10. La Casa di Henry

Io e Lonnie eravamo sotto il portico di cemento: mi stava per presentare la casa del mio nuovo cliente. Avevamo bussato alla porta di legno rossa e stavamo aspettando da almeno un minuto, ascoltando un coro di cani che abbaiavano, mentre qualcuno in casa si dava da fare per calmarli. L’uomo che spalancò la porta indossava un accappatoio, maglietta bianca, pantaloni della tuta blu e ciabatte.

“Siete qui!” disse con voce tonante. I cani, due esuberanti pastori australiani, agitavano le code tozze, saltando per l’eccitazione.

“Henry,” disse Lonnie. “Sono lieta di presentarti la nostra migliore addetta alle pulizie, Stephanie.”

“Bene, accomodatevi,” replicò lui, avvicinandosi per aiutarmi a portare dentro la mia attrezzatura. Lonnie sorrise e lo ringraziò, Henry chiuse la porta alle nostre spalle. Sistemò a terra il sacco di stracci bianchi piegati in quattro e disse: “Ora vi mostro come vanno fatte le cose”.

Henry aveva chiesto una nuova donna delle pulizie. Lonnie aveva tessuto le mie lodi, convincendolo che avrei fatto un lavoro migliore di chi mi aveva preceduto. Mi aveva detto di pulire la casa seguendo le sue precise indicazioni. Nell’ordine che lui voleva. Mai essere in ritardo. Mai sforare con l’orario. Fare sempre, sempre del mio meglio. Le pulizie avrebbero richiesto quattro ore un venerdì sì e uno no. “Preparati a sudare,” mi aveva avvertito Lonnie.

Ero già intimidita dalla fama di Henry. Quando infine lo conobbi, dopo che Lonnie mi aveva spiegato quanto fosse meticoloso, inconsapevolmente mi ritrassi. Era alto almeno una trentina di centimetri più di me. Schiena dritta, sicuro di sé, con una grossa pancia prominente.

Cominciammo dal salotto sul davanti, che Henry e la moglie usavano come ufficio. Ciascuno di loro aveva una grande scrivania di mogano, lucidissima. Quella di Henry era di fronte alla finestra, là dove la maggior parte della gente avrebbe messo un bel divano. Le mensole alle pareti erano piene di romanzi western, libri di viaggi e manuali per il computer. Sulla scrivania a L c’erano due monitor. Si erano trasferiti lì quando lui era andato in pensione dopo un non so quale lavoro tecnologico alle Hawaii. La superficie della sua scrivania era nascosta sotto pile di conti, macchine fotografiche e manuali. Per contrasto, quella della moglie era più piccola e ordinata: uno scanner, un laminatore, pile di articoli di giornali pinzati, con ricette e consigli su come tenere un album di ricordi, e foto dei loro cani e gatti.

Henry sarebbe rimasto in casa mentre io pulivo, e aveva bisogno che lo facessi in un determinato ordine per rispettare la sua routine quotidiana. Avrei pulito l’ufficio e la sala da pranzo mentre lui terminava di fare colazione e guardava il telegiornale. Quando iniziava Ok, il prezzo è giusto, sarei passata all’altro lato della casa, al bagno degli ospiti, ma fermandomi a pulire la lavanderia, per poi occuparmi del bagno padronale.

Nel bagno degli ospiti, per prima cosa dovevo sistemare i quattro tappetini fuori dalla porta, per pulirli in seguito. Prima avrei fatto il water, che stava di fronte a un grande box doccia con due soffioni, rivestito di sassi di fiume. Henry disse che lo avrebbe pulito personalmente. Dopo aver ripiegato gli asciugamani, dovevo strofinare la vasca angolare Jacuzzi che, a quanto pareva, non usavano mai. Preferivano la vasca d’acqua calda nel portico, spiegò Henry, accennando ai costumi da bagno appesi alla porta. Dopo la vasca, avrei lucidato lo specchio, così grande da costringermi a inginocchiarmi sul ripiano per arrivare in cima, e spolverato le lampade, il doppio lavabo e i ripiani ingombri di oggetti. Dalla parte della moglie c’erano numerosi cassetti e contenitori di plastica trasparente, con fori di diverse forme destinati a pennelli e altri aggeggi per il trucco dei quali ignoravo l’uso. Dalla parte di Henry c’erano contenitori multipli per medicinali, quelli a scomparti, ciascuno con su l’iniziale del giorno della settimana. Aveva parecchi spazzolini da denti, e tutto era imbrattato di dentifricio.

