16. La Casa di Donna

Nel corso dell’estate, riprese vita la proposta di sottoporre a test antidroga chi usufruiva del welfare. In seguito alla recessione, in milioni si erano rivolti al governo per ricevere un sussidio. Sempre più contribuenti della classe media, in difficoltà economiche, manifestavano la loro rabbia perché c’erano persone che ricevevano aiuti, a loro avviso ingiustamente, e questo portò a tensioni tra chi usufruiva già dell’assistenza pubblica, con i buoni spesa, e chi non ne aveva diritto. La richiesta di test antidroga faceva aumentare i pregiudizi su chi riceveva aiuti, e nascevano nuove leggende secondo le quali ce ne approfittavamo, prendevamo soldi dal governo perché eravamo pigri, e forse anche tossicodipendenti. I meme online paragonavano chi viveva con i buoni spesa alle bestie. Uno di questi mostrava un orso seduto a un tavolo da pic-nic e diceva: “La lezione di ironia di oggi: il programma dei buoni pasto, istituito dal dipartimento dell’Agricoltura, è lieto di distribuire una quantità di buoni pasto mai vista prima. Nel frattempo il Settore Parchi, che fa comunque parte del dipartimento dell’Agricoltura, ci chiede PER CORTESIA, NON DATE CIBO AGLI ANIMALI, perché gli animali potrebbero diventare dipendenti dalle offerte e non imparare a procacciarsi il cibo da soli”.

Un altro molto popolare mostrava una calzatura da operaio e diceva: “Dato che io devo fare un test antidroga per lavorare, tu dovresti farne uno per ottenere il sussidio”. Un altro ancora: “Se ti puoi permettere droga, alcol e sigarette, allora non hai bisogno dei buoni pasto”. Uno dei miei contatti di Facebook lavorava in un negozio di alimentari e aveva cominciato a postare quello che le persone compravano con i buoni spesa, per prenderle in giro: “Patatine alla cipolla? Con i buoni spesa? E anche una bibita?”. Spingeva gli amici a prendere per i fondelli i poveri che potevano a malapena permettersi di mangiare.

Quell’anno, insieme a me circa 47 milioni di famiglie fecero domanda per l’assistenza governativa. Le carte prepagate, distribuite dal dipartimento della Salute e dei Servizi Sociali da utilizzare come buoni spesa o sussidi in contanti, erano ormai la normalità alle casse dei supermercati. Le accettavano persino per le pizze da asporto, ma era raro che io li usassi per cose del genere. Mount Vernon, che con 33mila abitanti è la città più grande della contea di Skagit, divenne meta di una quantità di lavoratori per la stagione turistica, e molti di loro decisero di vivere lì stabilmente. Ma con l’aumento dei lavoratori stagionali venne a galla l’atteggiamento moralistico della regione.

Donna sembrava avere molto di cui lamentarsi in proposito. Per me erano diventati assolutamente vitali i 20 dollari all’ora e i 10 dollari di mancia che mi lasciava sempre, ma andare e tornare da casa sua mi portava via un’ora. Più o meno la metà delle volte lei era a casa. Un giorno stava uscendo per andare a comprare gli ingredienti per gli smoothies, dato che aveva appena preso un nuovo frullatore. “È per la nuova me!” strillò. “Ma stavolta vado alla cooperativa. Non mi piacciono più i grandi negozi di alimentari.”

“Oh, davvero?” chiesi, fingendo interesse. Donna adorava gli oli da bagno di Mary Kay: lasciavano una pellicola che aderiva come velcro alle pareti della vasca, intrappolando ogni pelo, ogni cellula di pelle morta. Era dura fare conversazione con Donna senza vedersi passare davanti quelle immagini. Non ho mai capito se si aspettava che mi fermassi a parlare o se dovevo continuare a pulire chiacchierando con la persona alla quale appartenevano i peli pubici e i peli delle gambe che dovevo scrostare dallo scarico della vasca idromassaggio.

“L’ultima volta che ci sono andata, sono finita in fila dietro a una famiglia messicana,” spiegò. “Hanno usato i buoni spesa per il cibo. E i loro figli erano vestiti come principini!”

Continuai a spolverare il davanzale del suo salotto buono, affollato di statuine di angeli con le mani giunte in preghiera. Le sue parole erano taglienti. Mi morsi la lingua. Pensavo a quanto Mia amasse i suoi bei vestitini e le scarpette lucide che avevo comprato a credito al negozio in conto vendita. Forse Donna non si rendeva conto che anch’io ricevevo i buoni spesa.

