14. La Casa delle Piante
La sveglia suonò per la terza volta solo trenta minuti prima dell’appuntamento con lo specialista che doveva inserire nelle orecchie di Mia i tubi timpanostomici. Mi avevano detto che quel mattino dovevo farle il bagno e vestirla comoda. Invece cercai di chiamare l’ambulatorio per disdire l’intervento. Mia aveva la testa e il petto che traboccavano di un muco denso e verdastro. La sera prima aveva vomitato, e anche quella mattina, tutto per terra. Non potevano assolutamente operarla se era tanto malata, ma feci quello che dovevo fare, la preparai e arrivai in tempo all’ambulatorio.
Mia sapeva, più o meno, quello che stava accadendo. Le avevo detto che il medico doveva guardare ancora le sue orecchie, ma questa volta non potevo restarle accanto. Ormai eravamo andati parecchie volte dal dottore per quel problema, ed era già stata visitata dallo specialista per stabilire se poteva essere sottoposta all’intervento. Il mio nervosismo era dovuto più all’anestesia che alla procedura vera e propria.
“Ho inserito i tubi timpanostomici anche a mio figlio,” mi aveva detto il chirurgo. “Seguirò sua figlia con la medesima attenzione.”
Arrivammo all’ambulatorio alle otto del mattino e ci accompagnarono in una stanza dove avevano già preparato un camice, una cuffia per i capelli, copriscarpe e un sacchetto per riporre gli abiti di Mia. Ogni volta che un’infermiera entrava a farci domande, mi sentivo sempre più inquieta. Mia, tesa e silenziosa, distolse lo sguardo mentre la pesavano, le misuravano la febbre, controllavano i livelli di saturazione dell’ossigeno, le auscultavano il cuore, e le scattavano persino una Polaroid.
“Sta davvero male,” dissi alla prima infermiera, che si limitò ad annuire. “Ha un brutto raffreddore. Tosse e muco verdastro. Credo che sia un’infezione,” dissi all’infermiera seguente. “Il chirurgo controllerà se è necessario togliere le adenoidi, non è detto che le tolga. Farà un controllo e basta.”
Un’infermiera, una brunetta più anziana con mani talmente fredde che Mia si era ritratta quando aveva cercato di auscultarle il cuore, chiese se a casa avevamo un deumidificatore.
Scossi la testa, pensando alla condensa all’interno delle finestre di casa, agli angoli con macchie di muffa nera che avevo scrostato prima di trasferirci lì, e che tornavano ogni volta che pioveva. “Non posso…” feci per dire.
“Bene, deve procurarsene uno oggi stesso,” disse, scrivendo qualcosa sulla cartella clinica di Mia.
“Io…” abbassai lo sguardo a terra. “Non ho i soldi.”
L’infermiera alzò la testa, severa, arricciò le labbra, incrociò le braccia, guardando Mia e non me. “Dove sono i suoi nonni? Non ha dei nonni? Se fosse mia nipote, mi offrirei di comprarglielo.”
“La mia famiglia non mi può aiutare materialmente,” cercai di spiegarle in poche parole, probabilmente fornendo fin troppe informazioni a un’estranea. “Cioè, mio papà e la mia matrigna non possono. Mia mamma vive in Europa e dice che non mi può aiutare, ma mio padre non ha davvero i soldi.”
L’infermiera schioccò la lingua. Mia teneva gli occhi fissi sulle proprie mani, che aveva ficcato sotto le gambine. Doveva avere freddo. O forse doveva fare pipì. Ogni volta che glielo avevo chiesto, aveva fatto no con la testa. “Non so proprio come una nonna possa vivere così lontano dalla sua nipotina,” disse l’infermiera, poi mi guardò negli occhi, in un modo che mi fece sentire di doverle rispondere, ma Mia mi sussurrò qualcosa all’orecchio.
“Ho bisogno del vasino.” Il suo alito aveva quella nota caratteristica del muco infetto, diverso da come odorava di solito.
Uscendo dalla stanza, l’infermiera ci indicò dove andare. Portai in braccio Mia al bagno e la feci sedere sul water. Si chinò tutta in avanti, il petto appoggiato alle gambe, e vomitò una grande pozza di muco verde. Una delle infermiere ci stava aspettando davanti alla nostra stanza, dopo aver chiesto all’accettazione dove eravamo andate, e io le feci cenno di venire a vedere quel che era successo. Ecco la prova, volevo dire. La mia piccola è troppo malata per farlo.
