domanda.
«X non è mai esistita. Lo ribadisco e lo confermo. Mia figlia era solo una bambina e ha una visione distorta delle cose, non può sapere quello che appartiene alla generazione dei suoi genitori».
Chiyoko era stata molto abile a tirare in ballo la figlia per negare con forza l’esistenza di X. Ormai era inutile rivolgere altre domande a Michiko in presenza di sua madre. Era evidente che ci fosse una ragione ben precisa dietro l’evasività di Chiyoko. In quelle condizioni, a Tamaki non restava altro che sperare in un’accesa discussione tra madre e figlia, cosí che perdendo in parte il controllo potessero lasciarsi andare a nuove dichiarazioni. Ma era lecito arrivare a tanto nel nome della verità? Tamaki cominciava a sentirsi estenuata. Intimidita fin dall’inizio dalla presenza di Midorikawa Chiyoko, finí col pensare che doveva essere proprio come diceva lei e che X esisteva soltanto nelle pagine del romanzo. Quell’anziana signora aveva una volontà di ferro, era una roccia granitica colma di violenta passione. Tamaki si sentiva sopraffatta da quella formidabile ottantaseienne, che alla sua età era ancora preda di quel desiderio cieco che è all’origine delle sofferenze terrene.
Di colpo Michiko si alzò dalla sedia e uscí dalla stanza senza proferire parola, facendo ondeggiare la sua lunga gonna. Chiyoko, che non aveva per niente l’aria stanca, giocherellava con l’orlo del suo vestito rosso e si guardava le maniche e i polsini. E intanto Tamaki e i due editor, in preda all’imbarazzo, si scambiavano continue occhiate di sottecchi. Poi Tamaki guardò l’orologio e si rese conto che non restava molto tempo.
«Adesso non scrive piú?» chiese Saitō alla padrona di casa, nel tentativo di rompere la tensione.
Chiyoko, che nel frattempo aveva inforcato un paio di occhiali da presbite con una sottile montatura argentata, si mise a leggere le notizie sull’autrice sul risvolto di copertina del libro che Tamaki le aveva regalato.
«Bene, mia cara Tamaki, voglio farle una confidenza» disse alzando di colpo gli occhi da dietro le lenti, malgrado la domanda le fosse stata rivolta da Saitō. «In realtà, sto scrivendo un romanzo. Sono a buon punto».
Saitō e Nakagusuku si guardarono stupefatti e si trattennero dal ridere.
«Che genere di romanzo?» chiese seria Tamaki.
«Un romanzo d’amore…»
«Sulla sua storia con Midorikawa?»
Chiyoko si limitò a sorridere con gioia, senza aggiungere altro. Tamaki aveva una voglia pazzesca di leggere quel romanzo, avrebbe fatto di tutto per averlo. Che cosa poteva mai scrivere una donna che a ottantasei anni non aveva ancora trovato pace? Cosa c’era nella testa di una scrittrice che circa cinquant’anni prima aveva raccontato la storia di una ragazzina rinchiusa in una grotta e che finalmente era approdata nel “mondo luminoso della superficie”?
«Se non chiedo troppo, Chiyoko, mi piacerebbe molto leggerlo».
«Ma certo, mia cara, glielo farò avere non appena lo avrò terminato».
«Con quale editore lo pubblicherà?» le chiese Saitō, con una certa esitazione.
«Kawakura shobō».
«Ah, come pensavo» mormorò ancora Saitō, senza nascondere la sua delusione.
Kawakura shobō aveva pubblicato anche Le avventure di Chiyoko, segnando il battesimo letterario di Midorikawa Midori. Era ovvio che esistesse un forte legame con quella casa editrice.
«Il momento che ha segnato l’inizio della sua carriera di scrittrice di libri per l’infanzia è menzionato anche nell’Innocente» disse Tamaki. «Ma immagino che non abbia gradito piú di tanto il modo in cui l’episodio è stato descritto, vero?»
«Diciamo pure che ci sono rimasta molto male, ecco» rispose subito Chiyoko. «Scrivere certe cose, in quel modo, è un insulto alla mia persona, non trova? Ho chiesto a mio marito di modificare quella parte un’infinità di volte, ma non ha mai voluto darmi ascolto. Forse non voleva correre il rischio che potessi diventare una scrittrice piú brava e famosa di lui».
Saitō e Nakagusuku si guardavano ora col fiato sospeso, condividendo lo stesso timore di essere all’ascolto di una storia sconvolgente e terribile. Quanto a Tamaki, era impressionata piú che mai dalla disinvoltura di Chiyoko, la quale non nascondeva niente e non si faceva scrupolo di rivelare tutto quello che poteva. Tutto tranne la possibile esistenza di X, che si ostinava a negare.
Nell’Innocente, Midorikawa aveva scritto il seguente passo:
«T. è stato molto gentile e mi ha detto che la prossima volta mi presenterà un editor specializzato in letteratura per l’infanzia» proseguí Chiyoko con grande entusiasmo. «È fantastico, no? Voglio impegnarmi a fondo, è una grande occasione».
«Sí, certo» mormorai a bassa voce. Chiyoko era su di giri, quasi irriconoscibile rispetto a poche ore prima. Ed ecco che cominciavo a provare una certa pena per X, che avevo appena lasciato. In quel momento non ero a conoscenza di un dettaglio importante: dopo essere andata via dalla casa editrice, Chiyoko aveva fatto visita a un’altra donna, portando con sé un coltellaccio da cucina.
Tamaki aveva tirato fuori dalla borsa la sua copia del romanzo per rileggere il brano. Chiyoko fissò con occhi stupiti i numerosi post-it colorati attaccati alle pagine del libro.
«Mi scusi tanto, ma c’è una cosa che vorrei assolutamente chiederle a proposito di questo passo» chiese Tamaki mostrando a Chiyoko la pagina in questione. «Qui, dove c’è scritto che lei ha un colloquio con T., l’editor di Midorikawa presso Kawakura shobō, il quale le promette di farle conoscere un altro editor specializzato in letteratura per l’infanzia. E poi ancora, subito dopo, qui dove si dice che va da un’altra donna portando con sé un coltello da cucina… I fatti si sono svolti in questo modo? È successo veramente?»
Tamaki si aspettava che Chiyoko ribattesse all’istante che erano solo menzogne, che quegli episodi erano frutto della fantasia dell’autore. E invece, la mano appoggiata sul mento minuto e aggraziato, si mise a riflettere.
«In verità, non so che cosa dirle» rispose dopo averci pensato su.
In quel momento, la porta del soggiorno si aprí e fecero il loro ingresso Michiko e Tomonō, l’uno dietro l’altra e con in mano un vassoio ciascuno. Michiko serví in tavola dei graziosi piattini con dei cucchiaini d’argento: contenevano la crème caramel che Tamaki aveva portato per l’occasione. E Tomonō, subito a seguire, vi appoggiò accanto con fare delicato delle tazze di tè. Il suo contegno rivelava in ogni singolo gesto un’integrità ineccepibile.
«Tomonō, per caso ricordi che cosa è successo dopo il nostro primo incontro, tanti anni fa?» gli chiese inaspettatamente Chiyoko.
Nel rivolgergli la domanda, un sorriso divertito sulle labbra, gli indicò la pagina dell’Innocente che Tamaki le aveva appena mostrato. L’uomo diede una rapida scorsa e mugugnò imbarazzato un semplice «Ehm…». Dopo di che prese a toccarsi con fare nervoso il collo con la mano destra, entrambi dalla pelle molto rugosa. Che cosa gli era preso? Perché quella strana reazione? Tamaki era in confusione totale e non sapeva cosa dire, ma per fortuna intervenne Michiko.
«Tomonō lavorava come editor per Kawakura shobō» disse.
Tamaki non credeva alle sue orecchie. Si voltò e fissò il viso magro e smunto di Tomonō, il quale aveva preso a grattarsi il capo come un ragazzino impacciato.
«In effetti ci sono anch’io in quel romanzo, per la precisione in due passi» disse finalmente. «Sono io l’editor T. di Kawakura shobō».
«Sí, me lo ricordo» replicò Tamaki. «Il primo è quello in cui lei ha appuntamento con Midorikawa ma è costretto ad assentarsi a causa di un imprevisto. Il secondo, invece, è quello della scena in cui Midorikawa la abbandona in compagnia di Chiyoko. E poco piú avanti l’autore scrive che lei le aveva promesso di presentarla a un editor specializzato in libri per bambini. Giusto?»
«Giustissimo!» confermò con voce squillante Tomonō, come se di colpo fosse ringiovanito di vent’anni. «Sono proprio io quel T. Si era verificata una grave perdita d’acqua presso gli alloggi per i dipendenti dove abitavo e dovetti accorrere subito sul posto, venendo meno all’appuntamento con Midorikawa: è tutto vero. Cosí come è vero che nell’occasione successiva conobbi sua moglie, Chiyoko. Ma quegli “abiti miseri” sono un’invenzione dell’autore. Quel giorno, Chiyoko indossava un vestito giallo molto carino, e ricordo che suscitò una certa impressione in redazione. Tra l’altro il vestito era impreziosito da un bel colletto bordato di nero. Era elegante e moderno. Chiyoko era davvero graziosa, aveva un viso molto bello, e quell’abito le stava a meraviglia. Non potei fare a meno di pensare che suo marito l’avesse portata con sé per una forma di compiacimento, orgoglioso di mostrarla».
Tomonō non aveva parlato di menzogna, ma di un’invenzione dell’autore. Di fronte a quella rivelazione inattesa, Saitō e Nakagusuku rimasero per l’ennesima volta senza parole. Intanto Tamaki rilesse mentalmente il passo dell’Innocente in cui veniva descritto l’abbigliamento di Chiyoko: «Chiyoko, nella sua tenuta abituale costituita da maglione bordeaux, gonna marrone e calze nere rammendate, mi seguiva passo passo, in silenzio». Il vestito giallo elegante e moderno di cui parlava Tomonō evocava X nella penombra del ballatoio esterno di casa sua.
«Come ho già cercato di dirle, quel romanzo è una sorta di sintesi, una specie di mosaico di varie persone e vari momenti e situazioni» affermò poco dopo Chiyoko. «Ecco perché ho insistito che va preso come una finzione. In quel brano si fa riferimento al mio primo incontro con Tomonō. Dopo continuammo il nostro discorso bevendo un paio di bicchieri in un bar nelle vicinanze della casa editrice. Mio marito ha aggiunto la storia del “coltellaccio da cucina” solo perché era geloso».
Sopraffatta da un sentimento prossimo a pura ebbrezza, Tamaki scrutava con insistenza il volto di Tomonō. In effetti, a ben vedere, aveva la fronte alta e il cranio allungato, proprio come era descritto nell’Innocente.
