19. La Casa di Lori
L’estate cominciò a declinare, e il sole tramontava lentamente, riempiendo le sere nel nostro monolocale di rosa, arancione e porpora, e non più dell’afa che lasciava le lenzuola zuppe di sudore. Mia riprese ad addormentarsi prima delle nove, lasciandomi sola al nostro piccolo tavolo da cucina. In quelle notti, ascoltavo le auto che filavano sull’autostrada e i ragazzi del vicinato che chiacchieravano seduti sul marciapiede sotto casa, con il fumo degli spinelli che saliva a volute fino alla mia finestra. Stavo lì, troppo stanca per leggere un libro, tenendo davanti, invece, la mia agenda, nel tentativo di memorizzare i venti clienti che si alternavano settimanalmente, due volte al mese e mensilmente. Gran parte delle case mi richiedeva tre ore di lavoro, e di solito avevo due o a volte tre case ogni giorno.
Come madre single di trentadue anni con diversi tatuaggi, non avevo mai avuto la sensazione che io e Mia rientrassimo nella nicchia conservatrice del quartiere. Mia indossava per giorni il costume da scimmietta o il tutù, e i suoi capelli erano un ammasso scompigliato di riccioli. Quando facevamo la spesa nei negozi di alimentari, eravamo in netto contrasto con le signore perbenino, mamme a tempo pieno. Le incrociavamo davanti agli scaffali dei cereali, con le loro grandi, luccicanti fedi nuziali, le loro piccolette al seguito vestite a modino, i capelli ancora ben tesi nelle code di cavallo e fermati con le forcine, come quando erano uscite di casa al mattino.
Una donna, però, guardò verso di me e si aprì in un sorriso cordiale. Era una delle vecchie amiche della mia mamma, ma non ricordavo il suo nome. Mi chiese come stavamo e dove vivevamo. Quando glielo dissi, mi chiese se Mia andasse all’asilo dietro Madison, la scuola elementare che avevo frequentato per alcuni mesi prima che la mia famiglia si trasferisse in Alaska. Scossi il capo.
“Ho alcune limitazioni sulla scelta della sua scuola,” risposi, aspettando che si mostrasse confusa prima di spiegarmi meglio. “La scuola materna deve accettare il sussidio statale che ricevo per la bambina, e le scuole private non lo fanno.” Avevo chiamato la Montessori di zona e altre scuole private, offrendomi di pagare l’iscrizione di Mia facendo le pulizie, ma nessuna aveva accettato. A Mia avrebbe fatto un gran bene l’ambiente più stimolante di una scuola materna con un programma prescolastico, invece di un semplice asilo. Cercavo di compensare leggendole qualcosa ogni sera per almeno trenta minuti.
“L’asilo di Nonna Judy è collegato con lo YMCA, e sono abbastanza sicura che accetterebbe il sussidio statale,” disse la donna.
“Nonna Judy?” chiesi, prendendo in braccio Mia, che per la terza volta aveva tentato di nascondersi sotto la mia gonna. La donna allungò la mano per sfiorare con dolcezza la guancia di Mia, che scostò il viso guardando indietro e si irrigidì.
“Gestisce l’asilo. È davvero una specie di nonna per i bambini,” spiegò. “I miei figli passano ancora a trovarla. Il centro è in uno di quei fabbricati dietro alla scuola, ma Judy è talmente brava che è quasi come mandarli dalla nonna.”
In effetti, una settimana dopo, Nonna Judy ci accolse a braccia aperte. Durante uno dei nostri primi incontri, mi portò nel suo ufficio per stare in pace e conoscerci meglio. Forse mi aveva beccato in una brutta giornata, o in un periodo in cui mi sentivo molto fragile e schiacciata dalle responsabilità, ma mentre me ne stavo lì seduta a raccontarle la nostra vita quotidiana, scoppiai a piangere. Judy mi porse un fazzoletto di carta e disse: “Sei una madre splendida. Lo vedo. E so riconoscere una brava madre, quando ne vedo una”. La guardai, tirai su con il naso, e mi resi conto che fino a quel momento nessuno me lo aveva mai detto. Non le ci volle altro per farmi sentire in famiglia.