“Ci penso io,” disse l’infermiera. “Tornate nella vostra stanza.”
Restammo lì soltanto per cinque minuti, poi mi stufai e presi il sacchetto degli abiti per rivestire Mia.
Qualcuno bussò, e lo specialista entrò. Non disse buongiorno – non lo faceva mai – e si sedette sulla sedia, desolato. Restammo lì a guardarci l’un l’altra per qualche istante, mentre lui ci studiava. “Probabilmente sta male perché è nervosa,” disse. “Se lei, signora, è nervosa, la bambina è nervosa.”
“Non ho avuto tempo di innervosirmi,” borbottai.
Lui si appoggiò allo schienale, incrociò le braccia, poi si alzò e ci squadrò dall’alto. “Se non vuole fare l’intervento, va bene. Io risparmio tempo, questo è certo.”
“No,” risposi, accigliandomi. Forse non mi avrebbe parlato in quel modo se con me ci fosse stato un marito, o se Mia avesse avuto un’assicurazione medica diversa da Medicaid. “Non ho detto niente del genere. È stata malata. È malata. Ho immaginato che stesse troppo male per essere operata oggi. Non so nemmeno perché sono venuta qui. Sono troppo stanca per pensarci.”
“L’operazione la aiuterà,” replicò lui. “Sto cercando di aiutarvi.”
Annuii. In preda alla frustrazione, cercavo di non piangere, di ignorare lo schiacciante desiderio di cedere e singhiozzare tutta sola, di arrendermi alle difficoltà di avere una figlia malata, lottando come una guerriera per pagare l’affitto con un lavoro che non mi dava nessun vantaggio, un lavoro che, se non mi presentavo, forse al mio ritorno non ci sarebbe stato più. Non che mi aspettassi niente del genere. Non avere vantaggi era semplicemente la normalità con i lavori pagati poco più del minimo sindacale; però mi sembrava che si potesse fare un’eccezione per chi aveva una persona a carico. “Mi fido di lei,” dissi, guardando Mia e tenendole un braccio attorno alle spalle, sapendo che avrei dovuto lasciarla andare con lui.
Un’altra infermiera venne a portare Mia in sala operatoria. Un’altra ancora entrò nella stanza con dei fogli: le istruzioni su come occuparmi di Mia nelle due settimane seguenti.
“Tu sei la figlia di Dan e Karen, vero?” mi chiese. Annuii. “Mi era sembrato di riconoscerti. Accidenti, Mia è il tuo ritratto sputato! Tale e quale a te quando avevi la sua età.” Vedendomi confusa, si affrettò a presentarsi. Era la moglie dell’avvocato che si era occupato della mia causa per un incidente d’auto quando avevo sedici anni. “Ma conosco i tuoi genitori da quando hanno cominciato a venire alla chiesa di Bethany Covenant, e tu portavi ancora i pannolini!”
“Portavo ancora i pannolini” mi fece ripensare a una storia che mia mamma raccontava sempre, di quella volta che era corsa in chiesa una domenica mattina, arrivando quando l’omelia era già iniziata. Il papà mi aveva passato in braccio alla mamma, e lei aveva tastato con le mani il mio sederino nudo. Io avevo forse due anni, e loro ne avevano soltanto ventuno. Nella fretta di uscire si erano scordati di mettermi il pannolino, e non ne avevano con sé. Chissà se l’infermiera li aveva visti. E chissà se aveva dato loro una mano.
Le sue chiacchiere fecero passare il tempo che Mia trascorse in sala operatoria. Avevo letto molti articoli online su cosa aspettarsi quando i piccoli si svegliano dall’anestesia, ma non ero emotivamente preparata. Era bello avere una distrazione, qualcuno che mi tenesse compagnia, che mi aiutasse a mantenere la calma. Perdere mia figlia, la possibilità che non si risvegliasse dall’anestesia, qualcosa che andava nel peggiore dei modi, erano tutti pensieri che dovevo tenere a bada per restare forte, se non per me, per amore di Mia. A nessuna di noi serviva altro stress.
