13. La Casa di Wendy
La terza volta che andai da Wendy, la mia nuova cliente, la sua salute aveva cominciato a declinare, all’improvviso e visibilmente. “Il cancro non mi lascia molto tempo,” disse con calma mentre parlavamo d’altro, le spalle insolitamente curve. Non c’era niente che potessi aggiungere, quindi come lei mi limitai ad annuire con aria saggia, concordando con serietà. Eppure le camicie di Wendy erano ancora inamidate. La sua casa era ancora così linda che spesso mi chiedevo perché mi pagasse per pulirla.
A volte, dopo che avevo terminato in cucina, mi preparava il pranzo, insistendo per farmi sedere con lei in sala. Ci raccontavamo dei nostri figli, con la tavola apparecchiata con una bella tovaglia bianca ricamata, mangiando panini di pane bianco al tonno tagliati a triangolo e bastoncini di carote. Lei serviva caffè istantaneo che sorseggiavamo con grazia nelle tazze da tè, con panna e zucchero in bustine, mescolando con un cucchiaino d’argento. Assomigliava tanto ai tè eleganti che facevo finta di prendere con la nonna da bambina, e glielo dissi. Wendy sorrise, poi agitò la mano per scacciare quel pensiero. “È bello usare le tazze migliori quando lo puoi ancora fare,” disse. Le sue mani tremavano, facendo tintinnare le tazze sui piattini decorati a fiori rosa.
La casa di Wendy era piena di vetrinette per esporre ninnoli, foto dei figli e dei nipotini, un suo ritratto il giorno delle nozze. Una volta si accorse che lo stavo guardando. Pensavo a quanto sembravano giovani lei e suo marito, e mi chiedevo come sia possibile che le persone diventino all’improvviso così vecchie, come possono restare innamorate tanto a lungo, con il cuore e il corpo che maturano insieme. Lei sorrise e mi indicò un bouquet di rose rosse di vetro, sulla mensola accanto al loro ritratto nuziale. “Mio marito voleva essere sempre sicuro che avessi delle rose rosse,” mi disse, e io provai una strana sensazione di invidia e voglia di piangere.
Quella di Wendy era una “casa della nonna” così tipica da farmi desiderare con tutte le mie forze di stare con la mia famiglia o mia nonna. Gli armadietti della cucina erano pieni di libri di ricette e pile di fogli: liste della spesa e ricette di frullati di verdure. Prendeva il caffè con un dolcificante in bustine; ne teneva un cestino pieno vicino alla caffettiera, che sembrava sempre in funzione.
Paragonata alle altre, la casa di Wendy era facile da pulire. Strofinavo gli armadietti, le credenze e i pavimenti, spolveravo, passavo l’aspirapolvere e pulivo il bagno di cortesia al pianterreno. Lei insisteva per occuparsi di quello al primo piano.
Sul pavimento della cucina, vicino al bordo del bancone, c’era un punto dove il linoleum era consunto e scheggiato. Una volta, mentre pranzavamo insieme, le chiesi cosa fosse successo e lei rispose che lì il marito si metteva a fumare. Al ricordo, fece una smorfia. “L’ho sempre detestato,” disse, sorseggiando il caffè. Annuii, pensando alle impronte fangose di Travis sul pavimento della cucina. “Ma è importante che queste cose non si mettano di traverso,” aggiunse, lisciando il cardigan bianco sopra la camicetta a righe sottili.
“Per me è stato così,” dissi. Mi guardò, i capelli bianchi che quasi risplendevano nella luce pomeridiana, come un alone. “Io e il mio compagno ci siamo lasciati di recente. Abbiamo vissuto insieme poco più di un anno. Mia figlia ha soltanto tre anni e… si erano affezionati. Adesso abitiamo in un minuscolo monolocale che mi posso a malapena permettere.” Presi la tazza per bere l’ultimo sorso di caffè e nascondere le mie guance arrossate. Dire tutte quelle cose insieme, oltre a farmi soffrire, rendeva la situazione reale, come se stesse accadendo davvero, e non fosse una specie di incubo nel quale ci eravamo ritrovate.
Per qualche istante Wendy non parlò. “Qui ho bisogno di molto aiuto,” disse, alzandosi da tavola. Impilò i suoi piatti e io mi affrettai a imitarla. “Puoi lasciarli lì. Vieni con me.”
