8. La Casa Porno
Per le prime due settimane seguii come un’ombra Catherine, la ragazza che avrei sostituito. Era alta, più anziana di me, e guidava un modello recente di Jeep Cherokee. Disse che avrebbe cominciato a lavorare a tempo pieno tenendo la contabilità dell’impresa edile del marito. Questo per lei era stato un lavoro extra, in un periodo di stagnazione degli affari. Sembrava stanca, ma felice di andare per l’ultima volta nelle case dei suoi clienti.
Seguii la Jeep di Catherine in diverse case per due settimane, cercando di imitare il suo modo di affrontare il lavoro, disinvolta e calma. Nei giorni precedenti il Natale, vidi che spesso riceveva dai clienti un bigliettino di auguri con dentro dieci dollari o una cifra simile. Non avevano idea che fossimo in due a pulire, o che io l’avrei sostituita. Ogni volta che un cliente le lasciava qualcosa, Catherine si comportava come fosse una piacevole sorpresa, ed ebbi l’impressione che si trattasse del bonus natalizio e non di una mancia regolare. Avrei dovuto lavorare un intero anno, strofinare per bene a mano ogni water per due dozzine di volte, per guadagnarmi una mancia di dieci dollari.
Ci avevano istruito di entrare di solito dal retro, o dalla porta di servizio della cucina. Arrivavamo con i nostri carrellini ben organizzati pieni di spray e spazzole, un grande sacchetto di stracci quadrati bianchi, un aspirapolvere e moci per il pavimento. All’inizio non avevo grande esperienza sull’uso di tutto quel materiale. Lavorare con Classic Clean era molto diverso dal farlo per Jenny: non potevo più limitarmi a spolverare e a lucidare per far sì che tutto brillasse e profumasse di pulito, dovevamo sfregare tutto a mano. E lo facevamo con una quantità di spugne e spazzole, detergente organico e aceto.
Con una certa goffaggine, cercavo di portare il materiale dall’auto alla casa in un solo viaggio e di organizzare una “postazione di lavoro”, proprio come mi era stato detto di fare. Aprivo il fascicolo sul mio foglio di presenza e scrivevo il cognome del cliente, poi chiamavo in ufficio e lasciavo un messaggio vocale per timbrare virtualmente il cartellino, comunicando l’ora di inizio. Da principio, era una corsa a perdifiato, nel tentativo di terminare ogni casa nelle tre o quattro ore assegnate e comunicare la fine del lavoro.
La mia vita riprese ad avere una certa regolarità, e cominciava lasciando Mia all’asilo, a pochi passi da casa. Non che quell’asilo nido mi piacesse particolarmente, ma era l’unico disposto ad accettare la sovvenzione dei servizi sociali per l’infanzia. Trovavo la struttura fredda, affollata, gli educatori sembravano detestare il loro lavoro, e inoltre Mia passava da una malattia all’altra. Avevo bisogno che andasse all’asilo per poter lavorare, anche se così sacrificavo la sua salute. La mia capacità di guadagnare era, al momento, l’unica cosa importante. Una volta, rimasi di fronte all’asilo, a stringere la manina appiccicosa di Mia. Sapevo che aveva bisogno di me. Aveva bisogno che restassimo a casa, ma non potevo spiegarle che così forse avrei perso il lavoro, e che cosa ciò avrebbe significato per noi. Ci fermammo un istante prima di oltrepassare la soglia. Io abbassai lo sguardo su di lei, che aveva il labbro superiore impiastricciato di muco verdastro.
“Che cosa ti sta uscendo dal naso?” chiese, avvicinandosi a noi, una donna dai capelli scuri, probabilmente un’educatrice dell’asilo, una che non avevo mai visto prima. Si rivolgeva a Mia, ma in realtà parlava a me. Mentre Mia cercava di farsi prendere in braccio da me, la donna si allontanò, scrollando la testa. Mi sentii un mostro per dover lasciare lì mia figlia. Le avevo dato il Tylenol e la notte prima aveva vomitato, ma non avevo scelta.
L’asilo mi chiamava per andarla a prendere soltanto se diventava apatica o letargica, se vomitava ripetutamente, o se aveva la febbre alta. A volte, tornate a casa, la piazzavo sul divano davanti alla tv, sotto la sua copertina, con in mano una tazza con il beccuccio piena di succo di frutta, e lei non si muoveva fino al momento di cenare e fare il bagno, prima di andare a letto. Travis le si sedeva accanto e guardavano i cartoni animati mentre io cucinavo e pulivo.