Mia tornò in stanza alle nove, su una barella, con una garza in bocca. Il suo viso era zuppo di lacrime, rosso di rabbia, ma si guardava attorno, gli occhi spalancati per il terrore, come se non riuscisse a vedere. Spinsero la barella fino al suo letto, così che potesse spostarsi da una all’altro. Mi chinai su di lei, posandole una mano sulla schiena, e cominciai a parlarle piano all’orecchio, senza sapere se e quanto mi potesse sentire, chiedendomi se avesse male alle orecchie, che cosa le avessero fatto; chissà che paura aveva avuto da sola, senza che fossi lì a tenerle la mano. “Va tutto bene, tesoro mio. Va tutto bene.”
Mia si piegò tutta, mettendosi di fianco, completamente irrigidita, poi cominciò a contorcersi, a fare dei versi strani, tirando i cerotti che assicuravano alle braccia gli aghi delle flebo. Io e un’infermiera facemmo il possibile per fermarla. Mia si mise carponi, sputando la garza che aveva in bocca, poi si inginocchiò. Mi cercò, sollevando insieme alle braccia anche i tubi che vi erano attaccati. Guardai l’infermiera, che annuì, permettendomi di abbracciare mia figlia, sollevandola abbastanza da mettermela in grembo per poterla cullare, avanti e indietro, ripetendo la mia promessa che sarebbe andato tutto bene.
“Voglio il succo,” mi disse Mia con voce rauca, abbandonandosi su di me, dopo lo sforzo e forse il dolore di elaborare parole e poi pronunciarle. Piagnucolava. L’infermiera le porse una tazza con il beccuccio. Mia ne bevve la metà, poi si rifugiò ancora nelle mie braccia.
Nel giro di un’ora, ero già nel parcheggio con Mia vestita ma ancora aggrappata a me. Non mi sentivo ancora pronta a sistemarla sul seggiolino per percorrere la poca strada che ci separava da casa. Ci avevano dimesse in fretta e furia, prestandoci un deumidificatore a forma di Topolino. “Eh sì, qui facciamo le cose alla svelta,” aveva detto l’infermiera posandolo sul cofano dell’auto. Restai nel parcheggio per altri quindici minuti, tenendo stretta mia figlia, fissando l’edificio, e sentendomi più sola di quanto fossi mai stata. Avevamo superato quella mattinata, Mia era sopravvissuta all’intervento, ma in quell’istante mi sentii cadere addosso una cappa. Non era un momento di autoaffermazione, o di felicità per avercela fatta; ero arrivata a un livello di solitudine del tutto nuovo, che ora dovevo imparare ad affrontare. Era una nuova esistenza. Con la quale convivere da allora in poi.
Il lunedì seguente, prima che arrivassi per la pulizia mensile, la proprietaria della Casa delle Piante aveva già tolto dal pavimento tutto il possibile. Aveva arrotolato i tappetini, posato le pile di riviste sulle sedie e accatastato sul letto libri, attrezzi per la ginnastica e scarpe. Le sue istruzioni erano radicali, più precise di tutte quelle degli altri clienti: pulire a fondo tutti i pavimenti, la cucina, il bagno, e verificare l’eventuale presenza di muffa nera sui davanzali e gli infissi.
I proprietari della Casa delle Piante soffrivano della sindrome del nido vuoto. La stanza del figlio non era cambiata molto da quando lui era uscito di casa. I suoi trofei sportivi erano ancora sul davanzale interno, dietro al letto. Avevano messo nella camera una scrivania e una grande tastiera che la moglie usava per dare lezioni di piano. Chissà, forse era più facile da usare rispetto al pianoforte verticale che era accanto alla porta d’ingresso. Il marito era una specie di pastore, o forse lavorava in una chiesa. Al posto dei quadri, alle pareti c’erano preghiere trascritte e incorniciate.
La moglie aveva enormi piante in portavasi con le rotelle che io spostavo per spazzare e passare lo straccio. Davanti a ogni finestra del soggiorno c’era una mezza dozzina di piante ragno appoggiate al davanzale o appese al soffitto con un gancio. Accanto a queste, nei vasi, c’erano cactus di Natale, e la signora aveva fatto arrampicare dei filodendri sui bastoni delle tende. Ero riuscita a tagliare di nascosto un paio di giovani piante ragno e le avevo portate a casa, piantandole nei vasi. Anch’io volevo essere circondata da una vegetazione lussureggiante, da forme di vita. Però non potevo permettermi di comprare le piantine in un negozio.
