18. La Casa Triste
Il sabato e la domenica, io e Mia ci alzavamo alla solita ora, anche se non dovevamo andare da nessuna parte. Le preparavo i pancake, cospargendoli di mirtilli che avevo raccolto e surgelato l’estate prima. Mi sedevo a tavola davanti a lei, tenendomi la tazza del caffè vicino alla faccia, e stavo a guardarla mentre ingollava i pancake un boccone dopo l’altro. Mi sorrideva con la bocca piena, le labbra tinte dai mirtilli. Io le restituivo il sorriso, cercando di nascondere le lacrime, cercando di immagazzinare quell’istante, per tornarci sopra quando ne avevo bisogno. Le nostre vite scorrevano troppo velocemente, nel caos vorticoso di lavoro, cena e nanna. Sapevo che presto non avrebbe più avuto quel caschetto di capelli da bambola. Ben presto avrebbe smesso di giocare con i My Little Pony che radunava in semicerchio davanti alla scodella. Ogni volta che sentivo il desiderio fortissimo di stare con lei, quando ero al lavoro o se lei era da Jamie, quelli erano i momenti che rivivevo mentalmente. Quelli di cui scrivevo.
Avevo iniziato a scrivere nei momenti in cui Mia stava facendo il bagno o era occupata in qualcos’altro: dieci minuti a mettere sul computer tutto quello che mi passava per la testa. A volte lo facevo al mattino durante i fine settimana, ed erano righe che parlavano del bel tempo, di come potevo godermelo, o di un posticino segreto che non vedevo l’ora di condividere con mia figlia. Altre volte scrivevo mentre Mia dormiva, dopo una giornata in cui lei mi aveva lasciato senza forze, ribellandosi a tutto, indistintamente. Cercavo di ritrovare nella memoria i momenti di tenerezza, di far emergere quel fuggevole legame primario che soltanto una mamma e un figlio possono condividere, e di metterli nero su bianco. Alla fine era più un libro per Mia che un diario. Sapevo bene che, anni dopo, avrei ricordato questo periodo come un tempo in cui le decisioni e gli impegni erano troppi, per una sola persona. Ma dovevo pensare a questi tempi anche con tenerezza, perché Mia sarebbe cresciuta fin troppo in fretta. Anche se vivevamo dove vivevamo, io facevo un lavoro orribile e non potevamo permetterci un granché, non avrei mai più riavuto quei giorni con lei. Scriverne era il mio modo per dar loro valore e creare un ricordo piacevole della nostra vita, delle nostre avventure. Magari, avrei potuto farne un libro che Mia un giorno avrebbe letto.
Il nostro posticino preferito sulla spiaggia era a Washington Park, sul lato ovest di Anacortes. Ci sedevamo sugli scogli, aspettando la bassa marea, per poi cercare piccole creature nelle pozze d’acqua che il mare si lasciava dietro.
“Guarda quel granchio, mamma!” diceva Mia. Io mi accucciavo, prendendo dal secchiello rosso di plastica la paletta gialla, e cercando di tirarlo su per guardarlo meglio. “Attenta che ti pizzica. Ti pizzicherà, mamma!” In lontananza, passavano i traghetti, e di quando in quando vedevamo una focena, un leone marino, o un’aquila. Io portavo nel bagagliaio dell’auto la biciclettina di Mia, e la mettevo a terra per farle percorrere l’anello asfaltato di tre chilometri, dimenticando quanto fosse lungo, così finivo per caricarmi in braccio sia Mia sia la sua bici per l’ultimo tratto. Tornando a casa, ci fermavamo in una gelateria che era lì da quando ero piccola. Esclamavo: “Oggi cena-gelato!”. Mia voleva soltanto cioccolato, e finiva per impiastricciarsi tutta la faccia.
In altri fine settimana, andavo online in cerca di cascate nascoste, ruscelli dove si potesse fare il bagno. Mettevo in un cestino con i manici di pelle una coperta, un cambio di abiti, un asciugamano, merendine per Mia, e in due minuti eravamo pronte a partire. L’unica spesa era la benzina per andare e tornare.
