15. La Casa dello Chef
Quando vivevamo nel rifugio per senzatetto, restavo sveglia a lungo, molto dopo che Mia si era addormentata. Avevo davanti tutta la notte, e mi creavo una fantasia di vita “felice”. Avrei avuto un grande prato di erba ben rasata e un albero, con un’altalena appesa a un ramo. La nostra casa non sarebbe stata grandissima, ma abbastanza spaziosa da permettere a Mia di correre in giro, magari con un cane, e di costruire fortini accatastando le sedie. Mia avrebbe avuto non solo la sua stanza, ma anche il suo bagno personale. Forse ci sarebbe stata una camera per gli ospiti vera e propria, o uno studio dove avrei potuto scrivere. Un bel divano e un divanetto coordinato. Un garage. Se solo avessi avuto queste cose, pensavo, saremmo state felici.
La maggior parte dei miei clienti le aveva – aveva le cose che desideravo ardentemente in quelle notti buie e solitarie – e non sembravano godersi la vita molto più di me. Di solito lavoravano fino a tardi, lontano dalle case che si potevano permettere dandosi così tanto da fare, con spostamenti ancora più lunghi dei miei. Cominciai a prestare attenzione agli oggetti che ingombravano i banconi delle loro cucine: le ricevute per tappeti che costavano quanto la mia auto, il conto della lavanderia che poteva rimpiazzare metà del mio guardaroba. Invece, io suddividevo la mia paga oraria in intervalli di quindici minuti per capire quanto della mia fatica fisica era necessario per la benzina. Molte volte mi ci voleva almeno un’ora solo per guadagnare i soldi che spendevo in carburante per arrivare al primo lavoro della giornata. Invece i miei clienti lavoravano fino a tardi per comprarsi auto di lusso, barche, divani che tenevano coperti con un lenzuolo.
Lavoravano per pagare i servigi di Classic Clean, che mi pagava poco più del salario minimo, perché ogni cosa fosse immacolata, in ordine, soddisfacente. Ero una specie di magica fatina del pulito, ma io non assomigliavo lontanamente a niente del genere, mentre passavo nelle loro case come un fantasma. La mia faccia era cinerea per la mancanza di sole, con occhiaie scure per il poco sonno. Spesso avevo i capelli sporchi, legati in una coda o sotto un fazzoletto o un cappellino. Indossavo pantaloni cargo fino a quando i buchi alle ginocchia erano così inguardabili che il mio capo mi chiedeva di sostituirli. Quel che facevo mi permetteva di spendere ben poco in abiti, anche se da fatica. Lavoravo anche se ero malata e portavo mia figlia all’asilo quando avrebbe dovuto restare a casa. Non c’erano malattia retribuita, ferie pagate, nessuna prospettiva di aumenti di salario e, nonostante tutto, ogni giorno imploravo che mi dessero più lavoro. I soldi persi da ore di lavoro mancate erano difficili da rimettere insieme e se perdevo troppe ore, rischiavo il licenziamento. Era fondamentale che la mia auto fosse efficiente, perché un tubo rotto, un termostato difettoso, o anche una gomma a terra poteva spazzarci via, rispedirci indietro, farci barcollare, ripiombare nella condizione di senzatetto. Vivevamo, sopravvivevamo, in uno stato di precario non-equilibrio. Questa era la mia vita che nessuno conosceva, mentre lustravo quella degli altri, perché apparisse perfetta.
La Casa dello Chef era formata da due ali: da una parte la stanza degli ospiti e lo studio, oltre al bagno padronale con un corridoio che conduceva a un garage coperto dove i cani, due Westminster terrier bianchi, facevano sempre delle abbondanti pipì. Nei giorni in cui pulivo, i cani andavano al lavoro con il signor Lund o con sua moglie. Non mi ero accorta che uno aveva cominciato anche a fare pupù sotto il tavolo da pranzo, e per sbaglio ci camminai sopra. Accidenti. Tappeto beige. Beige chiaro. Cazzo, quasi bianco. Non c’era modo di riuscire a eliminare le macchie di merda.
Nei sei mesi in cui avevo pulito la Casa dello Chef, tre ore un giovedì sì e uno no, avevo incontrato il proprietario solo una volta. Era stato uno dei primi clienti di Pam. In origine la casa veniva pulita ogni settimana in due ore, e non riuscivo a capire come fosse possibile, perché era enorme. Io dovevo darmi un gran da fare, troppo impegnata anche solo per fermarmi a inviare un messaggio o a rispondere a una telefonata, per paura di non riuscire a finire in tempo. Di sicuro non mi potevo fermare a sfregare macchie marroni di merda.
