20. “Non so come ci riesci.”
“Ma perché hai fatto una cosa del genere?” urlò Jamie al telefono, sempre più furioso, più pressante. “Perché ti sei fermata in autostrada? Come hai potuto essere così dannatamente stupida?” Le esatte parole che mi stavo già ripetendo mentalmente. Con la sua voce, addirittura.
“Okay, richiamo più tardi,” dissi prima di chiudere la telefonata.
Mia scoppiò a piangere. Voleva parlare con lui. Voleva che Jamie venisse a prenderla. Sentii una fitta allo stomaco che conoscevo bene, la paura che potesse servirsi dell’incidente per ottenere la custodia della bambina, che potesse essere la mossa vincente nella causa che minacciava di intentarmi ogni volta che facevo qualcosa che non gli piaceva. Voleva che fossi io a pagargli il mantenimento di Mia. Voleva che soffrissi.
La vecchia Oldsmobile azzurra del nonno si stava facendo strada nel traffico, ancora rallentato dall’incidente. Alcuni poliziotti gli fecero cenno di fermarsi. Anche se era più basso del più basso degli agenti, appena sceso dall’auto il nonno andò dritto al punto, salutando con un cenno i pochi soccorritori che erano rimasti. Ma quando si avvicinò a noi sul ciglio della strada aveva la faccia rossa, congestionata. Per un istante pensai che fosse arrabbiato con me. “Dobbiamo prendere quei cosi?” chiese, indicando i nostri averi accatastati sul lato dell’autostrada. Annuii.
Agganciai il seggiolino di Mia al sedile e salimmo sul suo macchinone. Il nonno disse di dover fare benzina. Ci fermammo a un distributore, parcheggiando vicino alla pompa. Il nonno mi guardò per un secondo, poi abbassò lo sguardo su Mia. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
“Non ho abbastanza soldi,” disse, arrossendo nuovamente.
“Pago io,” dissi, e feci per aprire lo sportello.
“Magari vado a prendere un caffè per noi,” disse lui. “Direi che ne hai bisogno, vero? Io sono appena passato al tè verde. Vuoi un tè verde?”
Avevo voglia di dirgli, scherzando, che a dire la verità avevo bisogno di un whisky, ma mi resi conto che l’avrei voluto davvero. “Certo, nonno,” risposi, sforzandomi di sorridere, in qualche modo. “Un caffè è una grande idea.”
Il nonno si era occupato della nonna, che soffriva di schizofrenia progressiva, per buona parte del loro matrimonio, e alla morte della moglie, un anno e mezzo prima, si era ritrovato con tanto tempo libero, ma sempre più disperato e solitario. Si conoscevano fin dai tempi dell’asilo. Come coppia, lei torreggiava su di lui, specie con i capelli cotonati che le aggiungevano altri centimetri: il nonno non arrivava al metro e sessanta. Quando avevo l’età di Mia e stavo con loro, il nonno non perdeva mai l’occasione di esibirmi ai suoi amici, raccontando di avermi registrato mentre cantavo la canzone di Braccio di Ferro, e proponendo di fargliela sentire.
Alla morte della nonna aveva traslocato da quella che, per quanto ne sapevo, era la sola casa nella quale aveva vissuto, oltre al camper dove avevano abitato in passato, ed era strano pensare che la casa non ci fosse più. Per un po’ aveva affittato una stanza da una signora, in città. Ero andata a trovarlo; ci aveva messo tutti i ninnoli che tanto mi piacevano e con i quali giocavo da bambina, ed era così strano vederlo lì, appena in grado di permettersi una stanzetta. Lavorava ancora come agente immobiliare, ma con la recessione gli affari erano calati drasticamente, e non erano ancora ripresi. Adesso dormiva nel magazzino del suo ufficio. Non poterlo aiutare mi faceva sentire profondamente in colpa, perché lui ci aveva ospitato una volta dopo un litigio con Travis. Avrei tanto voluto potergli dare una mano.
Ogni volta che ci vedevamo, lui cercava di regalarmi qualche cimelio di famiglia o un album da colorare con il nome della mamma scarabocchiato sul frontespizio. A volte ne prendevo qualcuno per fargli piacere, e poi li lasciavo in macchina, da dare per beneficenza. Non avevo posto per quelle cose. Il nonno insisteva comunque perché le prendessi, raccontandomi la loro storia: “La tua bis-bis-bisnonna vendette la fede nuziale per comprare quella macchina da cucire”, mi diceva. Io non potevo tenere nessuno di quei cimeli, o dare loro lo spazio che meritavano. Nella mia vita non avevo spazio per apprezzarli nel loro giusto valore.
Travis mi richiamò mentre stavo facendo benzina. Non volle sapere i dettagli, ma soltanto dove eravamo per venirci a prendere. Avevo quasi scordato di avergli lasciato un messaggio sulla segreteria, perché mi sembrava giusto fargli sapere cos’era successo. Forse volevo che lo sapesse. Aveva un tono sbrigativo, e in sottofondo si sentiva il frastuono di un motore diesel.