Quelli erano i nostri momenti più felici, forse grazie alla loro semplicità. La facevo andare in bici in città, correndole dietro, per andare a prendere una mela al negozio. Se, malauguratamente, pioveva, restavamo in casa, facevamo un puzzle, o costruivamo un fortino. A volte aprivamo il divano letto e permettevo a Mia di guardare tutti i DVD che voleva, come una serata di festa lunga un weekend.
Allora non lo sapevo, ma quei fine settimana, quella vita fatta di niente con Mia, era ciò a cui avrei ripensato con più nostalgia. Anche se alcune gite erano dei completi fallimenti, che finivano con scenate isteriche e scambi di urla che ci lasciavano entrambe a pezzi e svuotate di ogni energia, le ore passate con la mia bambina di tre anni erano preziose. Mi svegliava arrampicandosi nel mio letto, stringendomi le braccine attorno al collo, i morbidi riccioli che le incorniciavano il viso, sussurrandomi all’orecchio per chiedermi se quel giorno potevamo essere dei panda. D’un tratto, la mia settimana passata a digrignare i denti, decisa a farcela a ogni costo, svaniva. E ci libravamo, in una bolla di sapone, solo io e quella bimba straordinaria.
Erano gli unici momenti in qui potevo tacitare i pensieri, senza preoccuparmi che invece avrei dovuto lavorare o che forse non stavo facendo abbastanza. Al parco, sedute su una coperta, a condividere pane e formaggio, non mi importava che qualcuno potesse considerarci una “famiglia del welfare” che si approfittava del sistema pubblico. In quei giorni con lei non me ne importava niente. In quei pomeriggi, nel nostro piccolo mondo, eravamo tutto una per l’altra.
Arrivata a metà estate, ormai lavoravo per Classic Clean da sei mesi, e con loro avevo un orario regolare di 25 ore alla settimana. Inoltre, mi giostravo tra diversi clienti personali, pulendo case o giardini una o due volte al mese. Oltre ai regali occasionali della Fumatrice, altri clienti cominciarono a lasciarmi qualcosa sui ripiani della cucina. Henry lo faceva sempre. Sapeva che, dopo aver lasciato casa sua, andavo a prendere Mia e la portavo da suo papà. Una volta mi diede una scatola di ciambelle, un’altra volta una grande confezione di una marca molto cara di succo di mela.
La salute di Henry sembrava un po’ in declino. Le pillole sul ripiano del bagno si erano moltiplicate e, a giudicare dallo stato del suo water, ne era andato di mezzo lo stomaco. Ultimamente trovavo spesso a casa anche la moglie, che però passava la maggior parte del tempo al telefono, a litigare con le compagnie di assicurazione o con sua madre che, da quanto potevo capire, doveva essere trasferita da una casa di riposo per anziani a un’altra. Era bello vedere quei due insieme. L’esuberanza di Henry si trasformava in una dolcezza che avrei tanto desiderato da un mio compagno. Le preparava il tè. Discutevano su cosa andare a comprare per la cena. Henry diceva che avrebbe preparato “quella cosa là” che a lei piaceva, e lei lo abbracciava con foga prima di schizzare via. La signora si ricordava sempre di salutarmi, chiamandomi per nome, con gentilezza, con una tale sincerità che a volte mi aspettavo quasi che abbracciasse pure me.
Cercavo di ricordare quei momenti quando dovevo pulire la Casa Porno, dove aleggiava un’atmosfera carica di rabbia, o di malcontento. Non mi piaceva starci. Un biglietto sul ripiano diceva semplicemente CAMBI LE LENZUOLA, PER FAVORE. Almeno lei chiedeva per favore.
In occasione della Festa del papà, proprio mentre stavo pulendo la Casa Porno, avevo avuto un tremendo litigio telefonico con Jamie. Ecco perché stare lì me lo faceva venire in mente, per quanto cercassi con tutte le forze di cancellare quell’associazione.