Volevo dirle che non era affar suo cosa quella famiglia comprava o mangiava o indossava, e che detestavo quando la cassiera del supermercato diceva “Lo addebito sulla sua carta di assistenza prepagata?” a voce abbastanza alta perché sentissero quelli in fila dietro di me. Volevo dirle che le persone prive di permesso di soggiorno non potevano ricevere sussidi alimentari, o rimborsi fiscali, anche se pagavano le tasse. Non potevano ricevere nessun benefit governativo, nessuno. I benefit erano a disposizione soltanto di chi era nato qui o aveva ottenuto i documenti che consentivano di restare negli Stati Uniti. Così quei bambini, i cui genitori avevano rischiato tanto, pur di assicurare loro una vita decente, erano cittadini che meritavano pienamente lo stesso sostegno pubblico che riceveva mia figlia. Lo sapevo, perché mi era capitato di incontrarli in moltissimi uffici governativi. Avevo ascoltato le loro conversazioni con assistenti sociali che stavano dietro a un vetro, con la difficoltà di comunicare per colpa della barriera linguistica. Ma pensare che gli immigrati fossero venuti qui per rubare le nostre risorse era un atteggiamento sempre più diffuso, e i pregiudizi assomigliavano a quelli che affrontava chiunque contasse sull’assistenza pubblica per sopravvivere. Chiunque usasse i buoni spesa non lavorava abbastanza duramente, o aveva preso decisioni sbagliate, che l’avevano portato nei gradini inferiori della società. La gente sembrava pensare che lo facessimo di proposito, che ingannassimo il sistema previdenziale, rubando il denaro delle tasse per sottrarre fondi al governo. Ora più che mai, così sembrava, i contribuenti compresi i miei clienti ritenevano che i loro soldi pagassero da mangiare a gente povera e pigra.

Donna si avviò al negozio di alimentari, inconsapevole di quanto fossi rimasta scossa per ciò che aveva detto. Dopo quell’episodio, andare a fare la spesa mi fece sentire doppiamente vulnerabile. Oltre ai post sui social media, ero certa che tutti scrutassero ogni mia mossa. Stavo attenta a non comprare cibi troppo raffinati o troppo frivoli. Se avevo bisogno di comprare con i buoni spesa un uovo di Pasqua o dei cioccolatini da mettere nella calza di Natale di Mia, andavo la sera tardi, usando la cassa self-service. Smisi di usare i coupon del WIC, quelli riservati all’alimentazione di Mia, per prendere il latte, il formaggio, le uova e il burro di arachidi, anche se ne avevo un gran bisogno, tanto mi sembrava di non riuscire mai a trovare la giusta confezione, marca, colore delle uova, il tipo di succo di frutta ammesso, o proprio quella quantità esatta di cereali. Ogni coupon portava scritto esattamente per che cosa si poteva utilizzare, e io trattenevo il respiro quando il cassiere batteva i miei acquisti. In un modo o nell’altro combinavo sempre qualche pasticcio e bloccavo la fila. Forse non ero l’unica, dato che alla cassa si mostravano decisamente seccati quando vedevano uno di quei grandi coupon WIC sul nastro trasportatore. Una volta, dopo una lunga serie di incomprensioni con la cassiera, una coppia anziana dietro di me cominciò a sbuffare e a scuotere il capo.

L’assistente sociale che mi seguiva all’ufficio WIC mi aveva avvertita. Il programma aveva di recente abbassato la qualità del latte da biologico a non-biologico, lasciando scoperta una parte del mio budget alimentare, una parte che non potevo permettermi di integrare. Se appena era possibile, cercavo di dare a Mia solo latte intero biologico. Il latte non-bio, al due per cento di grasso, per quanto mi riguardava poteva anche essere acqua colorata di bianco, zeppa di zucchero, sale, antibiotici e ormoni. Quei buoni erano la mia ultima possibilità, almeno per un po’, di dare a Mia il suo unico alimento biologico (oltre ai maccheroni al formaggio bio, marca Annie).

Quando avevo fatto dell’ironia sul non poter più comprare latte intero biologico, la mia assistente sociale aveva annuito e sospirato. “Non abbiamo più fondi per questo,” mi aveva detto. In un certo senso lo capivo, perché la confezione da due litri costava quasi quattro dollari. “Il tasso di obesità dei bambini sta aumentando,” aggiunse, “e il programma si concentra sulla qualità della dieta.”

“Non si rendono conto che il latte scremato è pieno di zucchero?” chiesi, lasciando che Mia scendesse dalle mie ginocchia per andare a giocare con i giocattoli che erano in un angolo dell’ufficio.

“Adesso ci sono anche 10 dollari per frutta e verdura!” si affrettò ad aggiungere con vivacità, ignorando il mio malumore. “Puoi comprare ogni vegetale fresco che vuoi, patate escluse.”

“Perché patate escluse?” Stavo pensando ai pentoloni di purè di patate che preparavo per integrare la mia dieta.