Nonostante il mio crescente risentimento verso Travis, mi era chiaro che lui voleva davvero bene a Mia. Gli piaceva avere quella piccola amica che lo accompagnava sul trattore o si sedeva con lui sul divano a guardare la tv. Ma credo che mi piacesse quel che rappresentavamo, più di quel che eravamo. Lui era una fantastica figura paterna, più che capace di compensare le mancanze di Jamie. Un lavoratore, come mio papà. Quando gli impegni non erano così pressanti, faceva il buffone e preparava i pancake. Per me, la simpatia non compensava lo sguardo apatico, fisso sullo schermo televisivo, ma quando Mia lo guardava, si illuminava. La invidiavo. Anch’io avrei voluto essere innamorata di lui. Vederli così sul divano, dopo aver lavorato tutto il giorno, mi faceva sentire un po’ più sicura, forse perfino che le cose un giorno sarebbero andate bene.
Al lavoro, dopo che Catherine si fu licenziata, io e Lonnie mettemmo a punto un rituale. A ogni nuovo cliente, lei veniva per “presentarmi” alla casa, come se ogni edificio avesse uno spirito che io dovevo conoscere.
Quelli, per Lonnie, erano i momenti più belli. Sembrava trovare davvero un legame personale con le case. “Dovete imparare a conoscervi,” diceva, facendomi l’occhiolino.
Buona parte di quello che Lonnie mi diceva durante questi incontri sulle diverse case non era scritto sugli stampati che ricevevamo per ciascun cliente. Quelli erano appunti segreti che i clienti non avrebbero mai visto, per esempio: “Devi assolutamente entrare nella doccia e sfregarla perché lì è un vero schifo”, oppure “Controlla la pipì che stagna sul pavimento del bagno di servizio vicino allo studio”. Ma mi aprivano gli occhi sul mio lavoro in modo nuovo; al di là dell’approccio professionale, noi sapevamo benissimo che era disgustoso.
Con Classic Clean, all’inizio ero l’unica donna delle pulizie incaricata di una manciata di abitazioni. I mercoledì erano lunghe giornate di sei ore, spese a pulire due piccole case costruite una accanto all’altra sul bordo di una scogliera affacciata sull’oceano.
Molti dei miei clienti vivevano sulla vicina Camano Island, a circa una trentina di minuti in auto dall’asilo di Mia. In gran parte erano pendolari e lavoravano a Everett o a Seattle, ad almeno un’ora di distanza. Non lo sapevo per certo, ma presumevo che fossero medici o avvocati che lavoravano in città, per potersi permettere le tasse sugli immobili nelle località dove risiedevano. Camano Island era incuneata tra la terraferma e Whidbey Island, quindi la maggior parte delle case che pulivo si affacciava sull’oceano. Quelle del mercoledì erano due delle più piccole, con garage separati grandi il doppio dei locali di soggiorno.
Lonnie mi disse di occuparmi per prima della casa della coppia sposata, dando all’altro cliente il tempo di uscire prima di iniziare la sua. Il mattino in cui entrammo nella prima casa, Lonnie fece cenno verso la porta d’ingresso dell’altra. “Diamogli un po’ di tempo per alzarsi e uscire. È molto malato.” Le chiesi cosa avesse. Lonnie si strinse nelle spalle. “Sua moglie è defunta,” disse. “Vedrai. È triste.”
Da quel momento in poi, la chiamai la Casa Triste. Non riuscivo a pensarla in altro modo. Altre case si guadagnarono un soprannome, a mano a mano che imparavo a conoscerle: la Casa della Fumatrice, la Fattoria, e così via.
All’inizio mi sembrava molto insolito che nessuno dei miei clienti del mercoledì sapesse di avere una nuova donna delle pulizie, ma la casa e io venivamo presentate una all’altra nel modo migliore. Non credo che Lonnie dovesse avvertire i proprietari, se non richiesto, perché eravamo invisibili. Avrebbe fatto una cattiva impressione conoscere l’alto tasso di turnover del personale dell’impresa. Forse si sarebbero sentiti a disagio sapendo quante estranee si alternavano nelle loro case. Io non ero una cameriera personale, ma un elemento di un’impresa specializzata. Avevano assoldato l’impresa e si fidavano di questa, non di me. Io passavo ogni mese una mezza dozzina di ore a casa loro, ma credo che non sapessero nemmeno il mio nome.
La Casa Porno, come presi a chiamarla, fu la prima di quel mercoledì. In realtà consisteva soltanto di tre stanze, con grandi finestre affacciate sulla scogliera e un roseto sul retro. Due persone con un cane e un gatto in uno spazio limitato significavano polvere, peli e forfora di gatto. Dovevo prestare la massima attenzione alle mensole, alla sommità dei televisori e alla lavanderia.