Il litigio riguardava il cognome di Mia. Volevo cambiarlo con il mio. Prima o poi avrebbe cominciato la scuola, e ogni volta che la portavo dal dottore, mi chiedevano se fossi la madre. Non aveva senso che lei portasse il cognome di Jamie dato che viveva con me quasi tutto il tempo.
Jamie era decisamente contrario. Obiettava che in pratica non stavo mai con lei, che trascorreva la maggior parte della giornata in “quell’asilo schifoso”. Rimpiangevo di aver permesso che sua madre andasse a prendere Mia all’asilo, un giorno in cui dovevo lavorare fino a tardi: da allora Jamie si era servito contro di me della pessima opinione che la nonna se n’era fatta. Tuttavia, per lui non c’era modo che io facessi la cosa giusta. Se fossi rimasta a casa o avessi lavorato meno, mi avrebbe accusato di non darmi da fare, e che i suoi soldi per il mantenimento mi servivano per stare in panciolle. Se seguivo le lezioni, stavo perdendo tempo. Ora, evidentemente, anche lavorare troppo era un errore.
Quel giorno al telefono disse: “E non mi hai mai fatto gli auguri per la Festa del papà”. Avevo quasi finito di pulire la cucina, eliminando le chiazze di unto sul ripiano rosso mattone.
“Cosa?” dissi, ma era più un’esclamazione che una domanda. Mai una sola volta Jamie mi aveva fatto gli auguri per la Festa della mamma. Non mi aveva mai detto che ero una brava madre. La cosa più vicina a un elogio era stata dirmi che ero abbastanza in gamba da colpirlo nei punti deboli e manipolarlo per ottenere ciò che volevo. Perfino nell’estate in cui ci frequentavamo, credo che non mi abbia mai fatto i complimenti per il mio aspetto. Quando ero rimasta incinta, e soprattutto dopo la nascita di Mia, mi diceva spesso che ero brutta.
“Non mi hai mai detto che sono un bravo padre,” disse.
“Jamie, è perché non lo sei,” risposi. “Dai la colpa a tutti per tutto. Non ti assumi mai delle responsabilità. Tutto è sempre colpa di qualcun altro. Che cosa insegnerà questo, a Mia? Che cosa le insegnerai?” Mi allungai a spolverare il lampadario sopra al tavolo da pranzo.
“Insegnerò a Emilia un sacco di cose!” disse. Ancora una volta mi chiesi se tutti, a Port Townsend, continuassero a chiamarla Emilia. Lui si rifiutava di chiamarla Mia perché era il soprannome che io le avevo dato. Avevo cercato di spiegare che lei se l’era attribuito da sola, e che dava i numeri se la chiamavo con il nome vero. Aveva cercato di convincerla a usare un soprannome che suonava un po’ come Mi-lia, ma non aveva mai attecchito. Ogni volta che Jamie lo pronunciava mi chiedevo se la bambina, inconsciamente, non cambiasse identità, quando era con lui.
“Jamie, tu non sai nemmeno nuotare.” Era strano parlargli così. Lavorare a tempo pieno, fare tutto da sola, mi aveva reso più forte. Non avevo più intenzione di permettergli di farmi sentire una schifezza. “Che farai quando dovrà fare i compiti di matematica a casa? O dovrà scrivere una relazione? Come l’aiuterai?”
Non volevo punzecchiarlo. Erano preoccupazioni concrete. Jamie diceva sempre di voler studiare per il suo GED,******* oppure prometteva che quell’estate finalmente avrebbe imparato a nuotare, ma non manteneva mai le promesse. Invece, aveva sempre una scusa pronta o una storiella inverosimile: era colpa della sua mamma, perché aveva dovuto aiutarla a crescere il fratello minore. Adesso era colpa mia perché l’avevo costretto alla paternità, a fare una vita che non aveva mai voluto.