Quel giorno mi toccava anche un’altra casa – quella della Fumatrice – che richiedeva sempre tre ore, oltre a una ventina di minuti di strada per arrivarci. Una giornata di lavoro piena era di solito una specie di fuga dal reale. Per tre, quattro o anche sei ore, non mi fermavo mai: dal lato sinistro del ripiano al destro, lustrare il lavello, strofinare i pavimenti, spolverare, pulire le tracce lasciate dai cani sulle porte scorrevoli di vetro, passare l’aspirapolvere lungo i corridoi, sfregare i water, strofinare gli specchi, senza assolutamente fermarmi a guardare la mia immagine riflessa, ignorando i muscoli doloranti che con il progredire delle ore diventavano un bruciore costante, a volte con fitte di dolore o una sensazione di formicolio per tutto il corpo. Dopo settimane a ripetere gli stessi movimenti – dall’inizio alla fine, nello stesso tempo, nello stesso modo, ogni settimana – smisi di pensare a quello che dovevo fare dopo. Tutto era diventato una routine, automatico. I muscoli contratti e allenati. I movimenti e i gesti, sempre uguali, erano ormai un’attività meccanica: ne avevo un disperato bisogno, perché ogni altro aspetto della mia vita mi imponeva di prendere continue decisioni, una più difficile dell’altra. Immagino che la fuga fosse diventata fin troppo meccanica, tanto da finire in cacca.
La Casa dello Chef era invidiabile, per il panorama, il giardino, gli alberi con le mele che cadevano sul prato e lì restavano a marcire, prima che i giardinieri provvedessero a tagliare l’erba. Volevo quel portico sul retro, con i mobili da esterno di legno lucido e i cuscini rosso granata. Immaginavo i loro pomeriggi pigri nel weekend: i gamberoni sulla griglia, il vino rosé fresco nei calici, sorseggiato sotto la tenda a righe che si apriva a un lato della casa. Sembrava un sogno; e queste persone, con quadretti di scene di vita parigina appesi lungo i corridoi, lo potevano vivere ogni giorno.
Gli armadietti della cucina erano zeppi di cibo, e i barattoli di latta di biscotti squisiti, disposti in bell’ordine, mi facevano venire l’acquolina in bocca. Per Natale, le loro decorazioni erano state impeccabili. Mi ero fermata a osservare gli ornamenti dell’albero. Possedevano ogni anno della serie di Hallmark “Frosty Friends” che la mia mamma aveva collezionato quando la famiglia viveva in Alaska. Dopo il divorzio, la mamma me li aveva dati tutti, ma durante uno dei traslochi circa la metà era andata perduta. Quando vidi quello del 1985, il nostro primo Natale in Alaska, con grande cautela lo presi in mano, rammentando la mamma che scartava il kayak rosso con il piccolo esquimese e il suo cane, e mi permetteva di appenderlo all’albero. Mancavano sei mesi a Natale, e mi resi conto di non essere nemmeno sicura che sarei riuscita a far entrare nel nostro monolocale un albero abbastanza grande da poterci attaccare le decorazioni, e nemmeno di potermelo permettere. Di solito a Natale Mia era da Jamie, dato che a me spettava sempre il Giorno del Ringraziamento. Volevo disperatamente per lei una vita dove le stesse esatte decorazioni fossero appese all’albero, anno dopo anno. Tradizioni così piccole che da bambina non avevo neppure notato, e ora erano tutto ciò che desideravo per mia figlia.
Un terzo del tempo che passavo alla Casa dello Chef era riservato ai pavimenti. A volte mi trascinavo all’auto un po’ piegata, tenendomi una mano sulle reni, vicino alla spina dorsale. Conoscevo già il dolore, ma starmene ingobbita per ore a pulire peggiorava le cose. La mia spina dorsale era curva come un punto interrogativo; per questo ero stata al pronto soccorso più volte. Dovevo stare attenta a non sforzarla, e se lo facevo mi sparavo 800 milligrammi di ibuprofene in un giorno. Il mio ultimo errore era stato chinarmi leggermente per sollevare il bordo di un divano spingendolo contro al muro. Sembrava pesare quanto la mia auto. I muscoli della schiena, che si aspettavano di sollevare qualcosa di leggero, mi assestarono un colpo, come un elastico lasciato andare. Bloccato. Per giorni tenni duro tra uno spasmo e l’altro, restando sveglia per il male. Non reagivo bene agli antidolorifici, che mi lasciavano stranita e in preda alla nausea, come fossi stata mezza brilla.