«Da quando Midorikawa è morto, io e Chiyoko viviamo insieme» disse l’uomo, con una punta di evidente fierezza nella voce.
3
L’attempato signore che aveva davanti agli occhi era dunque l’editor T. di cui Midorikawa Mikio parlava nel suo romanzo! Di fronte a quella realtà che andava ben oltre la sua immaginazione, Tamaki restò a bocca aperta. Anche Saitō guardava fisso Tomonō, il volto distorto da una smorfia di uguale stupore. Quanto a Nagakusuku, per poco non esplodeva in una risata isterica. La meraviglia nel veder materializzarsi come dal nulla il personaggio di un romanzo fece precipitare Tamaki nella confusione piú totale. Aveva la sensazione che la realtà fosse stata risucchiata dalla finzione e diluita, smarrendo ogni parvenza di verità e concretezza. Chiyoko e Tomonō, ora anziani, e la piccola Michiko diventata adulta avrebbero dovuto vivere solo tra le pagine di quel romanzo. Cosí come la testa in bronzo di Midorikawa, piú grande che non nella realtà. Tamaki aveva letto L’innocente con una passione e un coinvolgimento tali da impararlo a memoria. E lei? A quale dei due mondi apparteneva? In quel frangente non era in grado di dirlo con certezza, lo sguardo smarrito nel vuoto.
«Vi chiedo scusa per avervi sorpreso» disse Tomonō sorridendo tutto contento, mentre si toccava la montatura degli occhiali con la punta delle dita. In lui dominava il grigio: dai capelli radi incollati al cranio ai pantaloni troppo larghi e al maglione. Quando lo aveva visto per la prima volta, Tamaki gli aveva dato una sessantina d’anni abbondante, ma nelle pagine del romanzo Midorikawa scriveva che aveva circa dieci anni meno di lui, per cui ora doveva averne settantacinque o settantasei. Sembrava piú giovane.
«Siete rimasti senza parole, eh?» disse con un ghigno indisponente Chiyoko guardando a turno i tre ospiti, i quali si scambiavano continue occhiate incredule. «I nostri amici e conoscenti ne erano al corrente, ma voi non potevate saperlo».
A Tamaki venne spontaneo pensare che forse Chiyoko e Tomonō ci provassero gusto a cogliere di sorpresa le persone che rendevano loro visita per avere notizie sull’Innocente. Solo Michiko, come se la faccenda non la riguardasse, continuava a gustare imperterrita il suo crème caramel.
«Il mio nome completo è Tomonō Tsuguhiko» disse l’ex editor riprendendo la parola. «Come è scritto nelle pagine dell’Innocente, all’inizio mi occupavo dei libri di Midorikawa Mikio. Poi, dopo l’incontro con sua moglie, sono passato alla redazione dei libri per ragazzi e ho curato personalmente l’editing delle Avventure di Chiyoko, scoprendo una scrittrice molto brava e di grande talento. Fino ad allora non aveva osato scrivere piú di tanto perché, come era ovvio che fosse, era in stato di soggezione nei confronti del marito e si sentiva in imbarazzo».
«A me non sembra una cosa cosí ovvia… Perché provare soggezione e imbarazzo?» chiese Tamaki, rivolgendosi direttamente a Chiyoko. Si rendeva conto di suonare aggressiva e persino scortese, ma non aveva potuto impedirsi di intervenire. Nell’Innocente, c’era una riflessione abbastanza spiritosa in cui Midorikawa si domandava come si sarebbe comportato e cosa ne sarebbe stato di lui se avesse scoperto che la moglie possedeva del vero talento come scrittrice. Tamaki, nel leggere quel passo, aveva pensato che si trattasse piú che altro di una canzonatura un po’ beffarda e maligna da parte di uno scrittore professionista che riteneva la moglie una semplice dilettante, anche perché l’autore sottolineava il proprio pensiero con un’ironia sottilmente offensiva.
«Non è facile rispondere a una domanda del genere…» disse confusa Chiyoko, volgendo lo sguardo a Tomonō come fosse in cerca di aiuto.
«Secondo me, sarebbe il caso di parlarne, altrimenti la situazione non si chiarirà mai» le suggerí con voce sincera Tomonō, il quale poi si rivolse a Tamaki e disse: «A patto che lei, signora Suzuki, ci prometta di non scrivere nulla in proposito nel suo romanzo».
«Ma certo, ci mancherebbe».
«Grazie, e mi scusi tanto per averglielo chiesto».
Tomonō, dopo aver chinato il capo verso Tamaki, incrociò lo sguardo di Chiyoko e la fissò con molta dolcezza, come a volerla rassicurare. Allora Tamaki sentí accendersi dentro di sé un nuovo interesse. E di certo provarono la medesima sensazione anche Saitō e Nakagusuku, i quali di colpo si sporsero in avanti con occhi vivi e attenti.
«Mia cara Tamaki» disse Chiyoko, «di solito la moglie di uno scrittore resta nascosta nelle retrovie, no? Lei ha una famiglia? Ha un marito e dei figli?»
«Sí, sono sposata e ho un figlio» rispose Tamaki, facendosi un po’ indietro col busto perché aveva percepito nelle parole di Chiyoko un’insolita veemenza, un sentimento negativo prossimo a puro odio e rancore.
«Bene, e come si comporterebbe se suo marito o suo figlio le dicessero che vogliono fare gli scrittori?»
«Credo che leggerei prima di chiunque altro i loro lavori, in modo da farmi un’idea».
«Perfetto!» esclamò in tono trionfante Chiyoko. «E dopo, che cosa farebbe?»
«Se mi accorgessi che sono davvero bravi e che hanno talento, consiglierei loro di partecipare a un premio letterario o qualcosa del genere. E penso che darei un’occhiata ai loro scritti prima di farli inviare a chi di dovere».
«Non chiederebbe anche a uno dei suoi editor di leggerli?» insisté Chiyoko.
«Credo di no, avrei paura di dare fastidio e di mettere in difficoltà la persona in questione» rispose perplessa Tamaki, inclinando il capo da un lato. «Non sarebbe corretto, né nei riguardi dell’editor né tanto meno dell’aspirante scrittore. Insomma, non sarebbe giusto ricorrere a una corsia privilegiata, le cose bisogna guadagnarsele, no?»
«Certo, ma immagino che questo varrebbe soprattutto per suo figlio, o sbaglio?» commentò con una certa malizia Chiyoko. «Ma se l’aspirante scrittore fosse suo marito? Cosa proverebbe se all’improvviso scoprisse che suo marito ha talento?»
«Mmh, devo ammettere che forse ne sarei un po’ turbata» rispose in tutta franchezza Tamaki. Se il figlio avesse manifestato il desiderio di seguire le sue orme, sarebbe stata con ogni probabilità contenta e orgogliosa, pensando che in fondo fosse anche una questione di geni materni. Ma se a palesare velleità letterarie fosse stato il marito, sarebbe stato ben diverso e non poteva escludere che sarebbe subentrato un sentimento di rivalità. Ora, nel caso dei Midorikawa, a complicare la situazione c’era il fatto che l’aspirante scrittrice era lei, la moglie, che secondo la visione tradizionale delle cose avrebbe dovuto occuparsi solo della casa e dei figli. Oltre al timore della concorrenza professionale, forse Mikio aveva percepito una minaccia che rischiava di mettere a repentaglio la sua supremazia di fiero e indiscusso capofamiglia.
«Quindi suo marito» aggiunse Tamaki, dopo averci riflettuto un po’ su, «si sentiva minacciato e… come dire?, destabilizzato dal suo talento letterario?»
Chiyoko si limitò a guardare in direzione di Tomonō, senza dire nulla, come se volesse esortarlo a prendere di nuovo la parola.
«Mi scusi, risponderò io alla domanda, le spiegherò tutto per filo e per segno» intervenne lui, reagendo con sollecitudine alla muta richiesta di Chiyoko. Si esprimeva con molta vivacità e in tono gioviale, come era abituato a fare quando lavorava in casa editrice. «In effetti, Midorikawa lesse quel romanzo prima di chiunque altro. Il romanzo che Chiyoko scrisse nel poco tempo libero che aveva a disposizione, nelle pause tra le incombenze domestiche e l’educazione dei figli».
«E lui ne fu scioccato, non è vero?» affermò in tutta sicurezza Tamaki, pur trovando il proprio tono fin troppo enfatico.
«Sí, esatto» replicò Tomonō, esibendo un sorriso che mise in mostra la dentatura ingiallita dalla nicotina.
«E non era un libro per ragazzi, ma un vero e proprio romanzo, giusto?» chiese conferma Saitō, incapace di tenere a freno la curiosità.
«Sí, era un vero romanzo» intervenne Chiyoko voltandosi verso di lui, accompagnando la risposta con ripetuti cenni del capo. «Io amo i romanzi, li adoro».
«Midorikawa riconosceva il talento letterario di Chiyoko» disse Tomonō, riprendendo il suo discorso esplicativo come fosse una voce fuori campo. «Una volta me ne parlò, anche se solo brevemente. Mi disse che sua moglie aveva scritto un romanzo e che non era affatto male, tanto che ne era rimasto sorpreso. Allora gli chiesi di mostrarmelo, e sapete lui che cosa mi rispose? È incredibile, se solo ci penso mi viene la pelle d’oca, anche se sono passati molti anni…»
«“In una casa non c’è bisogno di due scrittori!”» intervenne a mezza voce Chiyoko, notando che Tomonō esitava a completare il discorso. «Sí, disse proprio cosí, sue testuali parole… Ma come ha osato? Ero tutt’altro che contenta, perbacco!»
Il tono palesemente ironico di Chiyoko spinse tutti i presenti al riso e contribuí ad allentare la tensione.
«Certo, adesso possiamo anche scherzarci su, ma Chiyoko è stata senza dubbio una vittima» riprese a parlare in tono serio Tomonō. «Quella stessa frase avrebbe potuto pronunciarla con pieno diritto anche lei: “In una casa non c’è bisogno di due scrittori!”. Si sa, spesso noi uomini siamo prepotenti e prevaricatori. O quanto meno, volendo essere un po’ piú clementi, diciamo che a volte manchiamo di generosità. Soprattutto se la persona in questione è un uomo giapponese di un certo stampo come Midorikawa Mikio».
Tomonō, le gambe accavallate, si era lanciato in una specie di breve monologo.
«Mamma, forse è da lí che nasce tutto il tuo rancore» intervenne allora Michiko, mentre appoggiava il cucchiaino d’argento sul bordo del piattino e si asciugava le labbra con un fazzoletto di carta che aveva appena estratto dall’apposito contenitore.
