9. Pulizie da trasloco
Essere madre, per me, spesso significava imparare a dire arrivederci sperando che mia figlia capisse che doveva aver fiducia nel mio ritorno. Buona parte di quanto ho imparato dai terapeuti che hanno seguito me e Mia per tutto il difficile periodo con Jamie verteva sul fatto che, per far sì che i bambini sviluppino l’intelligenza emotiva e imparino a essere resilienti, è importante, se non addirittura vitale, che abbiano una persona di riferimento stabile, un adulto che c’è di sicuro, se dice che ci sarà. Non importa quante altre figure entrino ed escano dalla loro vita, fin quando resta questa figura stabile e sicura. Nel corso dei primi anni di Mia, quando iniziò tutto quell’andare avanti e indietro tra l’asilo e la casa di suo padre nel weekend, divenni rigidissima nel pretendere che i nostri orari, la nostra vita domestica, seguissero uno schema prevedibile, immutabile. Alla fine di ogni bagnetto cominciava una serie di riti: stendere un asciugamano sul sedile del water, metterci sopra Mia in piedi, asciugarle il corpo e la testa con un’altra salvietta, farle il solletico sempre allo stesso modo. Dopo ogni favola della buonanotte, baciarla, dire “Buonanotte, ti voglio bene, ci vediamo domattina”, era un modo per esprimere la nostra routine intima. Come madre, fu il mio dono più grande a Mia, perché mi richiedeva moltissima fatica esserci sempre quando avevo detto che ci sarei stata e mai, mai mancare alla promessa. Anche se tutto il resto nella sua vita era caotico, speravo che almeno sapesse che qualsiasi fosse il luogo che chiamavamo casa, ci sarebbero stati dei pancake preparati sempre allo stesso modo.
Dire arrivederci, come imparare a condividere mia figlia con l’uomo che ci aveva trattato così orribilmente, era una vera impresa. Le scene tremende al momento di lasciarla all’asilo cominciavano non appena parcheggiavamo davanti all’edificio. Una volta arrivate nell’aula, un’educatrice doveva letteralmente strapparmi di dosso Mia. Lei strillava, scalciava, e mi chiamava disperata, mentre io, bruscamente, mi giravo e mi allontanavo dicendo: “Arrivederci, tesoro. Ti voglio bene. Ci vediamo dopo la merenda”. A volte le educatrici me la prendevano dalle braccia e la tenevano stretta per un po’. Ma di solito la strappavano da me e la mettevano a terra, e io dovevo guardare Mia che piangeva attaccata alla finestra, tempestando di pugni il vetro.
Portare Mia in un asilo integrato con una residenza per anziani mi era sembrata una buona idea, dato che in pratica non aveva mai visto i nonni. Ma due volte al giorno attraversavo l’atrio, osservando il personale che metteva in fila gli anziani per distribuire i farmaci e si lamentava, davanti a loro, per il cattivo odore che emanavano. Era come assistere, in prima persona, alla fine della vita e, in contrasto con la Casa Triste, forse era uno dei modi peggiori per andarsene.
La Casa Triste non si sporcava mai. A volte dovevo strofinare via qualche gocciolina di sangue dal pavimento del bagno, e il water era un disastro. Per il resto, tutto era coperto da un sottile velo di polvere. Il vecchio signore ci stava per la maggior parte del tempo, quando non era all’ospedale, ma sembrava che non la sfruttasse molto.
A giudicare dalle fotografie, la moglie era morta alla fine degli anni ottanta. All’inizio avevo presunto che se ne fosse andata di recente, ma non riuscii a trovare nessuna sua immagine che sembrasse risalire agli ultimi anni. I ninnoli che aveva collezionato erano ancora sui davanzali: bamboline e piccoli nidi, allineati in bell’ordine. Sulla lavagna di sughero sopra la scrivania, in cucina, sventolavano i foglietti delle cose da fare, scritti da lei. In bagno c’erano due lavabi, e accanto al suo c’era ancora un asciugacapelli con la spina infilata, appeso a un gancio, che io spolveravo. Accanto a quello di lui c’era una tazza con un pettine e le sue medicine, che cambiavano di continuo. Controllavo le etichette, chiedendomi di che malattia soffrisse. Probabilmente di crepacuore.