“So di essere un buon padre,” disse. Riuscivo a visualizzare la sua postura, petto gonfio, probabilmente il dito puntato a indicare se stesso, forse guardandosi allo specchio. “So di esserlo perché lei ha bisogno di me.” Lo sentii inspirare. Ah. Era all’aperto, fumava una sigaretta camminando avanti e indietro.
Era il mio turno di colpire, mentre andavo dal soggiorno alla camera da letto, piumino da spolvero in mano. Lo avevo visto mettere il broncio ogni volta che andavo a prendere Mia, fingendo di piangere fino a quando lei non si voltava a dargli un ultimo abbraccio. “L’hai manipolata, per convincerla di aver bisogno di te.”
Questo lo fece uscire dai gangheri. Conoscevo bene il suo modo di inveire e urlare. “Tutti in città dicono che sei soltanto una povera perdente. Non fai altro che frignare su questo e quello online, su Facebook e su quello stupido sito dove tieni un diario. Non hai nemmeno un vero amico. E nessuno amerà mai né te né le tue tette cadenti.”
A quelle parole riagganciai. Quando prendeva quella china, sapevo che le cose potevano solo peggiorare. Di solito tornava sul fatto che ero troppo grassa, o troppo brutta, o troppo secca, o troppo alta. Le “tette cadenti” erano una new entry. “Nessuno ti amerà mai” era la sua battuta preferita. Sapevo bene come piegava le labbra, in un mezzo sorrisetto, mentre la pronunciava, riuscivo a vederlo persino se eravamo al telefono. Quando vivevo con lui nel camper, mi chiamava “stupida fuori di testa”, oppure “pazza puttana”, ma ora arrivava a quel punto solo quando voleva ferirmi davvero.
Quel giorno, strofinando in preda alla rabbia, finii di pulire la doccia della Casa Porno in tempo record. Dopo aver lavato a mano il pavimento e aspettato che si asciugasse per rimettere i tappetini davanti al water e al lavabo, mi fermai in corridoio per riprendere fiato. Sulla parete a destra della porta c’erano ritratti di famiglia, foto professionali, entrambi i coniugi guardavano nella stessa direzione, con la stessa luce negli occhi.
Entrai in camera da letto. In un certo senso, la loro vita era molto simile a quella che volevo: una casa comoda con un grande giardino. Non mi interessava una proprietà di lusso, affacciata sull’oceano, ma sarebbe stato carino essere circondati da un giardino con qualche albero svettante. Restai a fissare il flacone di lubrificante sul comodino, accanto alla sveglia, chiedendomi con quale frequenza facessero sesso insieme.
Ma forse quella era la vita che credevo di volere, e quella che davvero sognavo era lì accanto, nella Casa Triste. Quel giorno, dopo aver litigato con Jamie, ci tornai dopo mesi. Lui era stato male. O ricoverato all’ospedale. O entrambe le cose. Da quanto potevo capire, quell’uomo aveva sposato il suo grande amore. Poi lei era morta, precocemente, e lui era rimasto solo, proprio negli anni in cui aveva più bisogno che qualcuno si occupasse di lui. La Casa Porno e la Casa Triste sembravano dettare lezioni di vita opposte, dimostrare che qualsiasi siano le circostanze, tutti finiamo soli, in un modo o nell’altro. Il marito della Casa Porno, a masturbarsi mentre la moglie faceva il turno di notte o leggeva romanzi d’amore in un’altra stanza. E il vedovo.
Quanto a me, essere sola cominciava a non pesarmi troppo. Io e Mia eravamo diventate una squadra. Mi piaceva non dovermi preoccupare che il mio partner stesse bene, o stressarmi perché sospirava, annoiato, chiaro segnale che aveva voglia di andarsene. Non dovevo mai chiedere a un’altra persona che cosa volesse per cena. Io e Mia potevamo cenare con un gelato, senza timore che l’altro si sentisse escluso o mi giudicasse una cattiva madre.