Prima di passare l’aspirapolvere sui tappetini, dovevo eliminare ogni macchia dalle pareti e passare lo straccio per terra. Rimettendo i tappetini in bagno, dovevo badare a non alterare le linee lasciate dall’aspirapolvere. Quindi era il turno di spolverare i numerosi scaffali nella cabina armadio prima di pulire la loro camera da letto, rinculando mentre passavo l’aspirapolvere.

Quel primo giorno ci fermammo in corridoio per ammirare una vetrinetta. Henry intagliava il legno per hobby, e interruppe il giro della casa per spiegare che la maggior parte dei pezzi era fatta da artisti con un talento molto superiore al suo. Metà del garage era adattato a falegnameria, aggiunse con un certo imbarazzo, ma ormai costruiva mobili solo di rado.

Durante l’ispezione io rimasi in silenzio, cercando di mandare a mente tutte quelle istruzioni, chiedendomi se Henry si sarebbe arrabbiato, nel caso in cui non le avessi seguite correttamente. In soggiorno c’era un televisore più grande della mia auto. Nel mobile che la sosteneva c’erano diversi apparecchi elettronici per riprodurre i DVD, o per i cavi, la corrente e il volume dei molti altoparlanti sistemati nella stanza. Avevo visto attrezzature del genere soltanto in negozio. Sull’altra parete c’era un caminetto, completo di mensola di mattoni e panca. Avrei dovuto spostare due pesanti poltrone di pelle sulle guide, e il tavolino in mezzo, facendo attenzione ai cinque telecomandi che c’erano sopra. Una volta passato l’aspirapolvere sul tappeto rosso, mi resi conto che, senza lo strato sottile di pelo di cane, la tinta virava al mattone. Dopo il soggiorno pulii la saletta della colazione, il frigorifero di acciaio inox, i ripiani di marmo e i pavimenti della cucina e, infine, il bagno di cortesia dell’ingresso.

Durante le mie prime pulizie, la voce di Henry mi faceva quasi paura. Lavoravo senza posa, fermandomi soltanto per maneggiare il mio iPod Shuffle o per dare un’occhiata all’orologio, accertandomi di seguire il programma stabilito. I primi due venerdì sforai l’orario, e Lonnie ne fu così preoccupata da chiamare Pam per discuterne, il che spinse immediatamente Pam a telefonarmi per sapere se ci fossero problemi. Ma dopo un po’, imparai dove si annidavano i peli, se certe macchie avessero bisogno solo di una veloce strofinata, di essere grattate o se fossero ormai indelebili. Tutto si sciolse in una serie di movimenti automatici, e passavo il tempo preoccupandomi di altre faccende che mi stavano capitando.

Quando, la mattina, arrivavo da Henry, chiacchieravamo sempre un po’. Quindi lui, senza fretta, armeggiava in cucina preparandosi la colazione, in genere due belle fette di pane con pomodori e avocado. In seguito, io pulivo il tavolo di legno su cui lui consumava la colazione, togliendo le briciole, e spostavo il vassoio girevole, pieno di sali diversi e salse piccanti, per strofinare lì sotto. Quando arrivavo a pulire lungo il corridoio, lui era già al lavoro alla scrivania, dove restava fin quando non me ne andavo.

Un venerdì mi chiese se potevo andare da loro un giorno in più, la settimana seguente.