In bagno non c’erano piante. Ma c’era muffa. In piedi sul bordo della vasca, raschiavo il punto in cui la parete si univa al soffitto. La moglie lasciava la tenda della doccia arrotolata e ripiegata sul bastone. Toglieva i tappetini e gli asciugamani, da mettere in lavatrice. Quando arrivavo io, il bagno era come nudo, spoglio, bianco. Spegnevo il deumidificatore che lei utilizzava per filtrare l’aria, così che tutti i miei movimenti risuonassero. Mi piaceva cantare in bagno, con la voce che riecheggiava sulle pareti.
Da bambina, mi ero esibita a scuola in cori swing, nelle rappresentazioni teatrali d’autunno e nei musical primaverili. Non avevo mai cantato un assolo, ma mi piaceva stare sul palco. Per strada, io e i miei amici improvvisavamo dei canti. Le case vuote mi offrivano lo spazio per farlo di nuovo, senza paura di essere sentita da qualcuno. Cantavo a squarciagola Adele, Tegan and Sara, e Widespread Panic.
Quel lunedì, dopo l’intervento di Mia, in piedi nella vasca della Casa delle Piante cantai con tutta me stessa, la voce che rimbombava, fino a quando non scoppiai in un pianto irrefrenabile.
Con l’ultima passata per asciugare le pareti della doccia, le lacrime mi riempirono gli occhi, e immediatamente mi portai la mano alla faccia per asciugarle. Premetti i palmi sugli occhi, soffocando un singhiozzo, mi piegai sulle ginocchia, ricordando con quanta fretta ci avessero dimesso dall’ospedale. Non appena Mia aveva sorseggiato un po’ di succo e aveva voluto fare pipì, avevamo dovuto andarcene. Non mi avevano permesso nemmeno di restare con lei in sala d’aspetto. Ma non ero ancora pronta a lasciarla andare; non ero in grado di guidare e di badare alla strada. Mi ero appoggiata con la schiena contro l’auto, ancora calda del sole mattutino, lasciando che il corpo di Mia si fondesse al mio, tastandole i sandalini infradito rosa, spostando la mano per stringerle il polpaccio, poi la coscia, e poi abbracciandola, nascondendo il viso nel suo collo. Io ero stata presente per Mia, ma avevo bisogno di qualcuno che mi tenesse la mano, che fosse lì per me. A volte anche le madri hanno bisogno di una madre.
Era raro che Mia mi vedesse piangere. Piangere significava ammettere la sconfitta. Era come se il mio corpo e la mia mente si arrendessero, e facevo tutto il possibile per evitare quella sensazione. La mia paura era non riuscire a smettere di piangere. Non riuscire a respirare. Permettere alla mia mente di ingannarmi, facendomi pensare che stavo per morire. Piangere così, in quella vasca da bagno, era quasi lo stesso, come se perdere il controllo fosse necessario per far sì che il mio corpo si abbandonasse. Con tutto quello che mi stava capitando e su cui non avevo il minimo controllo dovevo poter almeno controllare le mie reazioni. Se avessi iniziato a piangere ogni volta che mi accadeva qualcosa di difficile o di brutto, beh, avrei pianto dalla mattina alla sera.
Mentre ero lì, con la sensazione di essere sul punto di arrendermi, qualcosa cambiò. Le pareti della Casa delle Piante si chiusero su di me. Mi sentii al sicuro. La casa mi aveva parlato. Mi aveva osservato sfogliare la rubrica telefonica per trovare delle chiese che potessero donare fondi aiutandomi a pagare l’affitto, dopo aver saputo che la lista d’attesa per Section 8 era lunga cinque anni. Quella casa mi conosceva, e io la conoscevo. Sapevo che la proprietaria soffriva di sinusite cronica, che accatastava riserve di rimedi casalinghi, che si allenava in camera da letto con vecchi video di aerobica degli anni ottanta. La casa era stata testimone delle mie telefonate disperate agli assistenti sociali, a chiedere se ci fosse qualche possibilità di ottenere un prestito. Mentre pulivo la cucina di quella casa, avevo litigato con determinazione con Jamie. Avevo pulito l’intero soggiorno restando in attesa al telefono per il rinnovo dei buoni spesa. Per qualche minuto, mentre stavo in ginocchio nella vasca che era diventata una culla, le pareti della Casa delle Piante mi protessero e mi consolarono con il loro silenzio stoico.