Sapendo che Mia passava il giorno in un ambiente così stimolante, mi pesava meno stare lontano da lei per lavorare. Accettai tutte le case che potevo, riempiendo i buchi nell’orario della Classic Clean con i miei clienti personali. A loro chiedevo il doppio rispetto a quanto mi dava l’agenzia. Per un mese, quell’estate, i conti furono pagati. Io e Mia eravamo una coppia inseparabile, cantavamo The Perpetual Self di Sufjan Stevens o, come diceva Mia, la “canzone Uh-Oh”. “Everything is lost! Uh-oh!” La chiamavamo la canzone del buon mattino, la ascoltavamo sempre prima di andare lei all’asilo e io al lavoro, e ci faceva sentire alla grande. Avevamo la nostra routine. All’arrivo dell’autunno, mi preparai ad aggiungere una bella quantità di lezioni online, e a perdere ore di sonno. La sera bevevo una grande tazza di caffè per stare sveglia a terminare i compiti. Durante i fine settimana, studiavo. Ero stremata, ma per me la scuola era il lavoro più importante. Era il lavoro che ci avrebbe portato a fare grandi cose.
Pam e Lonnie stimavano il tempo necessario a pulire una casa in base alla loro velocità. Ma erano donne di mezza età e non in ottima forma, mentre io ero diventata un ninja. Dopo parecchi mesi di lavoro a tempo pieno, mi ero dovuta procurare una cintura per tenere su i pantaloni. Non riuscivo a ingrassare, per quanto ci provassi. Se finivo una casa più in fretta del tempo previsto, mi dicevano di rallentare. Se i clienti d’un tratto si fossero ritrovati a pagare meno di quanto stabilito in origine perché io ero più veloce, in seguito si sarebbero aspettati sempre la stessa cifra. Dovevo mantenere gli orari prefissati, per correttezza nei confronti di chiunque, in futuro, mi avrebbe sostituito.
In alcuni casi, ciò significava che avevo il tempo per sfogliare i libri che trovavo sui comodini o in cucina. Cominciai a osservare l’aumento delle scorte di alcol, il cioccolato nascosto in giro, i sacchetti dei negozi di lusso che restavano chiusi e intonsi per mesi. Mi affascinava capire in che modo la gente affrontava la vita. Ficcavo il naso perché mi annoiavo e, in un certo senso, quello divenne il mio modo di affrontare la vita.
Cominciarono a piacermi le case dove trovavo delle persone. Apprezzavo i venerdì mattina con Henry. Non curiosavo mai nelle abitazioni dove non ero soltanto una presenza invisibile, dove il mio nome segnato sul loro calendario era STEPHANIE e non IMPRESA DI PULIZIE o anche DONNA DELLE PULIZIE. E non ho mai guardato tra le cose dei clienti che avevo trovato da sola e non attraverso Classic Clean. Ci rispettavamo a vicenda e, nel corso del tempo, alcuni diventarono amici. Curiosare era come scoprire indizi, trovare prove delle vite segrete di persone che sembravano avere tutto ciò che desideravano. Erano ricchi e avevano le case a due piani del sogno americano, bagni con lavandini di marmo, studi con bovindo affacciati sul mare, eppure nelle loro vite mancava qualcosa. Mi incantavano gli oggetti nascosti negli angolini bui e i libri di autoaiuto per la ricerca della felicità. Forse avevano solo corridoi più lunghi e armadi più capienti per nascondere ciò che li spaventava.
La Casa di Lori era stata costruita apposta per lei e per chi sapeva come occuparsi della sua malattia, la còrea di Huntington. Passava la maggior parte della giornata su una poltrona imbottita sistemata davanti alla tv. Riusciva a malapena a parlare, ma i badanti sembravano capirla. I suoi arti avevano vita propria, le gambe a volte scattavano dritte in avanti. Le persone che si occupavano di lei la facevano mangiare, la lavavano e la aiutavano ad andare al bagno. Mentre io spolveravo il televisore e le mensole piene di fotografie, Lori mi seguiva con occhi scuri, attenti.