“Purtroppo non posso,” riposi. “I venerdì in cui non vengo qui devo pulire un’altra casa.” Anche la proprietaria della Fattoria era un cliente nuovo e, mi resi conto, notevolmente simile a Henry, perché anche in quel caso aveva passato in pratica ogni addetta dell’impresa prima di arrivare a me. Entrambe le abitazioni richiedevano pulizie di quattro ore, faticose e a passo di corsa, con orrendi tappeti e molti animali domestici. Senza accorgermene rabbrividii pensando a quando dovevo passare l’aspirapolvere sulla passatoia blu scuro che copriva le scale.

“Oh,” disse Henry, guardando a terra.

“Però potrei venire questo fine settimana,” aggiunsi. “Cioè, se va bene per lei. Mia figlia va dal padre un weekend sì e uno no, e la lascio da lui quando ho finito qui.”

Henry si rialzò in tutta la sua statura e parve compiaciuto. “Fantastico, perché faccio una cena con amici!” disse. Mi fece cenno di seguirlo. Uscimmo dalla portafinestra scorrevole fino al patio dietro alla casa. “E voglio che questa griglia sia lucida.”

Annuii vedendo quel sudiciume, e notai la vasca idromassaggio con una bottiglia di champagne vuota in un angolo. Provavo un desiderio quasi doloroso di avere una possibilità, soltanto una possibilità di bere champagne in una vasca idromassaggio.

Tornata in casa, passai l’aspirapolvere nella sala da pranzo. Henry ci aveva messo un vecchio flipper e sul piccolo lavello del mobile bar c’era una mezza bottiglia di gin di marca. Mi sorpresi a immaginare come sarebbe stata la mia vita da pensionata, se mai ne avrei avuta una. Non avrei mai avuto una casa così grande da non riuscire a pulirla da sola, questo era certo. Mi sembrava un enorme spreco assumere qualcuno per passare l’aspirapolvere sulle stesse linee lasciate sul tappeto due settimane prima. Cercavo di seguire lo schema dell’ultima volta, immersa nei miei pensieri, con la musica a tutto volume nelle mie orecchie, quando sentii Henry battermi su una spalla. Sorpresa, armeggiai per spegnere l’apparecchio e mi tolsi in fretta gli auricolari.

“Le piace l’aragosta?” chiese.

Feci tanto d’occhi.

“Di solito il venerdì sera preparo una cena mari e monti,” continuò. “Compro un paio di aragoste al mercato.”

Annuii, chiedendomi perché mi avesse fatto smettere di lavorare, e mi sforzai di pensare se avessi mai visto qualcuno comprare aragoste vive in una pescheria.

“Quanti siete a cena, stasera?” chiese.

“Due.”

“Bene, gliene prendo un paio. Apprezzo molto che faccia del lavoro extra per la nostra cena.”

Balbettai un grazie. Non avevo mai incontrato un cliente così gentile, che mi trattava da essere umano. Non sapevo come comportarmi. Inoltre, in vita mia avevo mangiato un’intera aragosta solo una o due volte, e non avevo idea di come cucinarla. Mi sentivo già in colpa perché con molta probabilità avrei rovinato quel dono generoso con la mia più che modesta capacità culinaria.

Henry uscì qualche minuto dopo, portando con sé i cani. Era la prima volta che mi lasciava da sola in casa. Sorrisi, pensando alla fiducia che riponeva in me. Ero ormai abituata a sentirmi indegna di fiducia. Pensai alla padrona della Fattoria, che il mio primo giorno di lavoro era rimasta a casa, gironzolandomi attorno senza un motivo. Avevo la sensazione che cercasse di tentarmi lasciando i gioielli in giro per casa invece di riporli nei cassetti.

Quando misi la mano in tasca per prendere il cellulare, mi guardai attorno, anche se la casa era deserta e nessuno mi avrebbe visto. Feci il numero di Travis e quando rispose gli raccontai, tutta entusiasta, delle aragoste. Gli chiesi di tirare fuori dal freezer un paio di bistecche che avevo trovato in svendita. Qualcosa nel condividere con lui una buona notizia, un colpo di fortuna, mi faceva ben sperare per noi.

Ma lui non parve contento dell’aragosta o delle bistecche. Invece, disse con freddezza: “Hai controllato il liquido di trasmissione della tua auto?”.