Il nostro monolocale aveva i suoi lati negativi. Ma era il nostro spazio. Potevo spostare mobili come volevo, in qualsiasi momento. Potevo lasciarlo in disordine o pulirlo ossessivamente. Mia ballava il tip tap e saltava dal divano a terra senza che nessuno le dicesse di stare ferma e zitta. Quando avevo cominciato come donna delle pulizie, credevo che avrei passato le giornate a desiderare cose o a invidiarle. La sera, tornavo in un luogo che non solo chiamavo casa, ma che sentivo anche come tale. Era il nostro piccolo nido, dal quale, un giorno, avremmo spiccato il volo.
Dopo aver terminato la Casa Porno, cercai di trasportare tutto il materiale fino alla Casa Triste facendo un solo viaggio. Il tempo era umido, scendeva una pioggerellina nebbiosa. Tempo che favoriva la muffa. Tempo che mi faceva rabbrividire dal disgusto, con tutta quella muffa e quel muschio.
Aprii la porta finestra scorrevole con il mignolo, perché avevo le mani occupate dal materiale per le pulizie. La porta dava sulla cucina e, appena entrata, sentii l’odore di trucioli di legno e dopobarba, tipico della Casa Triste. Stavo per posare il materiale, quando mi voltai e cacciai un urlo.
La faccia dell’uomo era coperta di piaghe aperte. Mi pentii immediatamente di aver urlato; mi veniva da piangere. In precedenza non l’avevo mai trovato in casa, e non l’avevo mai conosciuto. E ora avevo urlato vedendo la sua faccia, che mostrava segni evidenti di quello che stava passando.
“Mi… mi spiace tanto,” dissi, riuscendo a stento a tenere in mano il contenitore dei detergenti, la borsa degli strofinacci, il sacchetto della spazzatura pieno di stracci usati.
“No, no, mi spiace averla colta di sorpresa,” replicò lui. “Stamattina ci ho messo un po’ di più ad alzarmi. Adesso mi tolgo di mezzo. Stavo proprio per uscire.”
Mi scostai dalla porta scorrevole per farlo passare. Nessuno di noi propose di presentarci o di stringerci la mano. Lo osservai avviarsi alla porta laterale del garage. Dalla finestra, vidi la Oldsmobile beige percorrere il vialetto e allontanarsi. Chissà dove stava andando, dove sentiva di dover andare per quelle poche ore.
La cucina era esattamente come al solito, fatta eccezione per i pochi piatti nel lavello e sui ripiani. Il bancone era zeppo di conti per prestazioni mediche, istruzioni per i farmaci e moduli di dimissioni dell’ospedale. Quando Lonnie mi aveva chiamato per dirmi di andare alla Casa Triste quella settimana, aveva detto che la proprietaria della Casa Porno si occupava di lui, forse perché era un’infermiera, o semplicemente perché lui non aveva nessun altro.
Le coperte del letto erano scostate, come le aveva lasciate alzandosi. L’altro lato era ancora fatto, quasi esattamente come lo avevo lasciato io l’ultima volta che ero andata a pulire, con i cuscini ornamentali al loro posto. Le lenzuola erano punteggiate di sangue. Tolsi completamente le coperte e con cautela presi tra due dita gli angoli delle lenzuola per radunarle al centro, poi levai le federe dai cuscini e cacciai il tutto dentro a una di queste. Andando a sistemare la biancheria nella lavatrice, passai dal bagno. A terra c’erano parecchie macchie di sangue, avevano installato un nuovo corrimano accanto al water e uno nella doccia, e un sedile nella vasca da bagno.
Prima di morire, la moglie aveva collezionato sassi, casette per uccelli e nidi, allineati sui davanzali del soggiorno. Avevano passato molto tempo a viaggiare in Centro e Sud America. La moglie era stata un’insegnante. La immaginavo riportare dai viaggi bamboline e piccole opere di artigianato, per decorare la sua aula o da mostrare agli studenti. Forse insegnava spagnolo.