Su una mensola del bagno, proprio alle spalle del punto in cui lui si metteva per guardarsi allo specchio, c’erano le ceneri della moglie e del figlio. In una foto, il figlio era in cima a una montagna, e faceva il segno della pace. Indossava una bandana verde e aveva la barba lunga. Nella cornice c’era una poesia famosa:
Non restare davanti alla mia tomba a piangere.
Io non sono lì. Io non dormo.
Sotto, una accanto all’altra, c’erano due piccole scatole: una di terracotta rosa con delle rose in rilievo, l’altra di peltro scuro. La foto della moglie era appesa dietro a quella rosa. La aprii per vedere cosa ci fosse dentro. C’erano le ceneri, targhette e documenti dell’impresa funebre.
L’uomo mangiava dolci e panini comprati in gastronomia, beveva caffè con molto liquore Kahlúa. Probabilmente era intorno alla settantina, gli piaceva ancora giocare a golf e andare a giocare d’azzardo nei casinò delle riserve indiane. Nel garage marcivano un bel motoscafo e una CJ Jeep. Sulla parete del soggiorno c’era una foto della moglie davanti alla Jeep, sorridente, con gli occhiali da sole. L’uomo fumava Camel senza filtro in camera da letto, in piedi davanti alla portafinestra scorrevole, oppure nel portico, quando il tempo lo permetteva. Il figlio minore, che viveva a un paio d’ore da lì, non si faceva vedere spesso. L’uomo era solo, stava lentamente spegnendosi in un reliquiario che non era mutato dalla scomparsa della moglie. Aveva fatto tutto per bene: un buon lavoro, una bellissima casa, aveva sposato la donna che amava e con lei aveva viaggiato. E nonostante tutto ciò, stava morendo da solo.
Dopo aver pulito per la prima volta la Casa Triste, la sera, a casa, non riuscivo a smettere di pensarci. Era stato un lavoro meccanico, qualcosa giusto per pagare i conti, ma ora avevo la sensazione che avesse lasciato un’inattesa impronta nella mia vita, vedere tanta vulnerabilità mi faceva sentire, in un certo senso, meno vulnerabile. Anche se non avevo mai incontrato i miei clienti, o parlato con loro, anche se molti non sapevano della mia esistenza, cominciai a considerarli come membri della famiglia o amici per cui preoccuparmi, sui quali mi facevo delle domande, ai quali tenevo, a distanza. Chissà cosa facevano, la sera. Dove si mettevano seduti. Che cosa avevano mangiato o guardato alla tv, il giorno prima. Come stavano, giorno per giorno. La mia vita era ormai così solitaria. Queste persone mi davano qualcosa a cui pensare, a loro auguravo ogni bene. Mi preoccupavo di qualcuno che non ero io.
Mia continuava a passare da una classe all’altra dell’asilo per l’alto tasso di turnover tra le educatrici, che si sommava al continuo variare del numero dei bambini iscritti. Per un paio di settimane, ogni volta che vedevo la maestra del mattino, mi accorgevo che si affrettava ad asciugarsi le lacrime prima di prendere la mia bambina, la quale a sua volta scalciava e urlava tendendo le braccia verso di me. Una volta la sentii dire a un genitore quanto fosse dura lavorare in un posto che la pagava così poco. “Sono andata al college per questo,” diceva, con rabbia. Detestavo lasciare Mia con lei, detestavo non potermi permettere un asilo che pagasse agli insegnanti un salario decente.
Un mattino, dopo un addio particolarmente difficile, salii in macchina e piansi, concedendomi di dare alla tristezza almeno un paio di minuti della cura, dell’attenzione, dell’affetto che meritava. Avrei dovuto lasciare Mia un po’ prima del solito, ma uscire di casa era stata una lotta ed eravamo in ritardo. La mia frustrazione era evidente, e me n’ero andata senza mandarle un bacio di saluto con la mano. Ero dilaniata da pensieri angosciosi sulla mia mortalità. E se fossi morta in un incidente d’auto e l’ultimo ricordo di me fosse stato io che mi allontanavo, lasciandola a piangere e a urlare con degli estranei?