Quando vidi che gli armadietti della Casa dello Chef cominciavano a riempirsi di grandi flaconi di idrocodone (un antidolorifico oppiaceo), fui quasi tentata di intascarmi qualche pillola. I medicinali su prescrizione erano disseminati sui ripiani dei bagni e degli armadietti dei medicinali di buona parte delle case, ma in questa c’erano flaconi giganti in quasi tutte le stanze, confezioni che si svuotavano nelle due settimane tra una pulizia e l’altra.
Io e Lonnie non parlavamo mai dei segreti rivelati dalle case. La maggior parte dei miei clienti usava rimedi per dormire, o per la depressione e l’ansia, o per il dolore. Forse perché potevano ricorrere più facilmente ai medici, o avevano assicurazioni sanitarie che consentivano un generoso rifornimento di farmaci; forse la possibilità di accedere alle cure mediche portava a ricorrere più spesso alle prescrizioni. Io avevo una copertura sanitaria per Mia, ma guadagnavo troppo per usufruire di Medicaid, quindi non potevo farmi visitare per il dolore cronico alla schiena o per la sinusite persistente e la tosse. Mia, per fortuna, aveva sempre avuto la copertura sanitaria, quindi per lei non mi ero mai dovuta preoccupare: l’iter per ottenerla era semplice, dato che usavano gli stessi documenti necessari per i buoni spesa. Sarebbe stato impossibile permettermi i suoi controlli regolari e le vaccinazioni, senza parlare dell’intervento chirurgico che aveva appena subito, ma mi ero sempre chiesta se i dottori e le infermiere, dopo aver visto che usufruiva di Medicaid, ci trattassero in modo differente. Mi avrebbero fatto un gran bene cure regolari, fisioterapia, o anche la possibilità di farmi visitare da un ginecologo, ma non sarei mai stata in grado di permettermelo. Dovevo stare attenta a non farmi male, a non ammalarmi, e cercare di gestire da sola il dolore. Ma le vitamine, i rimedi da banco per il raffreddore e l’influenza, e persino il Tylenol o l’ibuprofene erano una spesa importante; nel mio budget stavano agli ultimi posti, e quindi li razionavo. Convivere con la malattia o il dolore faceva parte della quotidianità. Faceva parte dello sfinimento. Ma perché i miei clienti avevano quei problemi? Avere la possibilità di mangiare bene, di iscriversi in palestra, di farsi visitare dal medico e cose del genere avrebbe dovuto bastare a mantenerli in forma e in salute. Forse lo stress di tenere in piedi una casa su due piani, un matrimonio traballante, e non perdere l’illusione che tutto fosse meraviglioso gravava sul loro organismo così come la povertà gravava sul mio.
Dirigendomi alla Casa della Fumatrice guidai con tutti i finestrini abbassati. La temperatura esterna doveva essere attorno ai 27 gradi, il che significava che la sera, al nostro ritorno a casa, in camera da letto ce ne sarebbero stati più di 32. Il sudore si insinuava nelle pieghe della pelle. La maggior parte delle finestre dalla Casa della Fumatrice erano rivolte a nord, quindi avrebbe fatto più fresco, ma sarebbero state tutte chiuse, e mi sarebbe venuta la nausea per l’aria viziata, un misto di fumo stantio e candele profumate. Appena entrata, andai a mettere il mio quaderno ad anelli con le istruzioni sul ripiano, dove la cliente teneva il telefono cordless accanto a un’agenda che conteneva soltanto appuntamenti per trattamenti al viso e massaggi in una spa. Mi aveva lasciato un biglietto. HO PENSATO CHE AVREBBE GRADITO UNA CANDELA PROFUMATA PER LA SUA CASA! diceva. Presi il barattolino di latta argentata, lo aprii e vidi della cera arancione chiaro che profumava di pesca, matura al punto giusto. La mia fragranza preferita. Sorrisi, annusai di nuovo la candela, e la riposi in borsa prima di chiamare Classic Clean per far partire l’orario di lavoro.
La Fumatrice era un mistero, per me. Ci eravamo incontrate solo una volta, quando mi ero presentata nella sua cucina due ore prima di quanto si aspettasse. Era corsa via subito, prima che potessimo scambiare qualche parola, ma avevo avuto modo di vedere che i capelli e il trucco erano impeccabili, e così avevo soddisfatto una delle mie curiosità. Nel suo bagno c’erano sempre nuovi sacchetti di cosmetici o di creme antirughe o altri minuscoli contenitori. Per ogni nuovo prodotto c’era una ricevuta di almeno 50 dollari, ma non avevo mai trovato in giro flaconi o vasetti vuoti. A settimane alterne faceva un massaggio, pulizia del viso, manicure e pedicure, e spesso mi ero chiesta se qualcuno l’avesse convinta a comprare tutti quei cosmetici, che però non aveva intenzione di usare. Il suo aspetto dimostrava il contrario. Era impeccabile, anche in un giovedì pomeriggio qualsiasi.