Passavo da lei sei ore un martedì sì e uno no. Era una grande casa, progettata dal marito; lui aveva un loft al piano di sopra dove stava a dormire la maggior parte dei fine settimana. Lori aveva uno staff di badanti a rotazione, ma Beth sembrava essere sempre di turno quando arrivavo io. Mi offriva un caffè, e anche se accettavo di rado, spesso chiacchieravamo mentre io lavoravo.
Il mattino precedente la seconda o terza visita alla Casa di Lori, il lettore DVD portatile che Travis aveva regalato a Mia per il compleanno si ruppe. Mia scoppiò a piangere e a scalciare dal suo seggiolino. Ormai il lettore era diventato quasi indispensabile durante i nostri lunghi tragitti in auto. Avrò ascoltato almeno un centinaio di volte la canzoncina di Elmo che parla di orecchie e nasi. Così quando arrivai a casa di Lori ero un fascio di nervi e corsi a portare tutto il mio materiale nel bagno padronale, una stanza più grande di tutto il mio appartamento.
Avevo bisogno di restarmene lì, lontano da Beth, per riprendere il controllo. Era l’unico locale del piano principale della casa dotato di una porta. La vasca era circondata da finestre, e dovevo salire sul bordo per pulire i davanzali. E non puoi nemmeno permetterti di sostituirlo, era il pensiero che mi risuonava in testa, forte e violento. Il corpo si chiuse in se stesso e mi sedetti, ansimando, tenendomi stretta al petto le ginocchia e cullandomi. Il lettore DVD costava meno di 100 dollari, ma non potevo permettermi di comprarne uno nuovo. Quel pensiero scatenò una spirale di tutte le altre cose che non potevo dare a mia figlia: una casa decente, una famiglia, una stanza tutta sua, una dispensa piena di cibo. Mi abbracciai le ginocchia più forte, senza curarmi di asciugarmi le lacrime, sussurrando il mio mantra per interrompere il vortice negativo di paura che mi attanagliava. Per confortarmi, per fermare la spirale discendente che portava al panico.
Ti amo. Sono qui per te. Ti amo. Sono qui per te.
Quando non avevo casa, un terapeuta mi aveva fatto conoscere i mantra, ma si trattava di frasi come “nessuno muore per un attacco di panico”, oppure dovevo immaginare mia figlia sull’altalena e accordare il mio respiro alla velocità del suo dondolio. Niente di tutto ciò funzionava. La mia mente aveva bisogno di sapere che là c’era qualcuno in grado di sistemare le cose. Quell’estate, a denti stretti, avevo deciso che quella persona ero io, non un uomo o una famiglia, e che sarei sempre stata io. Dovevo smetterla di sperare che arrivasse qualcuno ad amarmi. Dovevo farlo da sola, affrontare a testa bassa tutto ciò che la vita mi presentava.
Dopo la mattina in cui si era rotto il lettore DVD, ogni volta che pulivo la vasca da bagno di Lori, mi sembrava di vedere l’ombra del mio corpo in quel giorno, mentre mi cullavo e mormoravo tra me e me, in attesa di riprendere a respirare normalmente. E a volte una me stessa più matura, più saggia, pronta a offrire un affettuoso gesto di conforto restava lì in piedi, a osservare quel fantasma, la precedente versione di me, con compassione. Imparai a contare su quella me più saggia anche nei momenti di panico. La donna che, di qui a dieci anni, sarebbe riuscita a sfuggire anche alle fiamme dell’inferno. Dovevo solo continuare ad avere fede nella sua esistenza.
Un martedì chiamai Pam per chiederle se potevo suddividere le pulizie alla Casa di Lori in due giorni, o forse, solo per quella volta, limitarmi a tre ore di lavoro. Mia era malata da parecchi giorni, con la sinusite e per sovrappiù anche la congiuntivite. Non potevo portarla all’asilo, e non potevo permettermi di perdere altro lavoro. Quella mattina avevo chiamato Jamie per chiedergli di tenerla con sé per qualche giorno. Pensavo di portarla prima al pronto soccorso, per poi accompagnarla in auto all’attracco dei traghetti, dove dovevamo incontrarci con lui, e infine tornare alla Casa di Lori, dove avrei lavorato fino a tardi per terminare le pulizie.