“Sì, è da rabboccare,” risposi, avvilita. Distolsi lo sguardo dal dipinto di un faro appeso nel corridoio di Henry, fatto su una lastra di metallo, e lo abbassai sul mio piede, coperto dal calzino, che passavo avanti e indietro sul parquet lucido.

Forse il modo di Travis di esprimere l’amore per me era informarsi sulla mia auto, ma non mi sembrava così. La comunicazione con la mia famiglia era sporadica, e avevo bisogno di lui. “Ti amo,” gli dissi, alla fine della chiamata, ma lui non mi disse lo stesso.

Dopo aver riagganciato, presi a lavorare nel bagno di Henry, ancora scossa dalla delusione per la telefonata con Travis. Henry tornò a casa proprio mentre mi allungavo per cacciare uno straccio nel water e strofinarlo.

“Sa come cucinare questi cosi?” Il suo vocione riecheggiò sulle pareti, facendomi sobbalzare. Mi voltai, e lui mi fece cenno di seguirlo in lavanderia. Lì, sopra la lavatrice che avevo appena pulito, c’erano due delle aragoste più grosse che avessi mai visto. Erano di un rosso cupo. Erano vive. Ed erano mie.

Henry mi porse un foglio con le istruzioni per la cottura e un set di rompichele lucidissimi.

“Sa,” dissi, passando il pollice sulla superficie argentata delle pinze, “forse lei sta salvando la mia relazione.”

“Ma davvero?” chiese, guardandomi con un misto di interesse e divertimento.

“Già.” Mi strinsi nelle spalle, come se non avesse poi una grande importanza. “Stiamo litigando un sacco. Soldi, e roba del genere.”

“Beh,” commentò, incrociando le braccia, “mi spiace.” Mi guardò fisso, socchiudendo un po’ gli occhi, puntando un rompichele al mio naso. “Quando non è più divertente, non è più niente.”

Quelle parole mi ronzarono in testa per il resto della giornata. Io e Travis non avevamo la stessa idea di divertimento. A lui piaceva correre in pista sui go-kart mentre a me piaceva bere birra artigianale conversando di politica e libri. Avevamo provato a scendere a compromessi. Spesso se ne stava seduto fuori casa con me a bere una birra ammirando il grande orto che avevamo ricavato in un angolo del cortile. E tra noi, così diversi, c’era Mia, che saltava, allegra, abbracciandoci entrambi. In quei momenti ci sentivamo come una vera famiglia e io facevo di tutto per provare lo stesso amore e la stessa gioia che provava lei. Ma sapevo che non avrei mai capito la mancanza di desiderio di Travis di girare il mondo, o di interrogarsi, o di imparare. Eravamo giunti al risentimento, incolpandoci a vicenda per le nostre differenze.

Per amore di Mia cercavo di restare aggrappata a quel sogno. La fattoria. I cavalli. L’altalena fatta con un vecchio copertone nel cortile davanti a casa, i campi infiniti dove correre. Tra me e me, le chiedevo scusa, lo sussurravo quando la vedevo con una manciata di carote che la scorsa estate aveva tirato fuori dall’orto, con addosso soltanto le mutandine e un paio di stivaletti da cowboy. Mi spiace tanto che per me questo non basti.

Una volta finite le pulizie, Henry mi aiutò a portare il materiale all’auto. Tenevo stretto al petto il sacchetto delle aragoste, ma avrei voluto abbracciare Henry che era stato così gentile, che non mi aveva trattato come una donna delle pulizie, ma piuttosto come una persona che meritava affetto e risate, e di quando in quando una cena a base di aragosta. Quando lo ringraziai, Henry mi scoccò un bel sorriso e gonfiò il petto. “Fili a casa,” mi disse, anche se cominciavo a rendermi conto che “casa” era qualcosa di passeggero, una bomba a orologeria che ticchettava, pronta a esplodere.

Allo stop in fondo alla strada, accostai di lato. China in avanti, appoggiai la fronte al volante. Avere a che fare con Henry mi faceva sentire la nostalgia di papà.