La seguii al piano superiore, passando accanto al montascale che usava per salire nelle sue “brutte giornate”, come le definiva. Non sembrava che ricevesse molte visite, e mi ritrovai a pensare che forse si vestiva bene e si pettinava per me. Non ero mai stata al primo piano, se non una o due volte per passare l’aspirapolvere sulle scale. La camera da letto era a destra del pianerottolo. Ci dormiva con il suo cane bianco, un botolo dal respiro pesante che aveva imparato a suonare la campanella accanto alle porte scorrevoli perché qualcuno lo facesse uscire. Quando aprì la porta della stanza degli ospiti, la luce invase il pianerottolo.
Decine di scatole di scarpe, contenitori e bidoni di plastica erano allineati lungo le pareti. C’erano ancora altri contenitori accatastati in bilico sul letto. Wendy sospirò.
“Ho cercato di scegliere le cose e di metterle in ordine,” disse. “Sai, per il cancro.” Annuii, osservando tutto quello che aveva fatto. “La maggior parte delle cose destinate a mio figlio sono in garage, gli utensili, cose del genere. Ma i miei nipoti e i loro figli vorranno molti di questi oggetti.”
La ammirai mentre mi indicava le diverse sezioni, spiegandomi a chi sarebbe stato destinato ciascun oggetto. Come donna delle pulizie avevo visto diversi progetti di riordino: garage suddivisi in zone, in preparazione per vendite estemporanee o per traslochi in case più piccole. Ma questo era un progetto di un altro genere. Riguardava la vita nell’aldilà. Wendy aveva riposto queste cose per i suoi cari, perché le ricevessero dopo la sua morte.
Non sono certa che Wendy sapesse quanto tempo le restava da vivere, ma anche se lo sapeva, non me lo disse mai. Il lavoro extra che mi assegnò nel mese di luglio permise a Mia e a me di affrontare le spese impreviste del trasloco e una riparazione di 300 dollari dell’auto, che altrimenti mi avrebbe mandato fuori di testa. Strappai le erbacce in giardino, misi in ordine mucchi di oggetti e pulii a fondo alcune parti della sua casa, per risparmiare il lavoro ai suoi familiari. Nel chiedermi di portare a termine questi incarichi Wendy era tranquilla, pratica. La ammiravo, per quanto possa sembrare strano, sperando di provare la stessa pace al termine dalla mia vita, di poter riordinare tutto con calma, invece di impazzire per correggere gli errori o pensare a quello che avrei voluto fare.
Passai quasi tutto il weekend del Quattro di Luglio nel suo giardino, dandomi da fare con le erbacce delle aiuole e sotto i cespugli sempreverdi. Era passato un po’ di tempo da quando facevo quel lavoro, e avevo scordato quanto mi piacesse stare all’aperto. Per lo più lavoravo in case strapiene di oggetti, con il riscaldamento abbassato o l’aria condizionata spenta: se i proprietari non c’erano, era come se non ci fosse nessuno, io non contavo.
A casa, combattevo contro una muffa implacabile. La zona notte, costituita perlopiù da grandi finestre, con il sole del pomeriggio diventava una sauna. Se era piovuto da poco, assomigliava più a una serra. Per Mia dormire era quasi impossibile, e pensare che di solito ci riusciva sempre, persino con i fuochi d’artificio. Una sera Travis passò a trovarla, e dopo essere rimasto senza fiato per il caldo, girò i tacchi e se ne andò con il suo furgone, tornando mezz’ora dopo con un condizionatore che installò alla finestra. Lo accese al massimo della potenza. Io e Mia ci piazzammo lì davanti, a goderci l’aria fresca. Sembrava costoso, un lusso. Magari lo avrei usato solo quando tornavamo a casa, o appena prima di coricarci per rinfrescare la stanza, così da non far salire troppo la bolletta dell’elettricità. Mi preoccupava il fatto che l’aria fosse umida. Ogni cosa sembrava far proliferare la muffa che cresceva sui davanzali che circondavano la zona dove dormivamo.