“Questa doccia,” disse Lonnie, aprendo lo sportello a scorrimento per mostrare un piatto doccia quadrato coperto di peli, flaconi di shampoo e quel che sembrava un grumo di moccio verdastro. “Dovrai metterla a mollo.”
La nostra fornitura di materiali di pulizia era ridotta al minimo. Nel carrellino avevo un flacone ricaricabile con una miscela metà acqua e metà sapone naturale Dr Bronner. In un altro c’era un quarto di aceto di vino bianco e tre quarti di acqua. Avevo un contenitore di Comet in polvere, una pietra pomice, uno spazzolino da denti, alcune spugnette abrasive verdi e spazzolini con il manico di due diverse misure. Per quella doccia, visibilmente ricoperta di residui di sapone e sudiciume, c’era un protocollo da seguire.
Per prima cosa, togliere tutti i flaconi di shampoo, le salviette, le spugne e sistemarli in bell’ordine fuori dallo sportello. Poi, spruzzare tutto l’interno del box doccia con quello che Classic Clean definiva il puliscitutto, fino a impregnarlo di detergente. Una volta sistemato il ripiano del lavandino e il water, dovevo riempire d’acqua una tanichetta per il latte tagliata a metà e sistemarla nella doccia. Mi servivano una spugna, una spazzola per strofinare, entrambi gli spray e qualche straccio. Spruzzavo di nuovo l’interno degli sportelli di vetro del box, spargevo la polvere Comet sulla spugna, e strofinavo il tutto, da sinistra a destra, da sopra a sotto.
Quindi risciacquavo con l’acqua mista ad aceto, asciugavo con uno straccio, ripassavo i punti ancora sporchi, e verificavo il risultato prima di dedicarmi al resto della doccia, che doveva essere strofinato allo stesso modo. Durante la mia prima visita mi ci volle un’intera ora per farla venire pulita, e avrei tanto voluto avere un “vero” puliscitutto. Classic Clean non si definiva un’impresa di pulizia “green”. Usavano prodotti naturali per tenere bassi i costi e contavano sull’olio di gomito delle donne per ottenere il risultato. Anche se non ne avevo mai parlato alla mia responsabile, avevo un problema di nervi alla spina dorsale che mi impediva di afferrare con la destra, la mia mano dominante, la spugna o la spazzola. Fin da bambina soffro di scoliosi, malattia che incurva la spina dorsale da un lato all’altro, ma di recente, per colpa del lavoro, la malattia mi schiacciava un nervo che arrivava proprio al braccio destro. Per strofinare la doccia dovevo stringere la destra a pugno, sistemare la spugna tra questo e la parete e poi premere con le nocche il più forte possibile. Per il piatto doccia, tenevo fermo il gomito, stringevo la mano a pugno e appoggiavo tutto il peso della parte superiore del corpo sulla mano destra, così da eliminare i residui di sapone e lo sporco senza farmi male. La mano sinistra interveniva ogni volta che la destra era troppo stanca, ma in quei primi mesi con giornate di lavoro lunghe sei ore, una volta arrivata a casa riuscivo a malapena a tenere in mano un piatto o a portare il sacchetto della spesa.
Le prime volte sforai con i tempi e Pam si arrabbiò moltissimo. Classic Clean non poteva far pagare di più il cliente e doveva accollarsi il mio compenso extra. Non era un granché, ma Pam si lamentava del carico finanziario, come se sforando di quindici minuti l’avessi ferita personalmente. Mi preoccupava metterci così tanto tempo, e non riuscivo a capacitarmi come un’intera casa, sia pure piccola, potesse essere ripulita in sole tre ore.
La Casa Porno si meritò il soprannome soltanto dopo alcune visite quando, entrando in camera da letto per cambiare le lenzuola, vidi un flacone di lubrificante intimo sul comodino, davanti a una sveglia digitale. Era illuminato dai vivaci numeri rossi, e lo osservai come fosse sul punto di saltarmi addosso. Avanzai lentamente fino all’angolo del letto per girarci al largo. Sotto, il cassetto del comodino era stato lasciato socchiuso, rivelando una copia di “Hustler”. A terra c’era un paio di calzini sporchi.