«Tutto il mio rancore… Sí, è normale che dentro di me ce ne sia ancora tanto» disse con voce ferma Chiyoko, sfregandosi le mani fino a farle diventare rosse. «Dopotutto amavo la letteratura fin da bambina e mi piaceva da matti scrivere. Componevo poesie in verso libero e tanka, e mi inventavo anche un sacco di storie. Ecco perché sono andata subito d’accordo con Mikio e mi sono innamorata di lui, eravamo entrambi presi dalla magia della letteratura. Lui era una giovane promessa, eravamo una bellissima coppia. Nell’Innocente dà di proposito l’impressione di accorgersi per la prima volta che anch’io scrivevo, ma nella realtà non era cosí, lo sapeva benissimo. Però tutti hanno dato credito alla sua versione, non potendo sapere che si trattava di una mera invenzione letteraria, e alla lunga la situazione ha finito per esasperarmi. Ho accumulato odio e rancore senza neanche accorgermene».
Tamaki ricordò che in una scena dell’Innocente Midorikawa si prendeva gioco di Chiyoko in merito a un suo vecchio pseudonimo letterario, dicendole: «Ah, come Kaga no Chiyo, la celebre poetessa del diciottesimo secolo, giusto?». E in quel preciso momento osservò il suo profilo con la coda dell’occhio, pensando che un simile paragone doveva aver ferito profondamente una donna come lei. Dopo di che le affiorò alla mente l’ennesimo passo dell’Innocente.
«Comunque» continuò lei con grande spigliatezza, «sono stata molto contenta di scambiare quattro chiacchiere con T.»
Povero T., chissà che imbarazzo – pensai subito, ricordandomi la sua fronte alta e il cranio allungato. Era poco piú che un ragazzo, aveva una decina di anni meno di me.
«Di che cosa avete parlato?»
«Anch’io scrivo delle poesie e delle favole, e perciò gli ho chiesto se poteva darci un’occhiata».
La guardai basito. Era tutta fiera e gongolante. Non me ne aveva mai parlato, non sapevo che scrivesse.
«Vivevamo tutti e due per i libri e per la scrittura» proseguí Chiyoko, «eppure lui voleva essere l’unico protagonista e non mi lasciava frequentare gli ambienti letterari. Si uní da solo a un gruppo di giovani scrittori sorto intorno a quella rivista amatoriale, Shusui, e dopo le riunioni se ne andava a bere con le aspiranti scrittrici che frequentavano la combriccola. Tornava sempre a casa ubriaco fradicio e farneticante, biascicando a piú non posso i commenti che con ogni probabilità si riferivano ai tentativi letterari di quelle donne: “Nei racconti di quella ragazza, le descrizioni non sono affatto male, tuttavia la trama e la struttura risultano troppo schematiche e convenzionali, mancano di ispirazione”, “Quella tizia è bravina, ma utilizza delle metafore davvero mediocri, non ha la stoffa della scrittrice professionista”… Andava avanti cosí molto a lungo, su di giri dopo le riunioni e le bevute, e continuava a farfugliare una frase dopo l’altra come impazzito, mentre io mi rodevo di rabbia e di invidia. Stavo chiusa in casa dalla mattina alla sera a occuparmi delle faccende domestiche e dei figli. Mi svegliavo all’alba, accendevo la stufa per riscaldare la casa, mettevo l’acqua a bollire e facevo cuocere il riso sul fuoco a legna, preparavo la zuppa di miso, ravvivavo il braciere a carbone per grigliare il pesce essiccato, svegliavo i bambini, li lavavo, li vestivo e davo loro la colazione, facevo i piatti e le pulizie nelle camere, lavavo i pannolini strofinandoli forte contro l’asse di legno per il bucato e li appendevo ad asciugare, infine spazzavo davanti alla porta di casa. Poi andavo con i bambini a fare la spesa, compravo il latte, il pane, gli udon, la verdura e tornavo di filato a casa per preparare il pranzo, dopo di che bisognava subito pensare ai preparativi per la cena. Era un continuo, non si finiva mai, ogni giorno uguale agli altri. E lui, senza mai alzare un dito per aiutarmi, non faceva altro che moltiplicare le sedute di lavoro con le sue fedeli ammiratrici. Quando andava alle riunioni della rivista, anche se non navigavamo nell’oro, si portava dietro un bel po’ di denaro che spendeva fino all’ultimo spicciolo. Faceva il gradasso con le ragazze offrendo cene a destra e a manca, mentre noi dovevamo arrangiarci alla meno peggio accontentandoci solo di pasti frugali. Da puro egoista, si era impadronito della stanza di sei tatami accanto all’ingresso e diceva che era il suo studio. Non permetteva a nessuno di avvicinarsi e faceva tutto quello che voleva, lasciando il futon perennemente steso sul pavimento. Quando le bambine tentavano di entrare, andava su tutte le furie e si metteva a sbraitare come un ossesso, gridando che doveva lavorare e che non voleva essere disturbato. E se solo provavo a chiedergli di darmi una mano, mentre se ne stava disteso lí dentro a poltrire, me ne diceva di tutti i colori e si lamentava perché avevo interrotto le sue riflessioni sul nuovo romanzo. Ero distrutta e depressa, non ne potevo piú. Ed ecco che, al colmo della disperazione, pensai di reagire e rendergli la pariglia scrivendo un romanzo. Ero sicura di non essere da meno rispetto a quelle pseudoscrittrici da quattro soldi che bazzicavano intorno alla rivista». Chiyoko fece una breve pausa per riprendere fiato e aggiunse, sorridendo: «Dopotutto sono sempre stata un osso duro, sono una testarda nata!».
Tamaki immaginò che tra “quelle pseudoscrittrici da quattro soldi” ci fosse anche X e concluse che la violenta gelosia di Chiyoko non fosse solo l’espressione del sentimento di una donna tradita dal marito, ma anche una manifestazione di orgoglio e amor proprio legata alla volontà di autoaffermazione..
«Come ho già avuto modo di dire» proseguí l’anziana padrona di casa dopo aver recuperato una certa calma, «nel romanzo di mio marito la realtà e la finzione si mescolano di continuo. Quel giorno mi sono incaparbita a seguirlo da Kawakura shobō non perché volessi mettere fine alla sua infedeltà, ma perché desideravo assicurarmi un editore per il mio romanzo, visto che lui era restio a presentarmene uno».
«Questo sí che significa avere forza di volontà e spirito di iniziativa!» proruppe con piena ammirazione Nakagusuku.
«Ero stanca di aspettare, era venuto il momento di agire!» replicò furente Chiyoko. «Gli avevo chiesto decine di volte di farmi conoscere un editore, ma lui continuava a tergiversare e a prendermi in giro. Perciò quel giorno, quando mi disse che aveva un appuntamento da Kawakura shobō, mi preparai in fretta e furia e andai con lui».
«Indossando un bel vestito giallo!» aggiunse a tutta voce Tamaki, facendo sorridere di gusto Chiyoko.
«Sí, esatto. Anche se avevo a disposizione solo un paio di minuti, feci del mio meglio per essere presentabile ed elegante. Era una chance che non potevo perdere, ormai sapevo che il mio futuro era nelle mie mani».
Eppure Tamaki non poteva fare a meno di pensare che mostrare il manoscritto a un editor non fosse l’unico scopo di Chiyoko. All’epoca doveva essere molto invidiosa di X, la quale era un membro ufficiale di Shusui e poteva scrivere in tutta libertà, partecipare a pieno diritto alle riunioni in compagnia di Midorikawa e andare a bere con lui la sera. Facendo la conoscenza di un editor, sottoponendo alla sua attenzione il romanzo e sperando di pubblicarlo, Chiyoko non nutriva forse il desiderio segreto di superare la sua rivale? Doveva essere per questo che aveva accettato seduta stante l’invito al bar da parte di Tomonō. E nella gelosia di Midorikawa nei suoi confronti doveva esserci anche una certa invidia professionale.
«Certo che arrivare a dire che in una casa non c’è bisogno di due scrittori mi pare eccessivo» fece osservare Saitō.
«Però, d’altra parte, non si può negare che se ci fossimo dedicati entrambi alla scrittura a tempo pieno avremmo avuto qualche problema» ribatté serafica Chiyoko. «Chi si sarebbe occupato della casa, di preparare da mangiare e dei bambini?»
Poi sorrise con dolcezza, assottigliando gli occhi, ma nessuno dei presenti ebbe la forza di imitarla. Perché la collera e la sofferenza di una donna trascurata avevano causato una frattura profonda e insanabile, che a lungo andare aveva provocato la tragica morte del piccolo Yōhei.
Se, come si diceva in giro, la misteriosa X dell’Innocente era una delle giovani scrittrici che gravitavano nell’orbita di Shusui, allora una delle principali indiziate era Miura Yumi, la quale, qualche anno dopo la rottura con Midorikawa, aveva ottenuto un importante premio letterario per scrittori esordienti. Nello stesso periodo, Chiyoko stava attraversando il momento piú difficile della sua vita, prostrata e annichilita dalla scomparsa di Yōhei. Se non fosse stata una donna forte come poche, non sarebbe mai stata in grado di riprendersi da uno shock cosí tremendo.
Tamaki gettò un’occhiata ai suoi appunti e sospirò. Come bisognava procedere? Conveniva porre altre domande su X? Si sentiva perduta. Nella stanza era sopraggiunta la penombra e non riusciva quasi piú a leggere le parole che aveva appuntato in fretta nel suo bloc-notes. Sollevò lo sguardo verso la finestra e si rese conto che era calata la sera. Il cielo, cupo e nuvoloso, aveva assunto il colore uniforme della notte. La stanza ad angolo, che sembrava puntare alla volta celeste come la prua di una nave, appariva ora sinistra, quasi stesse solcando un mare notturno e sconosciuto.
In quel momento, come se da qualche parte fosse in corso un bombardamento, il cielo rosseggiò in lontananza. Tamaki si strinse nelle spalle e restò impietrita.
«Sono lampi?» disse Chiyoko volgendo lo sguardo fuori dalla finestra. «È raro, all’inizio dell’inverno».
Saitō e Nakagusuku, accortisi che fuori regnava l’oscurità, stavano confabulando qualcosa a bassa voce. Si era fatto tardi, avevano superato di quasi un’ora l’orario previsto per il rientro.
«È diventato buio all’improvviso» disse Tomonō, alzandosi in piedi e facendo il giro della stanza per accendere le luci.
«Ci scusiamo per esserci trattenuti tanto a lungo» disse Tamaki dopo aver dato un’occhiata all’orologio. «Non vorremmo avervi arrecato troppo disturbo».
«Ma no, che cosa dice? Per me è stato un vero piacere» rispose Chiyoko. «Su, voglio completare almeno il discorso sul mio lavoro». Non mostrava alcun segno di stanchezza, era piena di vitalità come all’inizio. Tamaki la ringraziò con un profondo inchino, mostrando un’espressione di chiaro sollievo.