“Che cosa stai facendo?” gli chiesi. Mia mi fissava da dietro il finestrino. Le feci una smorfia, cercando di sorridere, e premetti il dito contro il vetro. Lei toccò il finestrino con il suo dito, dall’altra parte.
“Sto agganciando il camion dei miei genitori al rimorchio,” disse, il respiro affannato. Forse pensava di dover venire a rimorchiare la nostra auto incidentata.
“No, Travis,” dissi. “Stiamo bene. Tutto sistemato.” Chiusi la conversazione prima che capisse che stavo mentendo. Ero troppo vulnerabile per incontrarlo. Stavo ancora tremando tutta per lo shock ma sapevo che se Travis fosse venuto in nostro soccorso, aiutandoci a rimettere tutto a posto, avrei rischiato di voler tornare insieme a lui. In tutti quei mesi avevo cercato di farcela da sola. Lo avevo chiamato, ma non volevo tornare di corsa tra le sue braccia.
Mentre tornavamo a casa, si mise a piovere a dirotto. Chiesi al nonno di fermarsi a un Walmart e di aspettare con Mia in auto mentre entravo nel negozio. Corsi dentro a testa bassa, evitando gli sguardi della gente. Avevo la sensazione che tutti, vedendomi, capissero che ero io quella che aveva quasi ucciso sua figlia sul ciglio della Highway 20. Avevo voglia, ancora più del solito, di mettermi a urlare nel bel mezzo di un Walmart, e mi spaventava essere così vicina a perdere il controllo. Mi risuonava nelle orecchie il frastuono dei finestrini che esplodevano. Riecheggiava così forte che per farlo smettere chiusi gli occhi e strinsi i pugni.
“Dove cazzo sono quelle sirenette?” Mi resi conto di averlo detto a voce alta, perché una bimba e sua madre mi guardarono. Le bambole erano esaurite; lo spazio dove erano appese era vuoto. Ma sotto ce n’era una nuova versione: una bambola più grande, con capelli più abbondanti, e con un pulsante che si premeva per farla parlare. Costava 19,99 dollari. La afferrai. Avrei pensato a far quadrate i conti in un altro momento. Avrei recuperato quella cazzo di bambola per mia figlia, quel pomeriggio, a qualsiasi costo.
Arrivati al monolocale, la pioggia continuava a scendere mentre io e il nonno portavamo dentro il materiale per le pulizie e i sacchetti. In casa, un frammento di vetro cadde per terra da uno dei sacchetti, e si infilò nel tallone di Mia, ma per fortuna la ferita fu così lieve che da principio lei non se ne accorse nemmeno. Non aveva altre ferite. Fisicamente, almeno. E potevo occuparmene da sola.
Il nonno restò in piedi, accanto alla porta, e si guardò attorno. Non era mai venuto a trovarci. Non era mai venuto nessuno della mia famiglia. Chissà se si era accorto che mi ero liberata degli oggetti che mi aveva regalato.
“Non hai un microonde,” disse, lo sguardo fisso sull’angolo riservato alla cucina.
Guardai i ripiani, sgombri fatta eccezione per un tagliere e uno scolapiatti, e troppo piccoli per metterci qualsiasi altra cosa. “Non ho spazio per un microonde,” risposi.
“Potresti metterlo sopra al frigorifero,” replicò, indicando dove avevo sistemato una pianta. “In ufficio ne ho uno che non uso. Te lo porto.”
“Scusa, nonno,” dissi, abbassandomi a prendere in braccio Mia. “Non ho spazio, davvero.”
I suoi occhi si riempirono ancora di lacrime. Il telefono che avevo in tasca si mise a ronzare. Riconobbi la lunga fila di cifre del numero internazionale di mia mamma.
“Hai chiamato mia madre?” chiesi al nonno, senza riuscire a nascondere l’irritazione.
“Ma certo, doveva ben sapere che sua figlia e sua nipote avevano avuto un incidente.”
Serrai la mascella. Sapevo che, dalla morte della nonna, la mamma non mancava mai di chiamare il nonno ogni domenica pomeriggio. Sapevo che gli chiedeva se ci avesse viste, o come ce la passavamo, o che cosa stavamo combinando. In quel momento, più che mai, non sentivo che si fosse guadagnata il diritto di avere una qualsiasi informazione sull’incidente. Avevo avuto bisogno di lei quell’estate, quando Mia aveva dovuto affrontare tutti quei malanni, con un intervento per inserire i tubi timpanostomici. Avevo avuto bisogno di lei molte volte, da quando si era trasferita in Europa. Avevo avuto bisogno di lei e non potevo chiamarla per dirglielo. Ormai era quasi impossibile parlare tra noi, perché le telefonate erano disturbate dalla pessima ricezione e William era sempre seduto accanto a lei, ad ascoltare ogni parola. Riuscivo quasi a sentire il suo respiro. Ridacchiava ogni volta che la mamma faceva una battuta. Non lo sopportavo. Non lo sopportavo più. Così avevo interrotto ogni comunicazione, decidendo ancora una volta che era meno doloroso lasciarla fuori dalla mia vita che averci a che fare. Era più semplice non volere o non aspettarmi niente da lei. Ero arrabbiata con mia mamma per aver abbandonato la sua vita qui. Perché stava lontano. Non avrei mai capito come potesse farlo. Non volevo nemmeno provarci.