Feci un passo indietro, allungandomi per tirare indietro le coperte. Tolsi velocemente le lenzuola, usandole per raccogliere i calzini. Cacciai tutto in lavatrice. Misi le lenzuola pulite sul letto, esattamente come mi era stato insegnato, con angoli netti, diagonali sul fondo e il lenzuolo di sopra tirato fino in cima. Al momento di spolverare, decisi di lasciare il comodino per ultimo, per evitare il lubrificante. Non trovavo disdicevole masturbarsi guardando una rivista porno, ma non era accettabile lasciare tutto in bella vista, così che la donna delle pulizie lo trovasse.
Forse ha scordato che era mercoledì, pensai.
In seguito, mi resi conto che il lubrificante era soltanto il sintomo di una situazione ben più grave tra le mura della Casa Porno. Era come se la coppia che ci abitava conducesse vite separate. La moglie era un’infermiera e aveva orari variabili; lo sapevo grazie ai camici sistemati con cura su una sedia nella stanza sul retro. Non riuscivo a capire cosa facesse lui di mestiere. Immaginavo che fossero marito e moglie, ma sulle pareti non c’erano foto del matrimonio, solo ritratti di loro due con addosso maglioni uguali. La casa era un po’ buia, perché avevano scelto toni terragni, blu mare e verde cupo. Sul davanzale della finestra sopra il lavandino della cucina c’era un quadretto su un cavalletto con una scritta: STIAMO INSIEME SOLO PER IL GATTO.
Il cestino nel bagno della Casa Porno straripava di carta igienica, tamponi, assorbenti e gugliate di filo interdentale. L’armadietto dei medicinali, lasciato socchiuso, rivelava file di confezioni di antibiotici. A giudicare dai fazzoletti e dal moccio nella doccia, sembrava possibile che uno dei due soffrisse di sinusite cronica, proprio come me, come Mia, e probabilmente come buona parte di chi vive nel clima umido del Nordovest, dove nelle case, nei seminterrati, sui davanzali compaiono, dalla sera alla mattina, macchie di muffa nera.
In soggiorno, davanti al televisore e al caminetto, c’erano un divano e un paio di poltrone. All’infermiera piaceva l’angolo del divano, accanto alla lampada, dove spesso si piazzava il gatto. Evidentemente il marito stava in poltrona dove, in una cesta, vecchi numeri di “Hustler” erano nascosti tra pile di riviste di viaggi. Per circa un mese, il tavolo da pranzo si coprì di brochure di resort con formula tutto compreso, ma non credo che siano mai partiti. Di solito i clienti disdicevano il servizio quando andavano in vacanza.
Nella stanza sul retro, accanto alla lavanderia, c’era un letto matrimoniale rifatto alla perfezione, e sulla sedia accanto dei camici da infermiera piegati. Dietro, una nicchia piena di romanzetti, del genere che si trova negli empori con in copertina illustrazioni di uomini muscolosi e a torso nudo abbracciati a donne dai lunghi capelli. Chissà perché lei dormiva lì. C’erano un letto matrimoniale e un cassettone stretto, con sopra un’urna e attorno a questa un collare da cane. Forse lui russava. Oppure lei doveva alzarsi e andare a letto a orari irregolari.
Ma le riviste porno e i romanzetti mi fecero capire. Li immaginavo a dormire in letti separati, in stanze separate, ciascuno perso in fantasie su un partner diverso, e forse una vita diversa.
Io e Travis cominciavamo ad assomigliare a qualcosa del genere. Non eravamo arrivati a quel punto, ma lui tornava dal lavoro, mangiava quello che avevo preparato, poi si sedeva sul divano a guardare la tv per quattro ore prima di spostarsi nel nostro letto e guardare un’altra tv, quella piccolina, con il timer di spegnimento. Di solito lo puntava a sessanta minuti.
Quando ero andata a vivere con lui, Travis aveva un televisore grande come un materasso a una piazza e mezza inserito in un sistema audio-video che aveva assemblato da solo. Si allungava per ottenere l’angolatura giusta, assicurando l’apparecchio alla parete con delle grosse catene. La prima volta che ero entrata in casa ero rimasta a fissarlo, stupefatta. Da allora era passato a uno schermo piatto con un sistema audio-video acquistato in negozio. Ma gli schermi erano più o meno della stessa dimensione. Mi faceva schiumare di rabbia esattamente allo stesso modo.
Per il mio trentunesimo compleanno Travis mi regalò un laptop. La sera, dopo che Mia era andata a letto, io mi sedevo al tavolo della cucina, a scrivere un diario che avevo cominciato a tenere online, dato che la mano destra era così debole da impedirmi di reggere la penna. A volte studiavo, o chiacchieravo con gli amici online, volgendo la schiena a Travis che guardava la tv.