La casa era a due passi da un campo da golf, un hobby al quale probabilmente dedicava molto tempo. Nel ripostiglio al piano inferiore, sopra la lavatrice e l’asciugatrice, c’erano schede segnapunti incorniciate e una foto della Fumatrice accanto a Tiger Woods. Indossava una camicetta bianca, coordinata agli shorts bianchi ben stirati, e i capelli erano raccolti in alto, separati dal viso con una visiera. Il piano inferiore della casa sembrava una capsula del tempo. Quando scendevo con l’aspirapolvere, gli stracci e il carrello dei detergenti, mi sembrava di tornare alla fine degli anni ottanta o all’inizio dei novanta, con mobili fuori moda su una spessa moquette bianca. In camera degli ospiti c’era una carta da parati con le oche del Canada, proprio come nella casa dove ero cresciuta. Nello studio c’era una scrivania di truciolato e un tapis roulant d’altri tempi, davanti a un vecchio impianto di tv e lettore di videocassette, come quello che avevo io.
Il piano superiore era stato rinnovato: pavimenti di legno, nuovi armadietti e un frigorifero di acciaio inox che, a quanto potevo vedere, conteneva per lo più acqua minerale e lattuga.
I mobili erano eleganti, moderni e, dalla quantità di polvere che ci si accumulava, capii che non venivano usati. Nell’armadio c’era un cardigan di cachemire marrone chiaro che le invidiavo tanto: ogni volta che passavo l’aspirapolvere mi fermavo, aprivo la zip e lo indossavo, mettendomi il cappuccio in testa, tirandomi le maniche sulle mani, per poi massaggiarmi il viso con quella morbidezza.
Era difficile dire se la casa venisse sfruttata, se non per il piccolo bagno accanto alla camera padronale, e il bagnetto di cortesia davanti alla cucina. Ogni volta che sollevavo i sedili dei water per strofinare la tazza facevo una smorfia di disgusto. Sotto il bordo era quasi sempre sporco di vomito.
Con il tempo, mi feci un’idea di come passava il tempo a casa. Il marito si occupava della sua impresa edile, a un’ora almeno dalla città. Era il 2010, e l’industria delle costruzioni sembrava ancora a un punto morto. Loro erano probabilmente in ansia riguardo al futuro, e si chiedevano se sarebbero stati i prossimi a fallire. La casa sembrava sempre pronta per una cena con amici, con false candele accese e tovagliette apparecchiate, ma a giudicare dalla polvere sui tavoli e sulle sedie era chiaro che le serate con ospiti e le cene eleganti erano eventi rari. Avevo l’impressione che la donna passasse la maggior parte del tempo seduta sullo sgabello alto davanti ai fornelli inseriti nel bancone della cucina. Sul retro del piano cottura c’era una presa per l’aerazione, vicino a dove la Fumatrice si sedeva, e di solito il ripiano era impolverato di cenere di sigaretta. Lì accanto c’era un minitelevisore, la sua agenda, un cordless, qualche briciola sparsa a terra.
Su una mensola, accanto al tavolo da pranzo, c’erano numerosi scaldacera elettrici per profumare l’ambiente. Quegli aromi mischiati insieme mi davano il mal di testa. Una volta la Fumatrice lasciò l’accendino accanto all’agenda, ma a parte il posacenere pulito che trovavo sotto il lavello, non c’era taccia di sigarette. Poi, un giorno, uscendo dal garage, notai un freezer. Lo aprii e rivelò stecche e stecche di Virginia Slims. Restai a fissarle, poi sorrisi, soddisfatta. Mistero risolto.
Me la immaginavo, il mento posato sulla mano, a spegnere la sigaretta, emettendo un respiro fumoso verso l’aspiratore della cucina, per poi alzarsi, scuotere un po’ i capelli, svuotare il posacenere nel garage per poi, con grande cura, sciacquarlo e pulirlo accuratamente. Chissà se teneva in borsa le sigarette, o se era una cosa che faceva soltanto a casa, in quell’angolo della cucina. Non era un problema di fumo. Fumavo anch’io, di quando in quando. Non poteva importarmene di meno. Era la segretezza ad affascinarmi, tutta l’energia che impiegava per apparire perfetta e linda.