Quella mattina quei pensieri erano più insistenti del solito. Sapevo che avrei passato i due giorni seguenti a pulire una casa in una zona isolata di Camano Island dove non c’era copertura per il cellulare. Non mi piaceva stare lontano da Mia, non mi piaceva lasciarla in un asilo che non sembrava un ambiente caldo e accogliente, e soprattutto detestavo l’idea che, se fosse accaduto qualcosa durante il giorno, nessuno sarebbe stato in grado di contattarmi. Ma il lavoro era troppo buono per rifiutarlo.
“È una pulizia da trasloco,” mi aveva spigato Lonnie al telefono. “Non ne facciamo più troppo spesso.”
In generale, Classic Clean forniva al potenziale cliente una stima del costo del servizio. Andavano dal proprietario della casa, valutavano il livello di impegno richiesto, e calcolavano con la maggior precisione possibile la quantità di ore (e a volte di personale) necessaria. I clienti regolari, che richiedevano pulizie settimanali, bisettimanali o mensili, avevano già ore e costi stabiliti, ma per la pulizia di un edificio o in occasione di un trasloco di solito c’era un budget da tenere in considerazione.
Il mio programma di lavoro prevedeva circa cinque o sei case a rotazione, ma erano tutte pulizie bimensili o anche mensili, il che significava che il mio salario arrivava a circa venti ore totali ogni due settimane. Non potevo cercare un altro lavoro perché il mio orario variava di settimana in settimana, quindi mi ritrovavo nella difficile situazione di aspettare che si rendessero disponibili altre ore, qualsiasi fosse l’incarico. Quando Lonnie mi chiese se fossi interessata a una pulizia da trasloco, accettai con entusiasmo, arrivando a ringraziarla per averlo proposto a me e non ad altre colleghe.
Il lavoro consisteva nel pulire una roulotte residenziale di circa 27 metri per 6, parcheggiata in fondo alla stessa strada della casa di un altro cliente, quella che avevo cominciato a definire la Casa dello Chef perché c’era una gigantesca cucina a gas. Il proprietario, nelle rare occasioni in cui l’avevo trovato a casa, si metteva in cucina accanto ai fornelli, occupando tutto lo spazio tra questi e l’isola centrale. “Ho dovuto chiedere in banca un prestito personale per comprarli,” disse un giorno, facendo scorrere delicatamente la mano lungo il bordo. “Probabilmente valgono almeno il doppio della sua auto!” Pur non dubitando della veridicità dell’affermazione, cercai di non guardarlo male, facendogli notare che guidavo una vecchia station wagon Subaru, e invece gli chiesi se aveva istruzioni speciali per pulirli. Nelle due settimane tra un servizio e l’altro, l’intera superficie della zona cottura si copriva di grasso, grazie alla propensione a usare la friggitrice sui ripiani e all’infinità di bottiglie di olio d’oliva aromatizzato. Probabilmente usava la friggitrice parecchie volte alla settimana, perché tutta la casa era impregnata di puzza oleosa. “Sì,” disse indicando i fornelli per maggior enfasi. “Non usi la parte ruvida delle spugnette!” Così non avrei lasciato graffi, limitandomi a utilizzare cinque o sei strofinacci.
Quando parcheggiai sul vialetto della gigantesca roulotte per il lavoro da trasloco, ero già in ritardo di dieci minuti. Pam mi aspettava con la collega con la quale sarei rimasta per il resto del giorno. Corsi da loro. “Scusate il ritardo,” mi affrettai a dire, cercando di sembrare sincera. “Stamattina Mia non mi lasciava più andare.”