«Mia madre è una roccia, mi chiedo da dove la prenda tutta questa energia» si inserí Michiko, che intanto era andata a preparare dell’altro tè e si accingeva a riempire le tazze degli ospiti con un sorriso gentile sulle labbra.
«Eh sí, andò proprio cosí» riprese a raccontare Chiyoko. «Nonostante mio marito tentasse di ostacolarmi, riuscii a fare la conoscenza di Tomonō, che lesse molto volentieri il mio manoscritto e lo fece pubblicare qualche anno piú tardi».
Finalmente l’atmosfera nella stanza si fece piú distesa e rilassata, anche perché Chiyoko aveva preso a parlare in tono pacato, come se stesse recitando.
«Mio padre aveva il suo bel carattere, questo nessuno lo mette in dubbio» puntualizzò Michiko, mentre continuava a versare il tè nelle tazze, «ma non era di certo d’ostacolo».
«Stavo solo scherzando!» ribatté Chiyoko. «Però mi domando se dentro di sé non reputasse la mia decisione di dedicarmi alla scrittura qualcosa di negativo. Altrimenti perché avrebbe dovuto chiedermi di fare quella promessa? Il romanzo era il suo campo, non avrebbe mai sopportato che i nostri libri facessero parte della stessa categoria e fossero messi addirittura a confronto, perciò mi fece promettere di dedicarmi solo ed esclusivamente alla narrativa per l’infanzia e alla poesia».
«Davvero?» chiese senza volerlo Tamaki, colta di sorpresa da quella rivelazione inaspettata.
«Sí!» rispose Tomonō al posto di Chiyoko. «Ho sempre pensato che Le avventure di Chiyoko siano un romanzo a tutto tondo, un piccolo capolavoro adatto agli adulti piú che ai bambini. Eppure finí per essere collocato nel genere della letteratura per l’infanzia. Per esempio, credo che la grotta di cui Chiyoko parla nel libro esprima la sua sofferenza per la mancanza di libertà, anche nell’ambito dello stesso processo creativo. Mentre il “mondo luminoso della superficie” è oltretutto la metafora della libertà creativa».
«E che cosa ci dice a proposito della vecchia che rinchiude la piccola Chiyoko nella grotta?» chiese Tamaki.
«Mah, forse si tratta dello stesso Midorikawa» intervenne Chiyoko lasciandosi andare a una risata composta e garbata, mentre dirigeva ancora una volta lo sguardo alla testa in bronzo del marito.
«Quando la protagonista esce dalla grotta buia e raggiunge il “mondo luminoso”, va alla ricerca di un paio di occhiali da sole, no?» disse Michiko, quasi volesse approfittare del momento per esprimere i suoi dubbi. «Ma non ne trova di adatti e alla fine diventa cieca. Che cosa significa questo?»
«Gli occhiali da sole rappresentano forse il lavoro» rispose di nuovo Tomonō. «Come se Chiyoko avesse voluto esprimere il suo rammarico per non aver trovato fino ad allora un lavoro all’altezza del suo talento».
Chiyoko si limitò a sfoggiare un ampio sorriso, senza dire nulla.
«Mi scusi, mi permetta di porle una domanda, anche se siamo in presenza di sua madre» disse Tamaki rivolgendosi a Michiko. «Prima, se non ho capito male, lei ha affermato che l’amore di Chiyoko per Midorikawa non si è mai spento. Le dispiacerebbe essere piú chiara?»
Michiko, che intanto si era voltata di lato per mettersi del burro di cacao sulle labbra, ripose in tutta fretta il tubetto in una tasca e fece una smorfia impacciata.
«Be’, è quello a cui accennavo prima, no?» disse un attimo dopo, balbettando e fissando Chiyoko con malizia. «Mia madre non ha mai voluto perdonare mio padre, perché è tuttora innamorata di lui».
«Ma che cosa ti salta in mente? Non è vero, certo che l’ho perdonato!»
Chiyoko rise a bocca spalancata, mettendo in mostra una dentatura inaspettatamente perfetta.
«No, non lo hai perdonato!» insisté Michiko. «Avete visto tutti come ha reagito poco fa, no? È evidente che ha ancora molto rancore nei suoi confronti, e forse nutre tuttora un odio profondo per quella donna, X. Mia madre è una persona che non dimentica, non è disposta a cancellare con facilità le ferite che le sono state inflitte. Mio padre aveva molta paura delle sue reazioni, e credo che abbia iniziato a temerla in modo particolare dopo che l’aveva tradita e umiliata. Lei non è disposta a perdonarlo perché desidera mantenere a tutti i costi un legame con lui. Per questo insisto nel dire che a mio avviso è ancora innamorata follemente di mio padre».
Mentre ascoltava le parole di Michiko, Tamaki ricordò il suo rapporto con Seiji. Loro due non si erano mai perdonati: questo significava che non sarebbero mai riusciti a “sopprimere” il loro amore?
Di colpo le squillò il cellulare. Lo spegneva sempre prima di un incontro di lavoro o di un’intervista, ma il pensiero di incontrare Chiyoko l’aveva resa cosí nervosa che stavolta se n’era dimenticata. Si scusò e rifiutò la chiamata. Ma dando un’occhiata rapida riuscí a vedere il nome che compariva sul display: Yamaguchi. Allora, con il cuore in gola, non poté evitare di pensare che Seiji se ne fosse andato via per sempre. Perché Yamaguchi le aveva promesso che si sarebbe fatto vivo solo per annunciarle la sua morte.
Tamaki osservò il cielo notturno al di là delle grandi finestre. Il lampo che aveva scorto qualche minuto prima non era forse un segno? Ora, sul vetro dove si riflettevano le luci della stanza, si delineava nitido anche il suo viso, i cerchi intorno agli occhi evidenti come non mai.
Alla fine Seiji era partito per il suo viaggio nell’altro mondo. “Piangerò al momento della sua morte?”: quante volte Tamaki si era posta questa domanda nelle ultime settimane? Eppure, adesso, non le spuntava neanche una lacrima. Sentiva solo un grande vuoto, era terrificante. Ecco che cos’era la morte: un vuoto immenso, infinito. Come il cielo buio che si estendeva a perdita d’occhio fuori da quella stanza. In che modo avrebbe vissuto la nuova realtà in cui Seiji non c’era piú? Aveva cercato di prepararsi, era convinta di essere pronta ad affrontare la sua assenza, ma non aveva capito niente.
«Tutto bene?» le chiese d’un tratto Chiyoko, avendo percepito che qualcosa non andava.
«Sí, non è niente» rispose Tamaki scuotendo la testa, prima di riprendere la conversazione. «Allora, che cosa ne pensa dell’opinione di sua figlia? Mi deve scusare se oso addentrarmi nella sua vita privata, ma mi pare di aver capito che lei e il signor Tomonō vi vogliate molto bene, o sbaglio?»
Tamaki voleva averne conferma dalla viva voce di Chiyoko. Ora che aveva capito che Seiji era morto, desiderava che quella donna la rassicurasse. Perché era sempre piú convinta che le somigliasse e vivesse alla sua stessa maniera, provando dei sentimenti molto simili.
«Amavo mio marito piú di me stessa. Pensavo sempre e soltanto a lui ed ero convinta che mi amasse piú di ogni altra cosa al mondo. Ecco perché non sono ancora riuscita a perdonarlo per avermi tradita, cosí come non riesco a perdonare me stessa per non averlo perdonato. E inoltre non posso perdonare a entrambi di aver lasciato morire il nostro Yōhei. Tomonō è certamente una persona molto preziosa e importante per me, ma non lo amo come amavo Midorikawa».
Tomonō, che intanto aveva chiuso gli occhi per ascoltare meglio le parole di Chiyoko, sorrise amareggiato.
«Quindi, qualunque cosa io faccia» disse lui, «otterrò sempre il tuo perdono?»
«Assolutamente sí» gli rispose con voce ferma Chiyoko.
«E io, mamma?» le chiese Michiko. «Potrai perdonarmi anche se dovessi fare qualcosa di molto brutto?»
«Certo, perché tu sei mia figlia».
Tomonō e Michiko si guardarono negli occhi e scoppiarono in una risata.
«Ora comincia a capire anche lei il modo di ragionare piú unico che raro di Chiyoko, non è vero?» disse il primo, rivolgendosi a Tamaki. Quest’ultima assentí con un lieve cenno del capo, ma la sua mente era altrove, ora che il grande vuoto della morte di Seiji le aveva invaso il cuore.
«Per favore, potrei usare il suo bagno?» gli chiese, facendo per alzarsi.
«Ma certo… Mi deve scusare, avrei dovuto mostrarle dove sono i servizi quando è arrivata» rispose Tomonō, alzandosi di scatto e facendole strada.
La stanza da bagno si trovava accanto al vano d’ingresso. Dopo aver seguito con lo sguardo Tomonō che ritornava in soggiorno, Tamaki prese il cellulare e ascoltò il messaggio lasciato nella segreteria telefonica. Yamaguchi, la voce rotta dal pianto, diceva: «Buonasera… sono Yamaguchi. Abe se n’è andato per sempre, poco fa, esattamente alle sedici e trentasette… Ora sto andando a casa sua. È uno shock tremendo anche per me, non riesco a crederci».
Doveva essere successo piú o meno quando quel lampo aveva rischiarato il cielo in lontananza. Tamaki ne era convinta perché qualche attimo dopo aveva gettato un’occhiata all’orologio, visto che l’incontro con Chiyoko si stava protraendo oltre il previsto. Dove se n’era andato Seiji, tutto solo? Si guardava intorno, come paralizzata, in piedi nel piccolo vano d’ingresso. Le mancava il calore di casa sua e si sentiva dilaniata dall’angoscia di trovarsi lontano, in Hokkaidō, in un ambiente sconosciuto.
A quell’ora, Yamaguchi doveva essere arrivato a casa di Seiji insieme ai colleghi e con ogni probabilità se ne stava a capo chino di fronte alla sua salma, il volto inondato dalle lacrime. La casa di Seiji in cui Tamaki non aveva mai messo piede. Il corpo di Seiji adagiato sul letto di morte, circondato dai familiari che lei non aveva mai conosciuto. La moglie sprofondata in un baratro di dolore e cupa disperazione. Tamaki pensò per qualche istante al loro legame e chiuse gli occhi. Era esclusa dalla cerchia delle persone intime che avevano il diritto di stare intorno a Seiji. Nessuno l’avrebbe contattata per darle notizie sulla veglia e il rito funebre. E anche se per caso avesse saputo qualcosa, non avrebbe potuto presenziare. Erano stati insieme per tantissimo tempo, cosí uniti, eppure non avrebbe avuto la possibilità di toccarlo per un’ultima volta, ora che Seiji aveva lasciato per sempre questo mondo. Le loro conversazioni, i loro sguardi, il lavoro, le liti, il tempo condiviso, le emozioni, l’amore: tutto si sarebbe dissolto come fumo nell’aria? O forse sarebbe rimasto da qualche parte, in una dimensione parallela raggiungibile con una macchina del tempo? Di colpo, mentre era immersa nei suoi pensieri, Tamaki si accorse che stava per perdere la calma. Perché, malgrado tutto, non era in grado di concedere a Seiji il suo perdono. Era ancora immobile nella penombra e si sentiva strana.