Io e Mia dormivamo spesso insieme nel mio letto singolo, e non era la situazione ideale nemmeno quando stava bene. Nel sonno si agitava, mi assestava calci, mulinava le braccia, cacciandomi il pugno nell’occhio. Già da parecchi giorni si svegliava più volte, in lacrime, per il naso chiuso, la febbre e il malessere generale, chiamandomi per essere consolata. Erano giorni che non dormivo bene.
Da quando ero una mamma single, mi ero riferita alle diverse fasi della nostra vita come “un livello di stanchezza mai raggiunto prima”. La maggior parte delle giornate sembravano andare alla deriva, come una barca senza motore, persa in una fitta nebbia. A volte, la nebbia si diradava un po’; riuscivo a vedere, a pensare, a scherzare e a sorridere e a ridere e, per un pomeriggio, a sentirmi me stessa. I momenti così erano stati rari, da quando eravamo sole. Da quando non avevamo una casa. Da quando lottavo giorno dopo giorno per non dover tornare in un rifugio per senzatetto. Eppure mi stavo preparando mentalmente ad affrontare un altro livello di stanchezza: aggiungere ancora altre ore di studio all’agenda che con tanto impegno avevo riempito di ore di lavoro. Era raro che mi interrogassi su “come” fare le cose. Sapevo quello che andava fatto. E lo facevo.
Dal parcheggio davanti alla farmacia, chiamai la mia responsabile e Jamie per metterli al corrente del mio programma. Dissi a Lonnie che sarei arrivata da Lori di lì a qualche ora; ci voleva più di un’ora solo per andare all’appuntamento con Jamie e lasciargli la bambina. Al telefono, la voce di Jamie arrivò filtrata dalla sua estrema irritazione, ma lo ignorai. Non gli piaceva darle le medicine, non si fidava dei dottori, e diceva che era colpa dell’asilo se Mia si ammalava di continuo. Quella mattina non avevo tempo di starlo a sentire, e questo lo fece innervosire ancora di più. Tagliai corto, dicendogli che gliela avrei portata con tutte le medicine e le istruzioni, e di fare esattamente come avevano detto i dottori.
“Quegli antibiotici la fanno solo stare peggio,” disse Jamie con tono beffardo. Lo diceva ogni volta che Mia doveva prenderli per una sinusite o un’otite. Anche a me non piaceva darle gli antibiotici, sapendo che nascondevano il vero problema: era il nostro stile di vita, il luogo in cui abitavamo, a farla ammalare. Ma al momento non c’era altra scelta.
“Fallo e basta, Jamie,” dissi. Chiusi la comunicazione, alzando gli occhi al cielo. Poi mi girai a guardare Mia sul seggiolino dietro di me. Indossava una maglietta rossa con disegnato un cavallo con il cappello da cowboy e un paio di leggings bucati sulle ginocchia. Aveva in grembo un nuovo giocattolo per il bagnetto che le avevo comprato per cinque dollari da Walmart: una Sirenetta, con la coda che passava da azzurra a rosa quando veniva messa nell’acqua calda. Mi guardò, un po’ intontita dalla sinusite, gli occhi arrossati con grumi appiccicosi negli angoli. Le diedi un colpetto al ginocchio, le massaggiai un po’ la gamba, poi mi girai, feci un bel respiro, e avviai la macchina.
Ci stavamo dirigendo a ovest, verso la costa, sulla Highway 20. La percorrevo fin da piccola tra Mount Vernon e Anacortes. Un tratto, in particolare, mi ricordava una sera – dovevo avere più o meno l’età di Mia – in cui avevo guardato le stelle mentre tornavamo a casa dopo essere andati a trovare i miei bisnonni. Era la vigilia di Natale, e io mi sforzavo di cercare la luce rossa del naso della renna Rudolph. Mia era la settima generazione della nostra famiglia a essere nata in questa zona. Avevo sperato che quelle profonde radici ci dessero stabilità, ma non era stato così. Erano ormai troppo lontane, sepolte per sempre. La storia della mia famiglia ci sfuggiva. Mi ero ormai stancata di chiedere ai miei parenti se volessero vedere Mia, e avrei tanto voluto nonni, zie e zii che assomigliassero ad alcuni dei miei clienti, con le case piene di fotografie, con i numeri telefonici dei figli registrati per chiamarli premendo un tasto, una cesta piena di giocattoli in un angolo, sempre a disposizione dei nipotini. Invece avevo brevi istanti di ricordi suscitati da un’autostrada, ricordi radicati in me così profondamente che potevano quasi essere scambiati per un tesoro.