Pam sbuffò un poco, borbottando qualcosa a proposito del fatto che i bambini devono capire e rispettare la necessità dei genitori di lavorare. Non le chiesi di ripeterlo o di chiarire il suo pensiero, immaginando che fosse già stata nei miei panni, che sapesse cosa significava non vedere in pratica i suoi figli a causa del lavoro, e che ne fosse uscita bene. Pam mi indicò con il capo l’altra donna, una bionda ben piantata dall’aria burbera con i capelli legati con l’elastico, che sembrava più annoiata che seccata per il mio ritardo. “Ecco Sheila,” disse Pam. “Questa settimana ci lascia.” Io e Sheila ci guardammo, con un cenno del capo e un mezzo sorriso. Stavamo già scaricando il furgoncino, un vasto assortimento di spray insoliti, che non si usavano per le pulizie settimanali. Erano detergenti professionali per eliminare muffa, grasso e macchie. Mi passò carrelli di materiale e sacchetti di stracci, aspettando con impazienza che passassi da una mano all’altra il caffè che tenevo in un vasetto riciclato.
“Prima che entriamo, vi devo spiegare alcune cose su questa casa,” disse Pam rivolta a noi, in piedi davanti alla roulotte. Chiese a Sheila e a me di avvicinarci. Sheila guardò Pam, ma io continuavo a guardare lei, chiedendomi perché se ne andasse, ricacciando in gola l’invidia che mi divorava.
Pam si guardò alle spalle, verso un campo coperto di erba alta. Fece un gesto in quella direzione e disse: “Laggiù c’è la casa della madre del Bandito a piediscalzi”.
All’epoca il Bandito a piediscalzi era molto popolare. Il suo vero nome, Colton Harris-Moore, veniva usato di rado, ma sapevo che eravamo nati entrambi nella contea di Skagit. Il Bandito a piediscalzi aveva soltanto diciannove anni, e di recente aveva gettato nello scompiglio la zona, penetrando nelle case di lusso mentre i proprietari dormivano, e una volta aveva lasciato le impronte dei suoi piedi nudi sul pavimento polveroso di un garage. La settimana prima si era introdotto nella Casa dello Chef per utilizzare il computer e procurarsi i dati della carta di credito del mio cliente, con i quali aveva ordinato spray anti-orso e visori notturni e cercato un piccolo aereo incustodito. Me lo immaginavo seduto alla scrivania che spolveravo ogni due settimane, sapendo quanto sarebbe stato facile trovare il numero della carta di credito tra le pile disordinate di documenti. Secondo la stampa locale era armato, pericoloso e si diceva che probabilmente si nascondeva in casa della madre.
Anche se dubitavo che fosse là, tutta la faccenda sembrava il set di una perfetta storia del terrore. Dopotutto, eravamo in una roulotte abbandonata in fondo a una lunga sterrata nei boschi. Le pulizie da trasloco comunque hanno qualcosa di inquietante, come se si stesse ripulendo una scena del crimine, cancellando ogni traccia di interazione umana.
Mentre ci avvicinavamo alla porta d’ingresso, Pam non smetteva di prepararci a quello che avremmo trovato. Spiegò che la casa apparteneva a una coppia che aveva divorziato. La moglie se n’era andata, mentre il marito era rimasto con una coppia di coinquilini. “Il proprietario ha un budget estremamente limitato, quindi dobbiamo lavorare con la massima efficienza,” continuò Pam, voltandosi a guardarci prima di aprire la porta. “Oggi resterò qui per un paio d’ore per aiutarvi a cominciare e tu, Stephanie, tornerai domani per terminare.”
Non ero sicura di cosa significasse “con la massima efficienza”. Già non avevamo diritto alle pause per il pranzo, perché si presumeva che facessimo una “pausa” trasferendoci da una casa all’altra, ingozzandoci al volo di mele e panini al burro di arachidi. Ma quel giorno non ci sarebbero stati spostamenti. Sarei rimasta in quell’enorme roulotte da sei a otto ore per i due giorni seguenti, in mezzo ai boschi, senza copertura per il cellulare, senza poter chiamare nessuno o essere chiamata in caso di un’emergenza con Mia.
“Assicuratevi di essere sempre idratate,” disse Pam, trafficando con la serratura. Posò il secchio che aveva riempito con altri detergenti e rotoli di carta. “E fate delle brevi soste tutte le volte che vi serve.”