«Che cosa è successo, non si sente bene?»
Tamaki sollevò la testa e vide Chiyoko, lí davanti a lei. Le arrivava piú o meno al mento, data la sua bassa statura.
«Mi deve scusare, ma ho appena saputo che è mancata una persona che conoscevo molto bene».
«Ah, mi dispiace!» esclamò Chiyoko, portandosi la mano davanti alla bocca. Poi, a sopracciglia aggrottate, si issò sulla punta dei piedi e le mormorò all’orecchio: «Non è che per caso è successo quando c’è stato quel lampo, poco fa?».
«Temo proprio di sí, l’ora corrisponde…»
«Forse quella persona ha voluto annunciarglielo lanciandole un segnale».
«Non credo» ribatté Tamaki, abbozzando un sorriso stentato. «In fondo ci odiavamo, non penso che avrebbe mai fatto una cosa del genere per me».
«Allora forse le ha mandato un messaggio diverso, quasi volesse dirle di ricordare tutto quello che c’è stato di bello tra voi».
Tamaki sorrise e Chiyoko la prese per il braccio, con la sua mano che faceva pensare a un ramoscello avvizzito.
«Venga con me» le disse, «voglio mostrarle una cosa».
Tenendola per mano, aprí la porta di fronte a quella della stanza da bagno. Dava in un ambiente in stile occidentale ampio suppergiú otto tatami, con una grande scrivania e un piccolo letto coperto da un drappo di chintz. Doveva essere il suo studio, le pareti erano tappezzate di fotografie in cornice. In una di queste, Midorikawa, in piedi accanto a Chiyoko vestita con un bel kimono, aveva in testa un borsalino e guardava dritto nell’obiettivo con i suoi grandi occhi tenebrosi.
«Era un bell’uomo, non le pare?» disse con voce fiera Chiyoko.
«Sí» concordò Tamaki, assentendo soddisfatta come se quella fosse l’unica risposta possibile.
Era quella la cosa che Chiyoko voleva mostrarle? Tamaki guardò una a una le fotografie appese alla parete.
«Tenga, la prenda e la legga in tutta calma» le disse di colpo Chiyoko, allungandole davanti agli occhi una busta rettangolare marrone. Tamaki, stupefatta, la afferrò senza batter ciglio. Era una vecchia lettera indirizzata a Midorikawa Mikio da parte di un uomo che rispondeva al nome di Komoda Kyōichi. Quel nome non le era nuovo, ma sul momento non riuscí a ricordare a chi appartenesse.
«Dopo la morte di mio marito, ho trovato questa lettera tra le sue cose. Komoda Kyōichi è il marito di Miura Yumi…»
«Ah!» esclamò ad alta voce Tamaki.
Finalmente l’arcano era stato svelato: la X dell’Innocente era Miura Yumi. Midorikawa, che in un breve saggio aveva scritto qualcosa a proposito dei famosi “fagioli di mare”, aveva avuto effettivamente una relazione con lei.
«La busta contiene una lettera che Yumi ha scritto dopo aver saputo che le restava poco da vivere» proseguí Chiyoko. «Gliela presto, potrà rendermela con calma dopo che l’avrà letta. Magari, se ne avrà il tempo, la legga questa sera stessa in albergo, d’accordo?»
«Lo farò senz’altro, non so come ringraziarla. Domani, prima di partire, tornerò qui da lei per restituirgliela».
In ogni caso, quella notte Tamaki non avrebbe chiuso occhio, di tempo a disposizione ne aveva fin troppo. Si strinse forte al petto la lettera spedita dal marito di Yumi a Midorikawa, come fosse Seiji in carne e ossa.
4
Gentile sig. Midorikawa Mikio,
chiedo scusa per questa lettera improvvisa. Mi chiamo Komoda Kyōichi e sono il marito della fu Miura Yumi.
Yumi è deceduta il 21 marzo dello scorso anno all’ospedale dell’Università di Tōkyō, a causa di un tumore al peritoneo. Aveva cinquantatré anni. La sua morte è sopraggiunta con una rapidità tale da non lasciarmi neanche il tempo di riordinare le sue cose. In seguito sono stato contattato da una persona di una casa editrice, che mi ha pregato di controllare se per caso avesse lasciato dei manoscritti e se stesse lavorando a qualcosa in particolare. Cosí mi sono deciso a dare un’occhiata alla sua scrivania e alle sue carte.
È stato allora che ho trovato in un cassetto la lettera sigillata che le ho inviato insieme a questo mio breve messaggio. Come avrà visto, sulla busta c’è scritto il suo nome, ma non ci sono né l’indirizzo né nessun’altra indicazione, per cui in un primo momento ho pensato che non avesse intenzione di spedirgliela. Ma poi mi sono detto che forse Yumi, consapevole che non le restava molto da vivere, aveva scritto qualcosa che voleva assolutamente comunicarle. Perciò alla fine mi sono deciso a inviargliela.
La lettera è chiusa, ho preferito non aprirla.
Mi scuso molto per l’eventuale disturbo che le ho arrecato e spero potrà continuare la sua attività con grande successo e piena salute.
Con molta cordialità,
Komoda Kyōichi
Tamaki si accorse che le tremavano le mani. Era per il forte disagio di essere in possesso di un segreto altrui? O forse c’entrava lo shock per la morte di Seiji? Sola nella sua camera d’albergo, se ne stava seduta sul bordo del letto e si sforzava di riflettere sul da farsi. Ma il tempo sembrava scorrere a vuoto, come un filo d’acqua da un rubinetto rotto.
Aveva a disposizione circa un’ora prima dell’appuntamento nella hall con Saitō e Nakagusuku per andare a cena. Di tempo per leggere la lettera di Yumi ce n’era a sufficienza, eppure continuava a esitare, aveva paura. Quale poteva essere il contenuto di una lettera indirizzata da qualcuno che stava per morire a qualcuno che era destinato a restare ancora in vita? Per giunta si trattava di due persone che ora non facevano piú parte di questo mondo, la qual cosa le ricordava con immenso dolore la scomparsa di Seiji, avvenuta poche ore prima.
Finché il lutto riguardava solo gli altri, Tamaki riusciva a conservare il suo sangue freddo. Ma da quando aveva preso coscienza del grande vuoto che la morte rappresentava, si chiedeva come facessero i vivi a sopportare il pensiero che i loro cari non ci fossero piú. Anche se si era rassegnata al peggio, quella nuova e improvvisa realtà la riempiva di un’angoscia straziante.
In quel momento, l’unico elemento concreto a sua disposizione era la lettera di Yumi che Chiyoko le aveva dato perché la leggesse da sola. Ecco come mai aveva preferito non farne parola con Saitō e Nakagusuku. Quando erano arrivati in albergo e si erano fermati alla reception per il check-in, non era neanche riuscita ad avvertirli della morte di Seiji. Non che avesse intenzione di non renderli partecipi, solo che non aveva trovato il modo e le parole giuste per dirglielo. Conveniva farlo in maniera fredda e impassibile? Facendo trasparire una tristezza devastante? O lasciando venir fuori la sua disperazione? Il problema era che nessuno di quei modi corrispondeva a quello che sentiva veramente. Sopraffatta solo da un senso di grande vuoto, non aveva avuto il tempo di fare chiarezza dentro di sé.
In ogni caso, la notizia non avrebbe tardato a diffondersi nell’ambiente di lavoro. Era anche per questo che Tamaki aveva scelto di serbare il triste evento dentro di sé, senza condividerlo con nessun altro, cosí da comprendere appieno la propria reazione e capire fino a che punto si sentisse annichilita. Anche se cercava di farsi coraggio ripetendosi che era una scrittrice e doveva trovare nella scrittura la forza di reagire, sentiva dilagare dentro di sé una tristezza che aumentava a ogni respiro e le stritolava il cuore. Voleva fuggire, ma dove? Sapeva già che presto si sarebbe ritrovata da sola con se stessa, sfinita e svuotata.
Quel che era certo era che quella sera doveva bere in onore di Seiji. E ubriacarsi fino a non pensare piú a niente e poi piombare in un sonno profondo. Perciò tanto valeva leggere subito la lettera di Yumi, adesso che era ancora lucida. Leggerla e rileggerla piú volte, cosí da imprimersela nella mente prima di restituirla a Chiyoko il mattino seguente. La tristezza e il dolore potevano aspettare, aveva tutto il tempo per abbandonarsi a quei sentimenti una volta tornata a Tōkyō. Si alzò in piedi stringendo in mano la lettera, in quella camera d’albergo anonima.
Andò a sedersi sulla poltrona accanto alla finestra e diede un’occhiata all’interno della busta marrone. Rilesse prima di tutto le parole semplici e concise di Komoda. Poi tirò fuori una busta di carta spessa tradizionale fatta a mano: sul fronte, ingiallito dal tempo, c’era scritto in grande e con inchiostro blu scuro «Sig. Midorikawa Mikio». Il tratto tremante, piú che mai evidente perché i caratteri erano di grandi dimensioni, era segno evidente della malattia allo stato terminale. Ma sul lato opposto spiccavano maestosi i caratteri che componevano il nome «Miura Yumi», tracciati con una bella grafia estremamente curata. La lettera era scritta con la stessa penna stilografica e con lo stesso inchiostro blu scuro, su fogli di raffinata carta giapponese tradizionale, cosí sottili da risultare quasi trasparenti. I primi due fogli erano vergati in ottima grafia, le righe ben dritte ed equidistanti, ma piú ci si avvicinava alla fine e piú i caratteri si facevano confusi e difficili da leggere. Era un altro segno inequivocabile del cattivo stato di salute dell’autrice della missiva.
Caro Midorikawa Mikio,
ho lasciato passare tanto tempo senza darti mie notizie.
Mi auguro che tu stia bene. Seguo sempre il tuo lavoro e mi permetto di gioire in cuor mio per i tuoi grandi successi.
Di certo saprai (visto che negli ambienti letterari se ne è molto parlato) che all’incirca dieci anni fa ho sposato un bravo impiegato di una nota azienda che risponde al nome di Komoda Kyōichi e che ho avuto una vita felice. Tu hai cinque anni meno di me, giusto? Komoda è ancora piú giovane, lui ne ha addirittura quindici in meno.