Quando mi accadeva di grattare troppo a lungo il fondo della mia disperazione, pensavo a queste cose. Anche se ero grata che Jamie potesse tenere Mia per quella settimana, sapevo che mi sarebbe costato caro. Jamie l’avrebbe usato contro di me, me l’avrebbe rinfacciato al momento di umiliarmi perché lavoravo troppo, citato come una ragione per la quale Mia avrebbe dovuto vivere con lui.
“Mammina,” disse Mia dal sedile posteriore. “Mammina.”
“Dimmi, Mia.” Guidavo tenendo il gomito premuto tra il finestrino e la sommità dello sportello, reggendomi la fronte con la mano.
“Puoi abbassare il mio finestrino?” chiese, la vocina da malata un po’ stridula. “Voglio far volare indietro i capelli di Ariel, come nel film.” La accontentai, per quanto ridicolo possa sembrare. Avevo semplicemente bisogno di arrivare al lavoro. Avevo bisogno di finire il lavoro. Avevo bisogno di dormire.
Oltrepassammo il canale che separa la terraferma da Whidbey Island. Lanciai un’occhiata a destra, mentre un vecchio Ford Bronco marrone ci superava. Incrociai lo sguardo del guidatore, lui mi sorrise, poi indicò il finestrino di Mia, esattamente nell’istante in cui vidi un lampo di capelli rossi nel lunotto, alle spalle di Mia.
“La mia Ariel!” strillò lei, scalciando contro il sedile davanti. Aveva tenuto Ariel troppo fuori dal finestrino, e le era sfuggita di mano.
Strinsi i denti continuando a guardare davanti a me. Mia piangeva come se avessi investito un cucciolo. Dopo la curva seguente c’era un semaforo, dove potevo fare un’inversione a U. Ho tempo, pensavo, posso tornare indietro, fermarmi sul lato est dell’autostrada, saltare fuori, agguantare la bambola, e poi prendere la prossima uscita, passare sotto il ponte, ritornare indietro, ed eccoci di nuovo sulla strada giusta. Sembrava logico, mentre guidavo a più di novanta all’ora annebbiata dalla stanchezza, con una bimba che strillava dal sedile posteriore.
“Torno indietro a prenderla!” gridai per far smettere quegli strilli insopportabili. La testa mi scoppiava per la mancanza di sonno e le due tazzone di caffè che mi ero bevuta quella mattina per tenermi sveglia. Dopo giorni e giorni passati a prendermi cura di una bambina malata, avevo un disperato bisogno di una pausa. Volevo soltanto che quegli strilli finissero.
Dopo aver fatto inversione di marcia, restai sulla sinistra, accelerando per poi rallentare di nuovo, avvicinandomi alla banchina stradale di sinistra. Era settembre, una giornata stranamente calda. Scesi dall’auto; il vento delle auto che sfrecciavano era afoso, e soffiava attraverso la mia maglietta verde preferita, consumata dagli anni. Rovistai nell’erba che separava le due corsie di marcia, tenendo ferma con la mano la coda di cavallo che mi schiaffeggiava il viso. Dovevo sembrare ben strana, a cercare una bambola tra le carte di caramelle e le bottiglie di bibite piene di piscio che avevano buttato nello spartitraffico.
Finalmente, scorsi un ciuffo di capelli rossi. Mi avvicinai; era Ariel. Ma solo la sua testa. “Merda,” mormorai a denti stretti e poi guardai di nuovo verso l’auto, con un sussulto, con un improvviso peso sullo stomaco. Era stata una pessima idea. Mia avrebbe pianto fino a Port Townsend per una bambola che ora era rotta, e non smarrita. Forse il suo papà avrebbe potuto aggiustarla, incollarla insieme in qualche modo. Poi vidi la sagoma della coda, aperta in due, ma nessuna traccia della parte superiore del corpo, con il bikini fatto di conchiglie. “Merda,” ripetei. Mi chinai a raccoglierla, e a quel punto lo sentii.