Restai di stucco. Per la prima volta sentivo che il nostro orario, dove si contava ogni minuto, poteva prevedere delle pause. Forse le pulizie da trasloco implicavano brevi intervalli, non previsti dalle pulizie regolari. Fino a quel momento, avevo sempre creduto che non ci fosse permesso sederci un attimo.
La maggior parte delle case di cui mi ero occupata fino a quel momento erano di persone che potevano permettersi di mantenerle, ed era raro che io fossi la loro prima donna delle pulizie. Ma le pulizie da trasloco sono infide. In casa non vive nessuno. Non c’è da spolverare qua e là tavoli, libri e gingilli sulle mensole, quindi a prima vista sembra un lavoro facile. Invece sono le più lunghe, le più dure, le più sudice. Molto spesso, il proprietario ha deciso di vendere la casa, dopo averla affittata per anni senza che sia mai stata pulita con regolarità. Una pellicola di unto polveroso ricopre come colla la cucina. I pavimenti attorno ai water sono macchiati di giallo; i peli sono incistati in ogni fessura. Ogni volta che pulisci una superficie, emerge il colore originario, facendo sembrare ancora più sporche le altre superfici sbiadite dall’uso.
Entrando nella roulotte, per prima cosa notai le mattonelle annerite della soglia. Sul tappeto c’era un’evidente traccia scura che conduceva al soggiorno. Arrivate alla sala da pranzo, alzammo lo sguardo sul lampadario, appeso poco più in alto delle nostre teste, drappeggiato di ragnatele polverose.
“Io faccio il bagno degli ospiti,” si offrì Pam, guadagnandosi un po’ della mia simpatia. “È messo piuttosto male.” Si portò le mani sui fianchi, scrutando le ragnatele. “Sheila,” disse senza voltarsi alla donna, impegnata a ispezionare l’angolo delle tapparelle della sala da pranzo, contorte e nere di sporcizia. “Tu puoi spolverare. E occupati anche di quelle tapparelle.” Pam mi guardò, tirò un bel respiro e disse: “Voglio che tu faccia la cucina”.
Seguii Pam fino alla stanza accanto, sbirciando dentro al frigorifero che, durante la prima ispezione, lei aveva staccato dalla corrente e lasciato aperto. Fece una smorfia. Sarebbe stata la prima e ultima volta che la vedevo reagire al lerciume: di solito manteneva un atteggiamento positivo, allegro, anche quando ci rimproverava. “Dovrai togliere tutti i cassetti e metterli a bagno,” disse, voltandosi verso di me, ma tenendo sempre lo sguardo fisso sull’interno del frigo. Mi avvicinai per guardare, restandole alle spalle. “Togli tutti i ripiani di vetro e mettili a bagno, fai del tuo meglio.” Si interruppe per aprire con le dita la gomma a fisarmonica sullo sportello. “Userei uno spazzolino da denti sulla guarnizione dello sportello. Accertati di togliere il cibo incrostato nelle fessure. Fammi sapere se hai bisogno d’aiuto,” concluse, dandomi un colpetto d’incoraggiamento sulla spalla e sorridendo. “Quel liquido ormai secco uscito dalle confezioni di carne può essere difficile da eliminare.”
Continuammo a ispezionare la piccola cucina, con Pam che indicava lo spesso strato di unto tra il marrone e il giallastro sotto la cappa dei fornelli. Restammo a fissare le macchie, inebetite, a bocca aperta. Sul soffitto c’erano delle chiazze di qualcosa che sembrava chili. Anche le manopole dei fornelli erano coperte di frammenti incrostati di cibo annerito. Ogni centimetro quadrato di quella cucina, persino dentro agli armadietti, doveva essere strofinato e ripulito.
Arrivata al lavello, mi risultò difficile riuscire a scorgere dalla finestra l’angolo della casa natale del Bandito a piediscalzi. Non riuscivo a smettere di guardare, aspettandomi di veder spuntare la sua testa dall’erba alta. Mi sentivo protettiva nei confronti della mia adorata Subaru, l’auto dalla quale dipendevo per andare da un lavoro all’altro. Immaginavo il bandito che me ne chiedeva le chiavi puntandomi addosso una pistola, per poi filarsela con lei.