La Casa Triste aveva l’aria di essere stata una casa di vacanza, oppure un modo escogitato da genitori rimasti in un nido ormai vuoto per non starsene a piangere su stanze deserte, inutili, dove i figli non dormivano più. Avevano avuto due ragazzi. Uno era morto, e l’altro viveva in zona ma sembrava che non venisse mai a trovare il padre. Spesso mi chiedevo se non li avesse persi tutti nello stesso momento, forse la moglie e il figlio erano rimasti vittime di un incidente, e il lutto aveva portato l’altro ad andarsene. Mi inventavo storie basate su ciò che trovavo in giro per la casa: fotografie, appunti scarabocchiati su un foglio, una cartolina incorniciata con la vignetta di un uomo e una donna nudi che si tenevano per mano, e la didascalia che diceva REGOLE DELLA CASA: RISPARMIATE L’ACQUA. FATE LA DOCCIA INSIEME. La Casa Triste mi sembrava congelata nel passato, progetti lasciati a metà, quadri nella cabina armadio che attendevano ancora di essere appesi alle pareti. La lista delle cose da fare della moglie era ancora attaccata con una puntina alla lavagna di sughero in cucina, su un foglio ormai ingiallito. Comprare canna per innaffiare. Sistemare il chiavistello del cancello. La immaginavo mentre strappava le erbacce dalle aiuole, per poi rientrare in cucina a bere qualcosa in tutta fretta prima di rimettersi al lavoro. Sotto il foglio c’era la ricevuta che aveva firmato per i lavori di giardinaggio. Non c’era la data.
Più o meno a metà delle mie sei ore di lavoro, tirai un grosso sospiro e agganciai un flacone di detergente spray alla tasca dei pantaloni. Spruzzai leggermente uno straccio con acqua e aceto e me lo cacciai nell’altra tasca per usarlo per spolverare. Poi ne presi un altro per strofinare lo sporco. Ma la Casa Triste non era mai sporca.
I numerosi medicinali in bagno sembravano aumentare di volta in volta. Li spostavo per strofinare il ripiano, prima di passare alla vasca da bagno. C’era quella mensola di vimini. La prima volta avevo aperto la scatole delle ceneri soltanto per curiosità. Da allora non riuscivo a fare a meno di controllare se erano ancora lì. Chissà se il padrone di casa ne aveva sparse un po’, tenendo queste per sé. Chissà se gli era di conforto averle lì, dietro di sé, mentre si pettinava.
Sul bancone della cucina, il mucchio di fotografie era parzialmente coperto da documenti dell’ospedale. Cercai degli indizi nelle foto, pensando di trovare qualcosa di diverso. Ma erano sempre le stesse, persone accanto a griglie piene di hamburger e pesce e l’uomo della Casa Triste in piedi, tutto fiero, con i figli vestiti di rosso, bianco e blu che tenevano in alto i bastoncini con le stelline pirotecniche. In fotografia tutti sorridono, ma l’uomo era raggiante, come un bimbo che mostra il primo pesce pescato in vita sua. Aveva fatto tutto per bene. Tutti quegli oggetti e le foto lo indicavano come una persona che aveva realizzato in pieno il sogno americano. Eppure era lì, solo.
Non mi lasciava mai appunti o biglietti sul ripiano. Non mi aspettavo che lo facesse, non pensavo che dovesse darmi anche una mancia o una gratifica natalizia. Sembrava strano vederla in questo modo, ma l’uomo mi aveva fatto un altro genere di regalo. La Casa Triste mi aveva fatto osservare meglio il piccolo spazio che condividevo con Mia, la stanza in cui abitavamo. Avevo visto che era una casa, piena d’amore, perché dentro c’eravamo noi. Non avevamo belle auto, o una casa sulla scogliera sovrastante la spiaggia, ma avevamo noi stesse. Potevo godere della sua compagnia, invece di vivere sola in una casa piena dei suoi ricordi. I miei problemi con la solitudine, il desiderio di compagnia continuavano a tormentarmi, ma non ero sola. Mia mi aveva salvato.
******* GED: General Education Development, un test di verifica liceale. [N.d.T.]