Il rumore di metallo che si accartoccia e di vetro che esplode, contemporaneamente. Era il rumore degli incidenti in cui mi ero ritrovata da ragazzina, ma non avevo mai sentito niente del genere.
Un’auto. Che colpiva un’altra auto. La mia auto. La mia auto con Mia sul sedile posteriore.
Quel rumore era il finestrino vicino alla testa della mia piccola che esplodeva, che scoppiava come una sfera di vetro.
Lasciai cadere la testa di Ariel, urlai, e corsi. Non è possibile, pensavo, correndo. Non è possibile. Arrivata all’auto, il mio urlo si era trasformato in un ripetuto No. No. no-no-no.
Aprii lo sportello dietro al sedile del guidatore e mi ritrovai davanti il seggiolino di Mia, che era stato strappato dal suo posto. Il lunotto posteriore non c’era più. Gli occhioni spalancati di Mia erano fissi nei miei, la bocca aperta in un urlo silenzioso. Respirai e lei allungò le braccia verso di me. Spostai il sedile dell’auto. Sotto quello di Mia, il fondo dell’auto era piegato, accartocciato verso l’interno e verso l’alto, fino quasi a toccarle i piedini. Lei li teneva in alto, i suoi piedini, protetti solo dai sandali con le lucine.
La sganciai dal seggiolino e subito sentii le sue braccia attorno al mio collo, mentre le gambe spingevano contro il seggiolino con tanta forza da farci arretrare dall’auto. Si aggrappò a me con le gambe, e io la tenni stretta singhiozzando, distogliendola dai rottami.
Le auto passavano nelle due direzioni rallentando, e i guidatori sporgevano la testa dal finestrino per vedere l’incidente. Io ero in piedi sulla mezzeria erbosa, a circa tre metri all’auto dalla quale dipendeva la nostra sopravvivenza, aggrappata alla mia piccola di tre anni, con la sensazione che tutto attorno a noi avesse cominciato a vorticare come un ciclone.
L’altro guidatore, un ragazzino smilzo con i capelli tenuti dritti in testa con il gel, si avvicinò uscendo dalla sua auto, che si era fermata a una trentina di metri di distanza. Aveva un taglio profondo sopra l’occhio sinistro. La camicia bianca botton-up a maniche corte svolazzava nella brezza, rivelando una canottiera a coste.
“Tutto bene?” disse. Poi, gli occhi incollati su Mia. “Oh mio Dio, era nell’auto?”
“Ma certo che era nell’auto, maledettissimo idiota!” strillai con una voce del tutto nuova, che non avevo mai sentito prima. Non sembrava nemmeno la mia. “Ma come hai fatto a tamponare la mia maledetta macchina!?” Lui non replicò. “Ma come hai fatto a tamponare la mia maledetta macchina!?” ripetei. E continuai a ripeterlo, e a ripeterlo, rivolta non so a chi, affondando le parole nella spalla di Mia. Come ci era potuto accadere? Com’era possibile che fossimo lì, in mezzo all’autostrada, da sole, con un’auto in rottami che dovevo ancora finire di pagare, che mi serviva per lavorare, indispensabile alla nostra sopravvivenza? Quella era la nostra auto, fondamentale quanto un braccio o una gamba per permetterci di andare avanti.
Il ragazzo fece un passo indietro, e io premetti la fronte contro quella di Mia chiedendole di nuovo se stesse bene.
“Sto bene, mamma,” rispose, con una voce insolitamente tranquilla e calma. “Stiamo bene.”
“Stiamo bene?” dissi, ansimando. “Stiamo bene?”
“Stiamo bene,” ripeté lei. “Stiamo bene.” La tenni stretta, sentendo che stavo passando dal panico alla desolazione.