Per pulire il soffitto dovevo mettermi in piedi sui ripiani della cucina. Pam venne a controllare i miei progressi e mi osservò con aria preoccupata. Mi chiese di farle sapere quando avessi finito, e mi avrebbe mostrato che cosa andava fatto nel bagno padronale. Lei stava ancora lavorando in quello degli ospiti. La sentivo tossire per le esalazioni della candeggina, anche se si era messa una mascherina usa e getta. Non che le mascherine servissero a molto contro i fumi tossici. Pam la metteva per darci l’esempio e ricordarci di fare lo stesso. In caso di incidente sul lavoro, per prima cosa ci avrebbero chiesto se indossavamo l’equipaggiamento di sicurezza fornito dalla ditta.
Quando entrò in cucina, Pam mi sorprese a far riposare le braccia. Ero rimasta in piedi sugli armadietti per quasi trenta minuti, cercando di eliminare le macchie dal soffitto. Senza successo.
Mi fece cenno di seguirla nella metà della casa che ancora non avevo visto. Nella camera padronale c’era ancora tutto il mobilio, e il guardaroba era stato svuotato solo in parte. Una spessa coperta di lana con una stampa a lupi ricopriva quello che sembrava un letto ad acqua. Non potei fare a meno di sogghignare, immaginando l’uomo (con una cucina dalla quale, per due ore, avevo scrostato cibo ormai secco) che invitava delle donne in quella stanza. Chissà che genere di persona sarebbe stata disposta a raggiungerlo sulle onde della sua pelosa coperta lupina.
Erano queste visualizzazioni o le ipotesi che formulavo sui clienti che mi permettevano di superare giorni fatti di timori personali, stanchezza e solitudine. Gli immaginari occupanti delle case erano tutti attorno a me. Li vedevo seduti sul letto all’alba di un giorno di lavoro, mentre usavano una pezzuola nella doccia, la stessa che ora era appallottolata sul pavimento e che maneggiavo con cautela, sia pure con i guanti. Lasciavano tracce di se stessi e delle loro azioni. Li vedevo davanti alla finestra della cucina, intenti a bere il caffè mattutino, e intanto pulivo il cerchio lasciato da quella tazza.
A sedici anni avevo lavorato in un negozio di animali; pulivo le gabbie di topi, topolini, gerbilli, ricci, furetti e uccelli. La proprietaria parlava con un tono grondante aggressività passiva, così stridulo da farmi rabbrividire. Una mattina, mi presentai al lavoro già ridotta ai minimi termini al pensiero di tutto quello che dovevo fare; già sapevo che non sarei riuscita a sopportare un altro giorno a mettere le mani nelle gabbie degli uccelli, con quelle ali agitate freneticamente che mi facevano venire una gran voglia di filarmela.
“Questo lavoro è stroppo stressante,” dissi, dopo essere entrata con decisione nell’ufficio della proprietaria. “Devo andarmene.”
“Bene,” replicò lei con sarcasmo da dietro alla scrivania, che stava accanto alle gabbie dei roditori maschi da riproduzione. “Meglio che ti faccia uscire di qui prima che ti stressi troppo!”
Ci vollero due settimane prima che mi arrivasse, per posta, l’ultimo stipendio. Da allora non mi sono mai più licenziata, ma il bagno padronale della roulotte per poco non mi fece cambiare idea.
Il secondo giorno, tornai alla roulotte da sola. Parcheggiai sul vialetto, feci scattare la serratura degli sportelli dell’auto, poi mi chiusi a chiave in casa, evitando di guardare fuori dalle finestre, per paura di vedere avvicinarsi il Bandito a piediscalzi. Quel mattino, avevo lasciato Mia all’asilo dopo averle dato una dose di Tylenol per una leggera febbre. La giornata precedente aveva confermato che nella roulotte non c’era assolutamente campo per il cellulare. Se Mia fosse peggiorata, non sarei stata raggiungibile, punto e basta. Mi sentivo avvolta dal disagio di essere lì da sola, rinchiusa nel camper, senza telefono, e non c’era modo di scrollarmelo di dosso. Era aggravato dallo stress di sparire in una specie di buco nero per tutta la giornata di lavoro. Come genitore desideravo essere, quantomeno, raggiungibile in caso di bisogno.