Il mio primo marito è partito per la guerra e non è piú tornato, aveva tre anni piú di me. Forse in parte è stato il dispiacere per la sua scomparsa a farmi innamorare solo di uomini piú giovani. L’espressione “vedova di guerra” appartiene ormai alla lingua morta, e senza dubbio io sono rimasta attaccata a un mondo antico, privo di forti legami con l’epoca in cui vivo. D’altronde tu sei un “sopravvissuto delle squadre speciali di assalto” e fai parte di quello stesso mondo antico, no? Ma ne è trascorso di tempo da allora, al punto che oggi ci sono persone che ignorano l’esistenza di quella nobile espressione: “sopravvissuto delle squadre speciali di assalto”. Il mondo è strano, non è vero? Dal momento che sei un uomo molto geloso, non te ne ho mai parlato, ma ho passato dei bei momenti in compagnia del mio primo consorte, nel corso dei soli due anni del nostro matrimonio. La nostra unione è stata breve ma intensa, leggevamo gli stessi libri, andavamo spesso al cinema e facevamo le ore piccole perdendoci in lunghe e piacevoli conversazioni. E un giorno, mentre vivevamo felici e contenti, è arrivata la chiamata alle armi. Fu uno shock tremendo, lui aveva già piú di trent’anni e alla fine non ho saputo neanche dove e come è morto. È assurdo, provo ancora molto dolore. Tutte le volte che ci penso è come se mi strappassero il cuore dal petto.
Come mai ti sto dicendo queste cose del mio passato? Credimi, non volevo, anche perché questa è la prima lettera che ti scrivo dopo tanti anni. Ho cercato di fermarmi, ma la mia mano è andata avanti da sola, come fosse convinta che ci sia del bene in quei ricordi intrisi di sentimento. Il fatto è che tra un mese o due tutto questo non esisterà piú, perché sto per lasciare per sempre questo mondo.
Sí, Mikio, è proprio cosí: ho un cancro allo stomaco allo stadio terminale e sono in attesa che la morte venga a prendermi. Oggi, per fortuna, mi sento abbastanza bene e riesco a stringere la penna in mano e a scrivere. Eppure di tanto in tanto devo fermarmi perché mi vengono delle fitte lancinanti alla nuca e alle spalle, come se qualcuno mi colpisse con un bastone. È una sofferenza atroce, non la auguro a nessuno. Inoltre ho problemi di respirazione e devo scrivere molto adagio, non posso affaticarmi. Roba da non credere, eh? Io che ero una donna piena di energia e non riuscivo mai a stare ferma, la terribile Yumi che Murakami Sadako rimproverava senza sosta dandole della “mezza matta” e della “sbadata”. Dopotutto la vita è imprevedibile, non sai mai cosa ti aspetta dietro l’angolo. Se penso che presto non avrò piú la forza di tenere la penna in mano, ho come la sensazione di essere impegnata in una folle corsa contro il tempo. Io che ero una buongustaia non riesco piú a sopportare la vista del cibo. Ormai la mia fine è vicina, lo sento. Provo un sentimento molto strano, difficile da spiegare a parole, qualcosa che assomiglia a un misto di rimpianto e dolore.
A essere sincera, anche se cerco di sembrare forte, la morte mi fa paura. L’anno scorso, dopo l’intervento chirurgico al quale sono stata sottoposta, mi sentivo molto depressa. Sfogavo il mio cattivo umore prendendomela con mio marito e con mia madre, e la sola vista della copertina del numero di Shinsei che conteneva il tuo romanzo, L’innocente, mi ha dato cosí sui nervi che ho afferrato la rivista e l’ho scaraventata contro il muro.
Di recente mi sento piú tranquilla. Del resto è per questo che ho deciso di scriverti questa ultima lettera. Ormai mi sono rassegnata, ripetendomi che tutti prima o poi dobbiamo morire ed è inutile tormentarsi. Sono molto meno triste quando penso che il mio primo marito mi sta aspettando nell’aldilà a braccia aperte. Durante la guerra lo mandarono al Sud, per cui è molto probabile che sia morto di fame nella giungla. Non appena ci rivedremo, lassú, gli preparerò una tavola piena di prelibatezze, cosí che possa rimpinzarsi a sazietà. Mikio, ti ricordi? Quando io e te eravamo innamorati, di tanto in tanto pensavamo alla morte e versavamo fiumi di lacrime. Eravamo due pazzi. Io mi lamentavo dicendo: «Se tu dovessi morire, non potrò venire nemmeno al tuo funerale per darti l’ultimo saluto, perché sono solo un’ombra nella tua vita». E tu mi rispondevi, tra un singhiozzo e l’altro: «No, io voglio che tu venga. Voglio che tu mi dica addio prima del mio viaggio verso l’altro mondo». Una volta mi hai anche detto: «Yumi, quando morirai, ti prometto che ti stringerò tra le mie braccia». Ma niente di tutto questo è successo, alla fine ci siamo lasciati e non potrai mantenere la tua promessa. Sto per andarmene via per prima, accudita e pianta da Komoda, stretta tra le sue braccia. La vita, come ho già detto, è imprevedibile. E quando chiuderò gli occhi per sempre, forse sentirai solo una lieve sensazione di vuoto al cuore e non verserai per me neanche una lacrima. Da quello che ho sentito dire, suppongo tu stia conducendo una vita di completo isolamento nel lontano Hokkaidō. Fino all’anno passato, talvolta mi capitava di partecipare a qualche party organizzato da una casa editrice o da una rivista letteraria, e notando la tua assenza mi sentivo al contempo triste e sollevata. In tutta onestà, non avevo una gran voglia di rivederti, ma ci tenevo a sapere come te la stavi cavando.
Ora, permettimi di parlare dell’Innocente, il romanzo che stai scrivendo in questo momento e che viene pubblicato con cadenza irregolare nella rivista Shinsei. X sono io, non è vero? Ti confesso che da una parte ti ho odiato, perché hai scritto delle cose molto severe su di me. Ma non ti nascondo che dall’altra ho provato un certo piacere, perché mi hai descritta come una donna bella e attraente. Mi sono riaffiorati alla mente emozioni e sentimenti che credevo di aver dimenticato e che mi hanno resa nostalgica e malinconica. Però ho la netta sensazione che la donna descritta nel romanzo, la misteriosa X, sia io ma allo stesso tempo non lo sia. Senza dubbio perché hai fatto di me e Chiyoko un unico personaggio.
Mi rendo conto che si tratta di un’invenzione letteraria, ma a causa dello stile realistico che hai utilizzato non posso fare a meno di sentirmi turbata, al punto che ho quasi l’impressione di aver indossato per davvero quel cappottino giallo e di averti chiamato “Mickey”. So bene che quella è Chiyoko, perché è lei a essere cosí raffinata e alla moda. D’altro canto è vero che quella volta sei venuto da me e hai dimenticato le chiavi. Cosí come è vero che ti ho spedito quel telegramma. Ma l’ho fatto per puro spirito di cortesia, senza la minima intenzione di scatenare l’inferno a casa tua. A meno che anche questo non faccia parte di uno schema preciso e sia solo un’altra invenzione letteraria. Hai deciso di sacrificare me e Chiyoko sull’altare della tua creatività? Io non sono capace di sacrificare e diffamare nessuno, e forse è per questo che non sono mai stata in grado di scrivere romanzi di buon livello. Capire i propri difetti e le proprie mancanze in punto di morte fa parte dell’ironia della vita, non credi?
Non avevo la piú pallida idea che scrivessi di me e di noi nel tuo diario segreto. Ma ormai anche questo non ha piú senso. A che serve, infatti, apprendere un’altra verità a pochi passi dalla fine? Piuttosto, penso che abbiamo perduto entrambi qualcosa di molto grande. Vuoi sapere che cosa ho perduto io nello specifico? Te lo dico subito, è semplice, anche se è qualcosa che per te non ha importanza. Ho perduto il mio onore. Ora tutti sanno che mi hai costretta ad abortire. Hai rivelato a tutti che io e Chiyoko ci siamo contese il tuo amore come due acerrime nemiche. Forse penserai che la stessa cosa valga per te e per lei, per la vostra coppia. Ma proprio perché voi siete una coppia e vivete insieme, potete gridare al mondo che andate d’amore e d’accordo e che il contenuto del romanzo è solo una finzione. Io, invece, non posso farlo. So solo che mi sono stati rubati l’onore e la dignità.
Ti chiedo scusa. Ho scritto delle parole molto cattive senza volerlo, mi sono lasciata trascinare dalla foga del momento. So bene che anche tu hai perduto qualcosa di molto importante, che di certo vale mille volte di piú del mio onore. Sono una persona misera e insignificante. Vorrei correggere alcune frasi che ho scritto fin qui, ma non ne ho la forza, perdonami.
Lasciami però aggiungere un ultimo dettaglio. Il fatto che tu abbia messo la tua famiglia in primo piano e il nostro rapporto solo ai margini non corrisponde alla realtà. Il nostro amore era immenso e innegabile e avrebbe meritato di comparire al centro della scena, sotto la luce intensa dei riflettori. E invece tu lo hai relegato nella penombra, come fosse qualcosa di fugace e privo di valore. Per giunta X è presentata come l’unica e sola responsabile della rovina della tua famiglia, o sbaglio?
Dal momento che ora ho anch’io una persona preziosa e importante nella mia vita, alla quale riservo giustamente il primo posto, sono in grado di capire molto bene l’impulso che ci spinge a considerare fugaci o addirittura privi di valore gli amori precedenti. Ma è anche vero che io e te ci siamo amati, e almeno una traccia del nostro amore resterà viva da qualche parte in eterno. Attenzione, non sto dicendo che voglio lasciare una mia traccia in questo mondo, non è questo che mi interessa. Ecco, per esempio, dopo che una persona ha avuto un attacco cardiaco o cerebrale, per quanto lieve, nel suo corpo non ne resta forse una traccia? Ora, si tratta solo di scoprire dove e in che forma è possibile individuare le tracce di un amore passato.
Ritorno un attimo all’Innocente, perché ho sentito dire che la sua pubblicazione sulla rivista andrà avanti abbastanza a lungo. Nel caso dovessi trovare la mia presenza imbarazzante, ti assicuro che puoi stare tranquillo. Come ho già avuto modo di dirti, presto non farò piú parte di questo mondo e potrai scrivere tutto quello che vuoi senza temere la mia reazione.
Ti senti meglio adesso? Ti ho tolto un peso dalle spalle? Oh, no, ti chiedo scusa, per un attimo avevo dimenticato che ti dà molto fastidio quando la si mette su questo tono. Perdonami, ti prego.