Una mano fresca mi sfiorò la spalla e io mi girai di scatto, pronta a ridurre in polpette quel ragazzino, prima di accorgermi che apparteneva a una donna piccola e bionda. Aveva una voce così bassa e timorosa che non riuscivo a sentirla o a capire quello che diceva, ma il viso esprimeva preoccupazione.
“State bene?” chiese. Non risposi. Fissai la donna per un secondo, era così sottile da sembrare angelica. Ma che razza di domanda era? Stavo bene? Non ne avevo idea. Avevo quasi perduto la mia bambina. La bambina che era tra le mie braccia. La bambina che quella mattina mi aveva posato la mano sulla guancia e mi aveva detto “Ti voglio bene”. Quella bambina che dormiva con me e amava i pancake. Quella bambina avrebbe potuto morire.
“Mia figlia,” dissi a voce alta. Non potevo dire altro, e nascosi di nuovo la faccia tra i capelli di Mia.
Un’altra auto si era fermata dietro la Suburban nera della donna. Il conducente era al telefono. Io non potevo far altro che tenere stretta Mia. Non riuscivo a smettere di piangere. La mia auto. La mia auto era distrutta sul ciglio della strada. La mia insostituibile auto. L’auto che non potevo permettermi di perdere. L’auto che dovevo assolutamente avere in piena efficienza, per tenermi il lavoro, per sopravvivere.
La polizia arrivò per dirigere il traffico e per valutare la scena dell’incidente. Mi chiesero cosa fosse successo, ascoltandomi con pazienza tra un ansimare e l’altro. Alcuni poliziotti cominciarono a esaminare i segni di sbandata lasciati dagli pneumatici della mia auto quando era stata colpita per almeno una trentina di centimetri, sulla sinistra. La ruota posteriore destra sporgeva di lato, il metallo dietro era contorto e distrutto. Nell’urto, ogni cosa all’interno della macchina era stata sbalzata via. L’audiocassetta pendeva dal lettore, lì lì per cadere. Ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dal sedile posteriore dove era stata seduta Mia, dal suo seggiolino così incredibilmente vicino al lunotto frantumato, dal fondo della macchina che era stato spinto in su verso i suoi piedini. Nell’impatto, il seggiolino si era spostato di lato, lontano dal lunotto e, non si sa come, lei non si era fatta nulla.
Un poliziotto estrasse un metro a nastro.
“Che cosa sta facendo?” chiesi, mentre una nuova ondata di panico mi piombava addosso.
“Dobbiamo cercare di stabilire di chi sia la colpa, signora,” rispose. “Per cortesia, si sposti.”
Colpa. Colpa mia. Ovviamente era colpa mia. Ero stata io a fermarmi su una maledetta autostrada, era stata io a scendere per cercare una bambolina lasciando mia figlia in auto, in una situazione di pericolo.
Due paramedici scesero di corsa da un’ambulanza, uno andò verso l’altro conducente, uno verso di noi. Arrivò un’altra ambulanza, poi un camion dei vigili del fuoco. Il traffico era mortalmente lento, e io cercavo di ignorare le persone che mi fissavano, i ficcanaso, con la sensazione di essere in una maledetta boccia di vetro, in esposizione.
Misi Mia a sedere sul retro dell’ambulanza, e per la prima volta da quando l’avevo sganciata dal seggiolino lei sciolse le braccia dal mio collo. Il paramedico le fece delle domande, chiese il permesso di esaminarle il petto. Poi le porse un orsacchiotto con camicia e berretto da notte, gli occhi chiusi e le mani giunte come se stesse pregando.
“La tenga d’occhio stanotte,” mi disse. I capelli e gli occhi scuri e la pelle olivastra mi ricordarono, chissà perché, mio fratello. “Se nota qualche livido, o se sembra che stia male, qualsiasi cosa, la porti immediatamente in ospedale.” Osservò nuovamente Mia. “Oppure può portarla subito al pronto soccorso, se vuole che faccia una radiografia.” Io guardai Mia, cercando di capire quello che l’uomo mi aveva detto, e ora finalmente vedevo come sarebbe stata la situazione se fosse andata peggio, se lei fosse stata contusa, con fratture, ferite sanguinanti, portata d’urgenza all’ospedale con l’ambulanza. Scossi il capo. Non capivo più niente. Non sapevo se Medicaid coprisse il trasporto in ambulanza, e immaginavo un conto di migliaia di dollari che non potevo permettermi. Inoltre non potevo abbandonare la mia macchina, per noi era quasi una della famiglia; nel bagagliaio c’era il materiale per le pulizie che ci assicurava tutto il nostro reddito. Se fosse andato perduto, avrei dovuto sostituirlo con i miei soldi, e non potevo permettermelo. Non potevo allontanarmi senza sapere che cosa stava per succedere.