Il giorno prima avevamo terminato buona parte della casa, ma dovevo riesaminare il lavoro di Sheila. I cassetti del frigorifero erano ancora a bagno nel lavello. Dovevo strofinare il pavimento di linoleum della cucina, sentiero liso e scuro che collegava il lavello, i fornelli e il frigorifero, formando un triangolo. Ma la maggior parte del tempo sarebbe stata dedicata al bagno padronale.
Pam mi aveva detto di prendermela con calma, di spruzzare i detergenti e poi lasciarli agire prima di strofinare. Mi aveva suggerito di occuparmi di piccole zone del bagno, per poi passare ad altri punti della casa, e tornare a pulire un’altra sezione del bagno. Il mio metodo da sinistra a destra, dall’alto al basso non sembrava essere una strategia sufficiente per il disastro che avevo davanti. Muffa nera copriva buona parte del soffitto e della parte superiore del box doccia. Consumai due confezioni di un prodotto specifico antimuffa, indossando occhialini di protezione e mascherina per non respirarlo.
All’interno del box, gli angoli e le fessure erano fioriti di muffa. Il detergente scendeva a rivoli ai miei piedi, fiumi marroni e neri di sudiciume e spore. Pulivo benissimo alcune parti per poi pentirmene, perché significava dover strofinare altrettanto forte ogni altro centimetro. Invece di tenere sul viso la mascherina, mi coprivo il naso con il bordo della maglietta, ma fui costretta a tornare più volte in quella triste stanza da letto per prendere una boccata d’aria.
Quando mi inginocchiai accanto al water e vidi da vicino in che condizioni era, mi rialzai di scatto e uscii. Ne avevo avuto abbastanza. Restai seduta nel portico, sotto una pioggerella fine, per almeno quindici minuti. Avrei quasi avuto voglia di una sigaretta, o almeno di un pranzo come si deve, o di qualcosa da bere che non fosse acqua. Il caffè e il panino con burro di arachidi che mi ero portata da casa erano ormai finiti da tempo.
Lì nel portico, provai una serie di emozioni diverse. C’era la rabbia, ovvio, di essere pagata poco più del salario minimo per scrostare a mano la merda dai water. Una paga tripla non sarebbe comunque stata sufficiente per fare quello che facevo. Nel bagno padronale della roulotte c’erano pozze di piscio cristallizzato tutto attorno alla base del water. La parte sotto il sedile, il bordo e la parte superiore della tazza erano punteggiati di marrone, presumibilmente macchie di feci, e di segni gialli e arancioni che sembravano vomito. Indossavo un paio di guanti gialli da cucina ed ero armata di Comet. Ma l’uomo che aveva occupato quel bagno aveva acquistato quelle pastiglie azzurre che si attaccano alla parete interna del water, forse cercando di ottenere almeno l’impressione di una toilette pulita. Le pastiglie avevano lasciato delle tracce blu nel punto in cui arrivava l’acqua stagnante e sotto il bordo interno, da dove arrivava lo scarico. Dovetti infilare dentro il braccio e strofinare quei segni scuri con la pietra pomice, e strofinare ancora, fino a farli sparire.
“Non mi pagano abbastanza per questo,” borbottai. E poi lo urlai, rivolta agli alberi. Seduta da sola nel portico, con la pioggia che gocciolava dal tetto, la rabbia che c’era nella mia voce sorprese persino me. Ormai ero diventata stoica, dopo aver sopportato gli attacchi di Jamie, che giungevano senza preavviso, e mi lasciavano con le braccia strette al petto, i polmoni collassati, il cuore stretto in una morsa, come se un gigante mi tenesse immobilizzata con le sue braccia robuste. Il terreno mi era già mancato sotto i piedi molte volte, e avanzavo sempre con cautela, sapendo che sarebbe bastato poco per farmi ripiombare al punto di partenza, in un rifugio per senzatetto. Dovevo mantenere la calma. Soprattutto, sebbene ci fossero cose sulle quali non avevo controllo, dovevo restare calma. Affidabile. Dovevo lavorare e fare ciò che andava fatto. “Non devi lasciarti andare!” continuavo a ripetermi. Divenne il mantra che recitavo tra me e me, talvolta anche a voce alta.