Lavorando in giardino e in cortile, potevo respirare a pieni polmoni. Ascoltavo i rumori del quartiere invece della musica dal mio iPod. In quel weekend del Quattro di Luglio, molti vicini di Wendy stavano già accendendo i fuochi d’artificio o cuocendo la carne sulla griglia. Di quando in quando, mi arrivava un profumo di bistecche o hamburger, e mi sentivo l’acquolina in bocca. Immaginavo lattuga croccante e grosse fette di pomodoro, formaggio, ketchup e maionese spalmati con generosità, e poi una birra. Strappavo le erbacce da sotto il sempreverde e immaginavo i ragazzini correre su e giù per il quartiere, con in mano una stellina pirotecnica.
Quel fine settimana Mia era con Jamie, e io mi ritrovai a sperare che fosse a un barbecue con il suo papà, circondata da bambini della sua età. Speravo che quella sera avrebbe visto i fuochi d’artificio.
Wendy mi firmava gli assegni con mano tremante, insistendo per pagarmi la tariffa regolare anche per l’intervallo del pranzo. “Il tuo tempo è prezioso,” mi diceva, porgendomi un assegno con delle rose rosa stampate accanto al suo nome e indirizzo.
Dopo un paio di mesi, Wendy cancellò il servizio. “Non posso più permettermelo,” mi disse al telefono, e mi parve di avvertire un certo rimpianto nella sua voce flebile.
Non so quando se ne andò, ma mi chiedo se non sia accaduto poco dopo che smisi di lavorare da lei. Pensavo spesso alle nostre conversazioni tra un panino e un caffè, al fatto che non sfiorasse nemmeno i bastoncini di carota che aveva davanti, e che forse il suo piatto era lì solo per bellezza; anche se non aveva appetito, non stavamo mangiando da sole. I ricordi di quei pomeriggi con Wendy mi rammentavano che il mio tempo aveva un valore, ma anche che, sebbene fossi lì a pulire il bagno o togliere cartacce da sotto le sue piante di ginepro, anch’io avevo un valore.
I fine settimana senza lavoro o senza Mia erano di un silenzio assordante. Poiché la borsa Pell mi copriva le spese solo per il regolare anno scolastico, non potevo permettermi di pagare il semestre estivo, e così non dovevo rimettermi in pari con lo studio, e non avevo un giardino dove oziare, e nemmeno soldi da spendere per farmi un bicchiere con un’amica. Persino andare in auto fino a Seattle o a Bellingham costava troppo, e così restavo a casa. Cercavo di andare al parco a leggere su una coperta stesa sull’erba, ma schiumavo di invidia per le famiglie e le coppie che consumavano il pranzo togliendolo dai contenitori ermetici, i papà che giocavano con i figli grandicelli mentre le mamme restavano sedute all’ombra con i più piccoli.
La mia dieta era così monotona che acquistare il cibo, prepararlo e mangiarlo era più un’incombenza che un piacere. Quando potevo permettermelo, la domenica preparavo una bella quantità di purè di patate, ne ricavavo delle frittelle da friggere nel burro, poi ci aggiungevo un uovo per la colazione o uno spuntino dopo il lavoro. Oltre alle barrette proteiche e ai panini con burro di arachidi e marmellata, mangiavo grandi scodelle di ramen già pronto. Avevo imparato a preparare la salsa di accompagnamento con aceto di riso, sriracha, salsa di soia, un po’ di zucchero e olio di sesamo. Il costo iniziale delle salse era alto, circa 20 dollari, ma non riuscivo proprio a farmi piacere quelle in busta. Le grandi scodelle di ramen e salsa erano la mia idea di un pasto raffinato. Aggiungevo cavoli, broccoli, cipolle o qualsiasi altra verdura fosse in offerta, facendoli saltare in padella, e sopra un uovo sodo e un affettato, sempre trovato in offerta. Frutta e verdura fresche divennero una specie di prelibatezza: le compravo solo se costavano un dollaro o meno ogni mezzo chilo, e soltanto all’inizio del mese.
Qualunque fosse la ragione – Mia che mangiava a casa più spesso del solito, perché si ammalava e restava a casa dall’asilo, e quindi dovevo darle colazione, spuntino e pranzo, o magari si trovava in un picco di crescita – la seconda spesa del mese riguardava solo alimenti di base, che ci riempivano a malapena lo stomaco e non ci lasciavano mai soddisfatte. Era il periodo in cui compravo il pane più economico e i cracker semplici, la confettura che sapevo essere piena di zucchero, aromi artificiali, sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio e poco altro (e che comunque dovevo dare da mangiare a mia figlia) e poi cibi pronti o in scatola, dei più economici. Per un paio di settimane non potei permettermi il caffè. Passai al tè nero, e piansi. Anche se sapevo di poterlo fare, non andai mai al banco alimentare o a una mensa dei poveri. Non avevamo molte possibilità, ma non stavamo morendo di fame, e quindi non riuscii mai a convincermi ad andare. Mi sembrava che ci fossero moltissime persone che ne avevano più bisogno di noi.