Nell’ultimo anno era accaduto spesso. Ogni volta che sentivo la sofferenza della perdita, con il petto che si infossava verso il vuoto che avevo dentro, avevo scoperto che era meglio fermarmi e aspettare, concedere a quell’emozione un attimo, farla passare. La sofferenza non voleva essere ignorata. Doveva essere amata, così come io avevo bisogno di essere amata. Seduta nella mia auto, con il sacchetto delle aragoste sul sedile del passeggero, inspirai ed espirai lentamente, contando ogni volta fino a cinque. Ti voglio bene, sussurrai a me stessa. Sono qui per te.

La sicurezza di amare me stessa era tutto ciò che avevo.

Quando passai a prenderla all’asilo per portarla da Jamie, Mia dormiva. Erano quasi le due del pomeriggio, e se fossimo partite più tardi il traffico sarebbe peggiorato. Protestò quando la presi in braccio, le infilai il cappotto e la assicurai con la cintura al suo seggiolino. Ci fermammo a casa, e io lasciai l’auto sul vialetto mentre correvo dentro a lasciare le aragoste e a prendere lo zainetto di Mia con l’occorrente per il weekend. Ci misi qualche indumento, una copertina, l’album fotografico che avevamo fatto, e il suo pupazzo della scimmietta George. Durante il tragitto, Mia si appisolò, dandomi la possibilità di ascoltare un CD che avevo registrato un po’ di tempo prima. Arrivò una ridicola canzone country, che parlava di un addetto alla fienagione. Ogni volta che Mia era sul camioncino con lui, Travis alzava il volume all’inizio della canzone, perché c’era il rombo del motore che sgasava, e i bassi ti rimbombavano dentro. Sorrisi, ricordando Mia che chiedeva a Travis di fargliela riascoltare di continuo, e rideva scalciando avanti e indietro con gli stivaletti rosa stampati a cavallini marroni. Arrivata in vista dell’oceano, allungai il braccio per sfiorarle la gamba e svegliarla.

Tornai a casa alle sei. Sola in cucina, presi un pentolone d’acqua, la salai e la misi sul fuoco. Mentre l’acqua ribolliva e spruzzava, mi misi davanti per evitare che le aragoste la vedessero, rileggendo le istruzioni per la quinta o sesta volta. Travis preferì restare nel portico con la griglia, probabilmente a carbonizzare le bistecche. Buttare le aragoste nella pentola, a morire, era compito mio.

Nella pentola non entravano entrambe. Dovetti cuocerle una a una. Con quel pentolone papà era solito preparare grandi quantità di chili, e non so perché dopo il divorzio dei miei genitori lo avevo ereditato io. Era smaltato, con una parte che poteva fare da colapasta. Quando avevo poco più di vent’anni vivevo con il mio ragazzo in una casetta in Alaska. Non c’era acqua corrente, ed era circondata da due ettari di permafrost. Papà venne a trovarci, con la ricetta del chili scritta a mano. Aveva perfino scritto IL CHILI DI PAPÀ come intestazione. La infilai in una cartellina trasparente, pinzandola con altre che stavo raccogliendo.

Non era una ricetta raffinata: carne trita, cipolle, fagioli pinto, un po’ di cumino. Sono abbastanza sicura che l’avesse copiata da un libro di Betty Crocker. Ma da ragazzina mi piaceva tanto quando la preparava. Ci sedevamo a tavola con le ciotole fumanti, frantumando tra le mani i cracker e poi spargendo le briciole a terra per far inquietare la mamma. Quando io e Mia eravamo stati da papà e Charlotte la prima volta, circa un mese prima che Jamie prendesse a pugni la porta e ci cacciasse fuori, Charlotte aveva dato il tormento a papà fin quando lui non aveva preparato il chili per me. Per questo le volevo bene. Mentre fissavo il pentolone d’acqua che borbottava, con le aragoste in attesa della loro fine, i ricordi tornarono tutti. Pensavo a Charlotte; non riuscivo nemmeno a ricordare l’ultima volta che l’avevo vista o le avevo parlato.