“La gente tende a farle fritte o ad aggiungere un sacco di burro,” disse, ma sembrava un po’ in difficoltà. “Però puoi prendere le patate dolci!” Spiegò che avrei dovuto comprare verdura per 10 dollari esatti o meno, senza mai sforare, altrimenti il coupon non passava alla cassa. Se la verdura che avevo scelto costava meno di 10 dollari, non mi avrebbero dato il resto in contanti. I coupon non avevano nessun valore monetario reale.

Quel giorno al negozio era l’ultimo mese in cui era possibile avere il latte biologico, e volevo comprarne quanto potevo.

“Il latte che ha preso non è del tipo ammesso dai WIC,” ripeté la cassiera. “Così non passa.” La donna fece per rivolgersi al ragazzo che stava imbustando i nostri acquisti, e sospirò. Sapevo che stava per dirgli di correre a prendere il latte giusto. Mi accadeva di continuo con le uova.

I miei buoni non erano scaduti, ma il negozio aveva già aggiornato il sistema di pagamento. Di solito, mi sarei fatta piccola piccola, avrei preso il latte non biologico, e sarei corsa via, specie considerando i due anziani che scuotevano la testa, seccati. Lanciai loro un’altra occhiata e vidi che l’uomo stava lì, con le braccia incrociate e il capo piegato, a fissare i miei pantaloni bucati alle ginocchia. Anche le mie scarpe stavano per bucarsi in punta. L’uomo sospirò pesantemente, di nuovo.

Chiesi di parlare con il direttore. La cassiera sollevò le sopracciglia stringendosi nelle spalle e alzando le mani verso di me, come se avessi estratto un fucile chiedendole di consegnarmi l’incasso.

“Certo,” disse, indifferente, fredda; la voce di un’addetta al servizio con il pubblico che affronta una cliente indisciplinata. “Glielo chiamo subito.”

Mentre il direttore si avvicinava, la cassiera, tutta agitata, lo seguiva, con la faccia paonazza, gesticolando, arrivando persino a indicarmi con il dito, per spiegare la sua versione della faccenda. Lui si scusò immediatamente e annullò il registratore di cassa. Poi passò il mio latte biologico come prodotto ammesso dai WIC, lo mise nel sacchetto e mi augurò una buonissima giornata.

Mentre spingevo il carrello, ancora con le mani che mi tremavano, il vecchio accennò con la testa ai miei acquisti e disse: “Ma prego, si figuri!”.

Mi infuriai. Prego per cosa? volevo gridargli in faccia. Perché aveva aspettato con tanta impazienza, sbuffando e brontolando con la moglie? No, non si trattava di questo. Il problema era che ero chiaramente povera, e facevo la spesa a metà della giornata, e quindi evidentemente non ero al lavoro. L’uomo non sapeva che avevo dovuto prendere un pomeriggio di permesso per l’appuntamento all’ufficio WIC, perdendo 40 dollari di paga, e che lì avevano pesato sia Mia sia me. Ne eravamo uscite con un carnet di buoni che corrispondevano più o meno ai soldi che non avevo guadagnato, ma che non rabbonivano il cliente contrariato che avevo dovuto spostare a un altro orario e che ora avrebbe potuto, se la cosa si fosse ripetuta, scegliere un’altra donna delle pulizie, perché il lavoro che facevo poteva essere fatto da chiunque altro, senza problemi. Ma ciò che il vecchio vedeva era che quei coupon erano pagati con denaro pubblico, il denaro al quale lui personalmente aveva contribuito con le sue tasse. Secondo la sua opinione, lui poteva benissimo comprare per sé il latte “di lusso” per il quale avevo insistito, ma io ero evidentemente povera, quindi non me lo meritavo.

I clienti come Donna, quelli che mi consideravano una buona amica, che mi regalavano album da colorare e pastelli per Mia, avrebbero fatto lo stesso se mi avessero visto nel negozio di alimentari? Come avrebbero considerato una donna delle pulizie che campava con i buoni spesa? Una gran lavoratrice o un fallimento? Ero così a disagio su questi argomenti che cercavo di restare sempre sul vago. A volte, mentre conversavo con una persona, mi capitava di chiedermi se la sua opinione su di me sarebbe cambiata, sapendo che usavo i buoni spesa. Avrebbero pensato che avevo meno valore?

Mi chiedevo come sarebbe stato avere abbastanza denaro da potermi permettere qualcuno che mi pulisse la casa. Non mi ero mai trovata in quella situazione, e onestamente dubitavo che mi sarebbe mai accaduto. Ma in quel caso, pensavo, gli avrei dato una grossa mancia, e probabilmente gli avrei offerto del cibo, e regalato delle candele profumate, perché no. Lo avrei trattato da ospite, non da fantasma. Una persona come me. Come Wendy, Henry, Donna e la Fumatrice avevano fatto con me.