Per fortuna, Mia sembrava non rendersene conto, dato che ero sempre io quella che mangiava meno. Ma un pomeriggio andai a prenderla a casa di suo padre, e lei per venti minuti non parlò che della festa di compleanno alla quale era andata. Non degli amici o dei giochi, ma del cibo. “C’erano così tanti frutti di bosco, mammina!” continuava a ripetere. “Fragole e lamponi e così tanti e me ne lasciavano mangiare quanti volevo!” Quella sera, dopo averla messa a letto, andai a guardare le fotografie della festa che gli amici di Port Townsend potevano aver pubblicato sui social. Mia non era in nessuna, ma si vedevano benissimo i frutti di bosco. Il tavolo era pieno di ciotole e vassoi colmi di bacche, e io capii perché Mia era così esaltata. Una piccola confezione di frutti di bosco, cinque dollari, per lei era una specialissima sorpresa, e di solito la faceva fuori in pochi minuti.
In quei mesi qualche altro cliente si offrì di pagarmi per del lavoro extra, e un avviso che avevo pubblicato su Craigslist suscitò grande interesse:
LAVORO 25 ORE ALLA SETTIMANA
COME DONNA DELLE PULIZIE,
MA NON BASTA PER PAGARE I CONTI.
La maggior parte degli altri annunci di ricerca lavoro sembravano riguardare coppie di marito e moglie che disponevano di camioncini per sgomberi. Alcuni si riferivano a imprese molto simili a quella di Jenny: con autorizzazione, assicurazione e pochi addetti per giostrarsi i lavori più grossi. Non pensavo che il mio post attirasse l’attenzione o mi procurasse guadagni extra, ma ogni volta che ne pubblicavo un’altra versione ricevevo una mezza dozzina di chiamate.
Sharon, una donna bassa con gli occhi vivaci, mi assunse per pulire una casa da affittare prima che arrivasse il nuovo inquilino. L’appartamento era sudicio ma non disgustoso, e mentre me lo mostrava ammise di non aver mai avuto prima una donna delle pulizie. Voleva che lustrassi bene il forno e il frigorifero, ma non le tapparelle. Cercai di stimare quanto tempo mi ci sarebbe voluto, ma mentre consideravo la situazione, dovevo tenere Mia in equilibrio sul fianco, ed era difficile valutare con precisione lo spazio.
“Quattro o cinque ore?” provai a dire, distratta da Mia, che non smetteva di cercare di afferrare qualcosa sul ripiano.
“Oh, io pensavo di darti un centinaio di dollari,” disse Sharon, mentre parlavamo in corridoio. Poi mi porse un mazzetto di banconote. La guardai per un istante, quasi incredula, incerta sul da farsi. Era molto più di quanto ero stata pagata per qualsiasi altro lavoro avessi trovato da sola. Ma lei mi spinse a prendere il denaro. “Il tuo annuncio mi è piaciuto,” disse. “Ricordo bene come ci si sente, a dannarsi quando si ha una persona a carico.” Guardò Mia che, intimidita dal suo sguardo, nascose il viso nella mia spalla.
“Grazie,” replicai, cercando di tacitare la sensazione di approfittare della situazione. “Non te ne pentirai.”
Dopo aver assicurato Mia al seggiolino dell’auto, mi sedetti al volante, fissando il cruscotto. Ce la faccio, pensavo tra me e me, cazzo, ce la faccio! Mi girai a guardare Mia, e mi sentii il petto gonfio d’orgoglio. Ne avevamo passate tante insieme, eppure riuscivo ancora a superare gli ostacoli. “Ti va un Happy Meal?” le chiesi. La mazzetta di soldi mi gonfiava la tasca. Mi sentii piena d’orgoglio. Il viso di Mia si illuminò, e alzò le braccia in segno di gioia. “Sììì!” gridò dal sedile posteriore. Risi, ricacciando qualche lacrima, e anch’io gridai di gioia.