La mia Subaru rosso scuro scintillava sotto la pioggia. D’un tratto le nuvole si aprirono, e il sole si riflesse sulla carrozzeria. Mai, prima d’ora, avevo avuto così tanta voglia di mollare un lavoro. Era come se quel water, l’uomo che l’aveva lasciato in quelle condizioni, la ditta che mi pagava il minimo salariale, mi mancassero di rispetto. Guardai la mia Subaru, immaginando la fuga.
Non avevo scelta. Ormai io e Travis quasi non ci parlavamo più. Era arrabbiato con me, perché nei weekend che Mia passava dal suo papà dormivo fino a tardi invece di alzarmi alle sette di mattina per aiutarlo alla fattoria. Non me ne importava più, e lui lo sapeva. Da mesi convivevamo immersi in quella rabbia. Non avevo assolutamente i mezzi per permettermi un alloggio. Così tornai a pulire il water. Mollare il lavoro poteva significare mesi di disperazione senza un reddito. L’assegno di mantenimento per Mia copriva appena il costo della benzina: i 275 dollari mensili se ne andavano per i tragitti avanti e indietro per permettere a Mia di vedere il padre. Perdere il lavoro avrebbe significato indebitami con Travis. E perdere il rispetto di me stessa.
Strinsi i pugni. Mi alzai. Tornai in casa, serrando la mascella. Quello non era il mio destino. Quella non era la mia fine. Ero ben decisa a dimostrare di avere ragione.
In seguito la roulotte alimentò i miei incubi. Nel sogno, stavo tornando verso casa, e il telefonino si metteva a ronzare, annunciando un messaggio vocale. Oppure qualcuno chiamava da un numero sconosciuto. Rispondevo, e la donna dall’altra parte del filo parlava così affannosamente che non riuscivo a capirla, fino a quando non diceva “ospedale”. L’immagine di Mia, stesa a letto con un lato dei suoi capelli a caschetto, scuri e ricci, impastati di sangue, mi balenava nella mente, prima che la donna si mettesse a chiedermi dove fossi stata e perché non ci fosse un elenco di numeri da contattare in caso di emergenza. Ci sono soltanto io! ripetevo nel sogno. Ci sono soltanto io.
Ma in qualche modo la roulotte si ripresentò. Un paio di giorni dopo quelle dodici ore di pulizie, Lonnie mi chiamò. Non era allegra e positiva come al solito. Disse che il cliente non era contento del lavoro. Accennò a cose come polvere sulle lampadine, o tapparelle, o macchioline sugli specchi, o roba del genere. “Devi tornare là a rimediare,” disse piano. “E come scritto sul tuo contratto d’assunzione,” si interruppe, e prese un bel respiro, “per questo non sarai pagata.”
Il cuore cominciò a battere all’impazzata, martellandomi in petto con tonfi cupi. “Non lo faccio, assolutamente no,” risposi, incespicando nelle parole. Il tragitto di sola andata era di quaranta minuti, benzina che non mi sarebbe stata rimborsata. Dire no a Lonnie significava rischiare il posto di lavoro, ma se tornavo indietro rischiavo di mollare tutto. “Non credo di poterci tornare. Quel water mi ha fatto venir voglia di licenziarmi.”
Lonnie sospirò. Sapeva che avevo disperato bisogno di lavorare, e che davvero non potevo permettermi di sprecare benzina. “Mi inventerò qualcosa,” disse, e riagganciò. Non ho mai scoperto se ha fatto tornare qualcuno al posto mio. Forse chiese a Sheila di farlo, ma probabilmente fu Pam a completare l’opera. Se lo fece, non me lo disse mai.