A proposito, ho saputo che dopo la tragica scomparsa di tuo figlio hai ricevuto il battesimo e sei diventato cristiano. Ti sei trasferito con la famiglia in Hokkaidō, dove hai cambiato completamente vita. Mi sarebbe piaciuto molto parlarne con te almeno una volta, sapere come trascorri le tue giornate. Ma non credo sarà possibile, non è vero?
Ah, sí, quasi me ne dimenticavo: il lavoro di Chiyoko come scrittrice è fantastico. Quella sua favola mi ha molto colpita, è bellissima. So che è passato un bel po’ dalla pubblicazione, ma ti prego di farle lo stesso i miei complimenti. Lei sí che ha talento, io sono una nullità al suo confronto.
E al talento, come è ovvio che sia, si accompagna sempre l’orgoglio.
So che Chiyoko era furibonda anche perché non sopportava l’idea che tu te la facessi con una donna che come scrittrice valeva poco o niente. Ho sentito dire che aveva letto i miei romanzi e aveva affermato che erano di scarso livello e che lei era molto piú dotata di me. E anche che non meritavo di vincere quel premio e che tu avresti dovuto vergognarti di avere un’amante come me.
Il mio amore per te mi ha ferita e mi ha fatto soffrire segnandomi profondamente. Se solo ripenso a tutto quello che è successo, mi sento prendere da un’agitazione incredibile. Lo sai anche tu che Chiyoko si è presentata piú volte da me armata di coltello, no? E non si è fatta scrupolo di urlarmi contro, davanti a un mucchio di gente, frasi come: «Vieni fuori, se hai coraggio, maledetta puttana!». Era bella, aggressiva e intelligente. Ed è senza dubbio per questo che hai descritto in modo cosí leggero la sua follia nel tuo romanzo. Mentre la realtà era molto piú dura e orrenda. Per un certo periodo se l’è presa a morte anche con la madre di Ishikawa Motoko, credendo che fosse lei la tua amante. Non mi meraviglio che tu abbia preferito non scrivere niente su questi particolari scabrosi e infamanti. Dopotutto è normale, visto che si tratta pur sempre di tua moglie e che avete perso un figlio in un tragico incidente. Ma per me, relegata nell’ombra e descritta come piú ti conveniva, risulta tutto abbastanza seccante e persino offensivo.
Comunque stiano le cose, è innegabile che io sia uno dei personaggi del romanzo. Ma perché quel titolo, L’innocente? Ci ho pensato molto mentre lo leggevo. Chi è innocente in questa storia? Di certo non lo siamo né tu, né io, né tanto meno Chiyoko. Chi, allora? Ora che sono vicina alla morte, ho pensato che forse “l’innocente” potrebbe essere l’amore perduto. Sono troppo romantica? Mi sembra quasi di vederti ridere. Come quando nel corso delle riunioni della nostra rivista non riuscendo a controllarti ti giravi da una parte per lasciarti andare a una risata.
La morte sta venendo a prendermi, lo sento. Mentre scrivo, mille ricordi e pensieri mi si affastellano nella mente senza un ordine preciso. Sono confusa, ho paura. Secondo te, la morte è molto dolorosa? Ho sentito dire che si prova un’angoscia indicibile fino all’ultimo soffio di vita, e mi domando se riuscirò mai a sopportarlo. La sofferenza mi imbruttirà fino a rendermi irriconoscibile e morirò raggomitolata su me stessa. Quando ci penso, mi sento prendere da un terrore che mi toglie il respiro. Le ore belle e spensierate che abbiamo vissuto insieme venti anni fa si trovano adesso in paradiso? Riuscirò a ritrovarle? Dimmelo, ti prego, ora che sei un cristiano.
La lettera si concludeva al settimo foglio. Non era firmata: forse Yumi aveva intenzione di scrivere ancora ma, presa dalla stanchezza, si era fermata e l’aveva infilata cosí com’era nella busta? La confusione nella parte finale lasciava intendere che, ormai senza forze, non fosse piú in grado di andare avanti. Si trattava della sua ultima lettera. Tamaki aveva sperato di trovarsi di fronte a una missiva perfetta e coerente, e provò una certa delusione per via della sua inconcludenza. Se Yumi avesse avuto modo di rileggerla, non avrebbe mai acconsentito a farla consegnare al destinatario cosí com’era. Che cosa aveva pensato Midorikawa nel riceverla e nel leggerne il contenuto?
La morte – pensò ancora una volta Tamaki – è un grande vuoto perché recide ogni legame. Quelli che restano non possono fare altro che continuare a stringere in mano un filo il cui capo opposto pende pietosamente. La lettera di Yumi dava a Tamaki, anche lei influenzata dall’universo dell’Innocente, la sensazione di essere costretta a tenere in mano l’estremità di quel filo. Come diceva Yumi, essere il personaggio di un romanzo comportava davvero il rischio di perdere l’onore? Forse no: se Miura Yumi fosse stata una scrittrice in grado di competere con i coniugi Midorikawa, con ogni probabilità il contenuto stesso della sua missiva sarebbe stato molto diverso.
Nell’attimo in cui Tamaki ripose la lettera nella cassaforte della stanza, fu invasa dalla sensazione spiacevole di scorgere in lontananza una Yumi incapace di placare la propria sofferenza, malgrado l’esistenza di uno sposo fedele al suo fianco.
Saitō e Nakagusuku erano in attesa nella hall dell’albergo e leggevano dei dépliant. Tamaki si rese conto di essere in ritardo di una buona decina di minuti rispetto all’ora dell’appuntamento.
«Vi chiedo scusa, ho fatto tardi senza accorgermene».
Al suono della sua voce, i due editor sollevarono lo sguardo all’unisono e le lanciarono una breve occhiata interrogativa.
«Tutto bene?» le chiese Saitō. «È riuscita a fare una doccia?»
Tamaki scosse la testa e si decise a parlare.
«Prima» disse, «ho ricevuto una telefonata da Yamaguchi: Abe è morto poche ore fa».
«Mentre eravamo a casa di Chiyoko, vero?» chiese Nakagusuku trasalendo. «Quando le è squillato il cellulare, ho avuto un brutto presentimento. Lei è impallidita all’istante, poi è andata in bagno e ha tardato a tornare in soggiorno. Ho pensato subito che fosse successo qualcosa».
Tamaki guardò a turno i due editor: proprio come pensava, la sua espressione al momento della telefonata di Yamaguchi aveva tradito appieno le sue emozioni.
«Ero strana?» chiese Tamaki.
«Piú che strana, direi che era distratta, assente» rispose Nakagusuku. «Per un attimo ho pensato di domandarle se fosse successo qualcosa, ma poi ci ho rinunciato, perché ero sicuro che non avrebbe aperto bocca».
«È sicura di sentirsi bene?» insisté Saitō. «Non ha una bella cera».
«Sí, sto bene. In fondo mi ero preparata al peggio, credo di farcela. Stasera ho voglia di bere».
Tamaki si era imposta di apparire forte e coraggiosa, non voleva dare l’impressione di soffrire.
«D’accordo, come vuole» assentí con aria decisa Saitō.
Quanto a Nakagusuku, increspò le labbra in una lieve smorfia di incredulità e distolse lo sguardo.
Uscirono insieme dall’albergo. Il freddo umido della notte li investí in pieno viso. Il ristorante specializzato in cucina locale che Saitō si era fatto consigliare alla reception si trovava a pochi minuti di cammino. Tamaki avanzava sull’ampio marciapiede in mezzo ai due uomini. Per un po’ nessuno aprí bocca. Poi, dopo un colpo di tosse, Saitō ruppe il silenzio.
«Ma Abe non aveva ripreso conoscenza?» chiese a bassa voce.
«Credo di no, le sue condizioni erano disperate, ma non so nulla di preciso» rispose laconica Tamaki.
Aveva pensato piú di una volta di chiamare Yamaguchi per avere notizie dettagliate, ma alla fine aveva desistito, ricordando il suo tono turbato e la voce rotta dal pianto quando le aveva lasciato il messaggio in segreteria. Era distrutto, molto probabilmente non era in condizioni di reggere una conversazione telefonica. E in piú Tamaki non sapeva neanche cosa chiedergli.
«Per fortuna ha reagito bene alla notizia, mi sembra abbastanza tranquilla» le disse Nakagusuku.
«È solo un’impressione, non lo sono affatto» replicò Tamaki con un pizzico di rabbia. «Il fatto è che non ho il diritto né di piangere né di gridare. E sono certa che qualcuno non si farà scrupolo a dire che è colpa mia se Abe è morto».
«No, questo è impossibile!» esclamò indignato Saitō.
«La cosa non mi ferirebbe piú di tanto, ci ho fatto l’abitudine. A ogni modo, ho la sensazione che il viaggio sia finito».
«Sí, è vero» concordò Saitō. «E siamo anche riusciti a incontrare Chiyoko».
Seiji era morto proprio nel giorno in cui, dopo aver incontrato la moglie di Midorikawa, finalmente Tamaki aveva appreso che Miura Yumi era la X dell’Innocente. Che assurda coincidenza! A ben rifletterci, da quando aveva cominciato a dedicarsi a quel lavoro, non aveva fatto che pensare a Seiji.
«In realtà, il viaggio non è ancora finito: le resta da completare il suo romanzo, L’indecenza» disse Nakagusuku.
Le parole del giovane editor fecero affiorare un sorriso impercettibile sul viso di Tamaki. Era vero, doveva finire di scrivere quel romanzo, ma il suo viaggio con Seiji era terminato una volta per tutte. La sua morte aveva fatto calare per sempre il sipario sulla loro storia, prima dell’estinzione definitiva del loro amore. Tamaki si sentiva un nodo allo stomaco. Non aveva forse provato la medesima sensazione anche Midorikawa Mikio, quando aveva ricevuto la lettera in cui Yumi gli annunciava la sua morte? Tamaki chiuse gli occhi per qualche istante e cercò di ricordare le parole esatte di quella vecchia missiva che aveva riposto nella cassaforte della camera d’albergo. Al che Saitō e Nakagusuku, pensando che fosse stata invasa da un improvviso moto di tristezza, rinunciarono per un po’ a rivolgerle la parola.
Nel momento in cui furono introdotti in una saletta privata del ristorante, il cellulare di Saitō squillò. «Sí, sí, certo, un attimo…» rispose a bassa voce, mentre tirava fuori l’agendina dalla tasca e usciva dal privé. A Tamaki venne spontaneo pensare che si trattasse di una telefonata che riguardava i funerali di Seiji. Forse lei non aveva il diritto di andarci, ma non poteva esimersi dall’inviare almeno una lettera di condoglianze con inclusa la tradizionale offerta in denaro. Che somma avrebbe dovuto mettere nella busta? Questa e altre preoccupazioni di tipo pratico le attraversavano la mente.