Mia stringeva il suo orsacchiotto, gli occhi fissi sulle apparecchiature dell’ambulanza. Mi passarono per la mente visioni del suo sguardo terrorizzato sotto una maschera d’ossigeno, i capelli impastati di sangue, il collo bloccato dal collare. Allungò nuovamente le braccia verso di me. La presi e la riportai alla nostra auto, tirai fuori dalla borsa la macchina fotografica e scattai diverse foto, aspettando che la polizia decidesse il nostro destino.
Un poliziotto si avvicinò: era il più basso, calvo, con la pancia che sporgeva sopra la cintura. Mi fece di nuovo delle domande alle quali avevo già risposto: perché mi ero fermata, in che modo l’avevo fatto, dove avevo accostato, e se avevo immediatamente acceso i lampeggianti d’emergenza.
“Signora, continueremo con le indagini e riferiremo i risultati alla sua assicurazione,” disse. “Non sappiamo per certo se l’uomo che l’ha tamponata sia coperto dall’assicurazione.”
Mi sentii cedere le ginocchia. Avevo la copertura per un incidente con un’auto priva di assicurazione? Dovevo averla. Stavo ancora pagando le rate del finanziamento per l’auto. Quindi probabilmente avevo una copertura assicurativa totale, e non solo se era colpa mia. Giusto? Lo avevo chiesto, vero? Non riuscivo a ricordarlo.
Il poliziotto prese un altro foglio e strappò un biglietto, porgendomelo insieme alla mia patente, al libretto di circolazione e al tagliando dell’assicurazione.
“Scusi,” dissi, vedendo che la multa ammontava a 70 dollari ma senza prenderla, cercando di capire come e perché me la meritassi. “Che cosa significherà per me, finanziariamente?”
Lui guardò me, poi guardò Mia, che aveva girato la testa per osservarlo. “Non lo so, signora,” rispose, seccato, poi allungò la multa verso di me, aggiungendo: “Può far ricorso in tribunale”. Ma sapevo che significava che avrei dovuto vedermela con lui, un poliziotto. Quell’uomo spietato che metteva una multa in mano a una madre in lacrime che aveva quasi perso sua figlia, che non poteva permettersi di rimpiazzare la sua auto, per non parlare della multa.
Fissai la multa per sosta vietata e alzai lo sguardo vedendo il carro attrezzi che si avvicinava.
“Signora! C’è qualcuno che può venirvi a prendere?” chiese il poliziotto. A giudicare dal tono della voce, doveva avermelo già chiesto più volte.
“Non lo so.” Tutte le persone alle quali potevo pensare erano al lavoro, a distanza di chilometri. L’agente suggerì di chiedere un passaggio al carro attrezzi e ancora una volta domandai se mi sarebbe costato e lui di nuovo disse di non saperlo. “Perché nessuno sa quanto costano le cose?” dissi, scoppiando nuovamente a piangere. Lui si strinse nelle spalle e si allontanò. Il vigile del fuoco aveva tolto dal bagagliaio dell’auto il materiale per le pulizie, insieme al seggiolino e alla borsa di Mia con Hello Kitty, quella per i fine settimana con il suo papà.
Restammo lì, sul ciglio della strada, a guardare la nostra auto che veniva issata sulla rampa del carro attrezzi, il pneumatico posteriore trascinato come una gamba rotta. Ai miei piedi, sull’erba, c’era il carrello del materiale per le pulizie, un sacchetto di stracci, e due manici di spazzoloni rotti. Mia si teneva ancora stretta al mio collo. La situazione cominciò a chiarirsi. Ci avrebbero lasciate lì.