Quando calai la prima aragosta nell’acqua bollente, non gridò né fece movimenti inconsulti, come credevo. Il carapace diventò quasi immediatamente rosso, e poi sulla superficie si formò una schiuma verde. Una volta cotta la prima, eliminai la schiuma prima di procedere con la seconda.

La tavola era apparecchiata: due bistecche, due aragoste, due birre. Chissà quanto era diversa la nostra tavola rispetto a quella di Henry. Probabilmente avevano piatti che usavano solo per certe occasioni e grandi tovaglioli di lino spiegati sulle ginocchia. Io e Travis mangiammo in silenzio. Cercai di sorridergli, di ignorare il suo malcontento per una cena così complicata. Mentre metteva su un film, sparecchiai, caricai la lavastoviglie, lavai i piatti da portata, strofinai il tavolo e i ripiani. Ci sedemmo uno accanto all’altra sul divano di pelle marrone che aveva ereditato dai genitori, ma senza sfiorarci. A metà del film, andai nel portico a fumare una sigaretta, cosa che facevo quando Mia non era a casa. Avevo comprato un pacchetto qualche settimana prima, dopo aver pulito la roulotte. Stava diventando una specie di rito. Travis uscì a fumare una mezza sigaretta, poi mi disse che doveva andare a dormire.

“Vuoi che venga con te?” gli chiesi, scrollando la cenere.

Non rispose subito. “Non mi importa,” disse, rientrando in casa.

Pensavo che quel weekend non sarebbe stato tanto arrabbiato perché non lo aiutavo a pulire le stalle, dato che dovevo lavorare. Speravo anche che potessimo fare l’amore, e non solo sesso come avveniva di solito, quando a un certo punto nella notte lui mi prendeva per i fianchi e mi attirava a sé, senza che i nostri volti si sfiorassero, il buio e il silenzio interrotti soltanto dai fari di un’auto che passava.

Il mattino seguente, Henry mi venne incontro alla porta rossa d’ingresso. “Com’è andata?” chiese sorridendo, mentre gli restituivo quelle pinze eleganti.

“Le migliori che abbia mai mangiato,” risposi, con un bel sorriso. Poi mi fermai, rendendomi improvvisamente conto di quello che intendeva. “Ma non hanno salvato la nostra relazione.”

“Ah,” commentò lui, guardando le pinze argentate. “Forse è meglio così. Lei non sembra il tipo che ha bisogno di un uomo che la salvi. Lei è una che lavora sodo.”

Henry mi lodava, ma io sapevo che non sarei mai riuscita a lavorare abbastanza sodo. Tra la scuola, la casa, Mia, e cercare di guadagnare di che vivere, il lavoro era inarrestabile e sembrava non finire mai. I soldi che ricevevo mi davano l’impressione di non aver lavorato poi molto. Ma Henry mi rispettava. Era il primo cliente che, lo sapevo con certezza, mi rispettava.

Poco dopo la cena con le aragoste, io e Travis ci lasciammo. Quella sera tornai a casa dal lavoro e preparai la cena, rigovernai, feci il bagno a Mia e la misi a letto. Sistemai sul tavolo della cucina il laptop e i libri, misi gli auricolari per escludere il suono della tv, e cominciai a studiare. E a quel punto mi accorsi che il bidone della spezzatura era stracolmo. Mi alzai e mi piazzai di fronte a Travis, tra lui e lo schermo.

“Ti dispiace portare fuori la spazzatura?” chiesi, le mani sui fianchi.

Senza un attimo di esitazione, lui replicò: “Credo proprio che tu te ne debba andare”. Poi si alzò, mi spostò di peso e tornò a sedersi. Restai lì, stupefatta, a guardarlo. Dalla tv eruppe una risata e Travis, il volto illuminato dalla luce dello schermo, sorrise. Tornai al tavolo e mi lasciai cadere sulla sedia, appesantita da quelle parole che mi tenevano schiacciata a terra, in un buco dal quale non ero sicura che sarei stata in grado di emergere.