Ricordò che, nella lettera a Midorikawa, Yumi aveva scritto che spesso avevano pianto insieme immaginando la loro morte. Lei si angosciava al pensiero di non poter assistere ai funerali del suo uomo, e questi faceva il bambino viziato dicendole che doveva infischiarsene di tutto ed essere presente a ogni costo. Ma i due innamorati non si erano minimamente preoccupati di stabilire l’ammontare della consueta offerta in denaro. Nel pensarci, Tamaki si lasciò sfuggire una risata.
«Che succede?» le chiese allarmato Nakagusuku.
«Niente. Mi sono ricordata un fatto divertente e mi è venuto da ridere».
Se fosse morta lei per prima, quanto avrebbe offerto Seiji per le condoglianze? Di colpo, Tamaki rammentò il viso di Seiji che le era apparso in sogno, gonfio e con il mento cascante. La morte era un grande vuoto. Le venne un capogiro e le si annebbiò la vista.
Il mattino seguente si svegliò di soprassalto, spaventata per aver riaperto gli occhi in una stanza che non era la sua. Le prime luci del giorno filtravano attraverso uno spiraglio nelle tende, ma le lampade all’interno della stanza erano accese e lei era distesa vestita sul letto. La sera prima aveva bevuto un bicchiere dopo l’altro ed era rientrata in albergo in compagnia dei due editor a notte fonda. Recuperò in fretta la lucidità e trasse un lungo sospiro. Le venne subito in mente la scomparsa di Seiji. Era per quel motivo preciso che aveva bevuto fino a stordirsi.
Si infilò di nuovo sotto le coperte. Sentiva di stringere ancora forte in mano un’estremità del filo e non voleva essere ricondotta verso il grande vuoto della morte. Provò a resistere e chiuse forte gli occhi, fino a riaddormentarsi. Quando si risvegliò, erano ormai quasi le dieci. Aveva appuntamento con Saitō e Nakagusuku a mezzogiorno in punto per lasciare l’albergo e raggiungere l’aeroporto. Prima, però, doveva restituire la lettera a Chiyoko: fece una doccia veloce e si preparò per uscire.
Disse al tassista di fermarsi davanti al palazzo e di aspettare una decina di minuti. Non aveva molto tempo a disposizione, doveva rientrare in hotel dove l’attendevano i suoi due compagni di viaggio. Suonò al citofono e fu sorpresa di sentire subito la voce di Chiyoko.
«Buongiorno. Venga su, mia cara, la stavo aspettando».
Quella voce possedeva una vitalità sorprendente per una persona della sua età.
«La ringrazio moltissimo per ieri, è stata davvero gentile» le disse Tamaki non appena entrò in casa, mentre le porgeva la lettera. Chiyoko la prese senza verificare il contenuto della busta e chinò con grazia il capo. Indossava un maglioncino nero a collo alto e una gonna grigia lunga alle caviglie, ai piedi delle pantofole di feltro rosse. Aveva un aspetto molto ricercato ed elegante. Non c’era traccia di Tomonō, era forse uscito?
«Le è piaciuta la lettera?» chiese Chiyoko abbozzando un sorriso sarcastico.
«Direi di sí…» rispose Tamaki sorridendo a sua volta. «Certo, non vorrei sembrarle scortese, ma…» Si interruppe di colpo, incerta se continuare o meno la frase.
«Su, mi dica, so bene che anche lei è una scrittrice» la esortò Chiyoko. Nei suoi occhi c’era una luce particolare, come se la stesse mettendo alla prova. Anche se era un’anziana donna di ottantasei anni, piccola e minuta, in quel momento Tamaki ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un gigante.
«Va bene, grazie. Volevo chiederle questo: la lettera di Yumi l’ha presa in consegna lei quando è arrivata, non è vero? E, prima di darla a suo marito, non è che per caso l’ha… censurata?»
«Se ne è accorta, eh?» rispose Chiyoko accostandosi la mano alla bocca e ridendo sottovoce. «Mi aspetti un attimo qui, vado a prendere la parte mancante».
Tamaki era ancora lí in piedi a bocca aperta, quando Chiyoko, che si era ritirata per qualche momento all’interno del suo studio, riapparve sventolando in mano due fogli sottili. Due fogli della stessa carta da lettere della missiva di Yumi. Tamaki, immobile nel vano d’ingresso, lesse seduta stante il resto della lettera di Miura Yumi.
Pensare alla morte mi toglie la tranquillità e mi fa sprofondare nella confusione piú totale. Ti prego di capirmi e ti chiedo scusa.
Dopo la scomparsa del piccolo Yōhei, hai deciso di farti battezzare. Chiyoko è riuscita a sopravvivere dedicandosi con pieno successo alla scrittura, ma ho saputo che ha attraversato un periodo molto difficile, afflitta da una grave depressione. Quanto a me, sono riuscita a farmi strada nel mondo della letteratura, ma senza diventare una scrittrice di primo livello. Inoltre, in base a quanto hai scritto nell’Innocente, mi sono sentita addossare una grave colpa e sono stata relegata in un angolo buio, quasi come se non esistessi. E non credo affatto di essere vittima di un semplice delirio di persecuzione.
In effetti, ciascuno a modo suo, abbiamo tutti sofferto e siamo rimasti profondamente segnati. Prima, ho parlato di amore perduto, ma credo che la traccia del nostro amore sia racchiusa proprio nelle pagine del tuo romanzo. Le differenze tra X e Chiyoko che hai messo in luce non contano, i nostri sentimenti e i ridicoli sforzi quotidiani per affermarli costituiscono le tracce stesse dell’amore. Ed è da lí che nascono sofferenze ancora piú grandi e atroci.
In precedenza mi sono chiesta chi fosse l’innocente in tutta questa storia, e ora mi sono appena accorta di qualcosa. Qualcosa di cui forse neanche tu che sei l’autore del romanzo ti sei accorto. Gli innocenti sono quelli che lasciano per sempre questo mondo, quelli che muoiono. Quindi, per quel che ti riguarda, il povero Yōhei e anche io.
Il momento dell’ultimo addio è arrivato.
Mikio, ti ringrazio di aver pensato a me per tutto questo tempo. Ti auguro di stare sempre bene e di vivere felice fino all’ultimo dei tuoi giorni.
Miura Yumi
«Chiyoko, perché ha eliminato questa parte della lettera?» chiese commossa Tamaki, il viso inondato da calde lacrime, le prime che versava dopo la notizia della morte di Seiji. Chiyoko le guardava scorrere in silenzio, senza stupirsi piú di tanto. E in quel momento Tamaki capí perché quell’anziana donna preferiva restarsene zitta. Chiyoko non aveva mai perdonato né Midorikawa né Yumi. E quest’ultima non aveva perdonato nessuno di loro due.
Se, come scriveva Yumi, gli innocenti sono quelli che lasciano per sempre questo mondo, anche Seiji, morendo, era diventato un innocente? Un innocente che non aveva mai concesso a Tamaki il suo perdono. Non c’erano dubbi, L’innocente era un romanzo diabolico.
«Venga, mi segua» le disse Chiyoko sorridendo maliziosa, facendole segno con la sua piccola mano esangue. «Credo sia giunto il momento di mostrarle lo studio di mio marito».
Tamaki avanzò all’interno dell’appartamento. Anche se tutto era ben in ordine, aleggiava un lieve odore di rifiuti organici. Quella casa aveva ritrovato la sua calma, regnava un silenzio irreale, al punto che Tamaki non poté non pensare che l’incontro del pomeriggio precedente, in presenza di Tomonō e Michiko, fosse solo un sogno.
Intanto Chiyoko aveva aperto una porta in fondo al corridoio e la stava aspettando. La stanza si trovava di fianco al soggiorno ed era molto ampia, ma le tende erano chiuse e non si vedeva niente. Quando Chiyoko accese la luce, Tamaki dovette fare del suo meglio per non lasciarsi scappare un grido di sorpresa. Le pareti erano interamente ricoperte di scaffali, dove erano stipate senza un ordine preciso intere collezioni di libri e riviste. In piú, dal momento che lo spazio sui ripiani non era sufficiente, cumuli di libri, riviste e vecchi giornali erano ammonticchiati qua e là sul pavimento. C’era anche un mucchio di quaderni impilati l’uno sull’altro alla meno peggio ad altezza d’uomo, che minacciava di crollare da un momento all’altro. Anche se Midorikawa era morto ben diciassette anni prima, quella stanza conservava intatte in quel disordine le tracce della sua presenza come se, tuttora in vita, il celebre romanziere continuasse a scrivere tutti i giorni i suoi capolavori.
«Ecco, questo è il diario di mio marito» disse Chiyoko indicando la pila di quaderni. Il diario segreto che era all’origine dell’Innocente. Tamaki guardò quei quaderni trattenendo il fiato. Allora Chiyoko prese quello piú in alto e lo aprí. Era pieno di caratteri scritti in modo fitto e con una grafia minuta, con dell’inchiostro blu scuro.
«Ci teneva da matti al suo diario, era una vera e propria mania» continuò Chiyoko, senza staccare gli occhi dal quaderno. «Era convinto che se non avesse lasciato niente di scritto riguardo alla sua vita quotidiana, sarebbe mancata la prova tangibile della sua stessa esistenza. Inoltre aveva l’abitudine di fare degli album di ritagli di giornali e riviste, perché gli piaceva conservare e archiviare tutto ciò che gli interessava. Io, adesso, sto rileggendo il suo diario da cima a fondo e sto riscrivendo a modo mio tutto quello che mi sembra rilevante. È questo il romanzo di cui le parlavo».
Si trattava del romanzo d’amore al quale le aveva detto che stava lavorando? Tamaki fece istintivamente un passo indietro. Le parole lasciate dagli altri avevano forse il potere di rendere folli le persone? Midorikawa aveva soppresso X, e ora Chiyoko si apprestava a sopprimere l’universo di Midorikawa. Tamaki scrutò con timore gli angoli bui della stanza per controllare che non vi fossero rannicchiati i fantasmi dei morti. E si rese conto che Seiji, il quale aveva affermato di non essere piú interessato alla letteratura, aveva abbandonato da solo il mondo delle parole.
«Mi raccomando, sia sempre forte e continui a scrivere i suoi romanzi senza mai perdersi d’animo» le disse Chiyoko in tono pacato, battendole lievemente una mano sulla spalla.
Quel contatto strappò Tamaki alle sue riflessioni riportandola alla realtà. In quel momento provava un’angoscia indicibile all’idea di ritrovarsi da sola e abbandonata nel mondo delle parole. Lei e Chiyoko, che era alle prese con il lungo diario di Midorikawa, erano ormai rinchiuse per l’eternità in una grotta buia. E quell’anziana signora, lí al suo fianco, le sorrideva come una cara e vecchia compagna.