Il nonno se ne andò e io misi Mia nella vasca con il bagnoschiuma e la sua bambola nuova. La mamma chiamò di nuovo. Seduta sul sedile del water accanto alla vasca, vidi il telefono illuminarsi nella mia mano. Lo ignorai, guardando Mia che giocava con la sua nuova sirenetta. Era seduta nella vasca, la pelle lucida di bagnoschiuma, i capelli incollati alle guance. Avevo voglia di scivolare su di lei, chiuderla tra le braccia, posare l’orecchio sul suo petto per ascoltare il suo cuore.
Chissà se la mamma aveva mai provato lo stesso per me. Mi chiedevo perché non si fosse mai chinata su di me dopo avermi dato l’abbraccio della buonanotte, per rassicurarmi che lei era lì, che mi voleva tanto, tanto bene. Volevo saperlo, ma non abbastanza da chiederglielo. A volte immaginavo di farlo, di domandarglielo al telefono, ma tanto non ne avrei ricavato nulla. Lei era là, e per lei bastava. Forse era ciò che aveva sempre sentito di dover essere.
Quella sera Mia restò sveglia fino a tardi, non solo per il naso intasato e per gli occhi che le prudevano e le facevano male, ma perché io non volevo metterla a letto. I suoi allegri cinguettii mi impedivano di mettermi a singhiozzare. Quando lei mi guardava, sapevo che dovevo restare forte. Ci sdraiammo sul mio lettino singolo, con la testa sullo stesso cuscino, guardandoci. Poi i suoi occhi si chiusero, il suo corpo ebbe un fremito di sonno, sospirò, e il respiro si fece ritmico. Restai a osservarla, in ascolto.
Mia dormì appena un’ora prima di svegliarsi per un accesso di tosse. Le avevo già dato tutte le medicine che potevo. La tosse continua si trasformò in una specie di ringhio, Mia era rabbiosa per essere sveglia e tanto stanca al tempo stesso. Cercai di calmarla, cantando Wagon Wheel, la canzone che ultimamente le piaceva, ma non c’era niente da fare. Infine, da un recesso quasi primordiale della memoria, mi misi a recitare Goodnight Moon:
Buonanotte stanza, buonanotte luna.
Buonanotte mucca che salti sulla luna.
Buonanotte luce, e a te pallone rosso,
Buonanotte sedie, e anche all’orso grosso.
Mia, intenta ad ascoltare, si calmò immediatamente e si rimise a dormire. Mi massaggiai con il dito lo spazio tra le sopracciglia, piangendo il più silenziosamente possibile, quasi incredula che lei fosse sopravvissuta.
Il mattino seguente, guardai Mia mangiare la sua pappa d’avena. Ero lì seduta in una specie di fascinazione, ancora stupefatta per il miracolo che fosse illesa, mia figlia non mi sembrava quasi reale. Il giorno prima avevo chiamato Lonnie per dirle quello che era successo e per chiederle un giorno di tempo per sistemare le cose, senza sapere, in quel momento, come ci sarei riuscita. Il corpo e la mente andavano avanti con il pilota automatico. Dopo la colazione, Todd, un uomo con il quale ero uscita qualche volta, sarebbe venuto a prenderci. Quel fine settimana avevamo un appuntamento, e non so come la sera prima mi ero ricordata di cancellarlo, senza riuscire a trovare una ragione diversa dalla verità. Non volevo ammettere di essere nei pasticci, e che persino la mia famiglia non era capace di aiutarmi a venirne fuori. Todd aveva insistito per prestarmi un’auto che a lui non serviva più, io alla sola idea mi ero agitata. Non sapevo esattamente cosa pensare di Todd, se mi piaceva seriamente oppure no. Avevo scoperto che, quando uscivano con me, alcuni uomini soffrivano di una specie di complesso dell’eroe. Volevano precipitarsi a salvare la donzella in ambasce. Era un ruolo che non mi piaceva, ma in questa situazione non avevo scelta. Dovevamo assolutamente procurarci un’automobile.
Mi limitai a presentare Todd a Mia come “un amico” dicendo che ci avrebbe portato a prendere un’auto che non gli serviva e che potevamo usare per un po’.
“Poi ti porto dal tuo papà,” le spiegai, lavando i piatti della colazione. Presi un bel respiro e lo trattenni, all’opposto di quanto si dovrebbe fare in certi momenti, quando il cuore comincia a perdere colpi per poi mettersi a battere all’impazzata. Avrei dovuto fare lo stesso percorso del giorno prima, lungo la stessa strada, rimettermi in macchina con Mia. Volevo solo starmene a letto, incollata a lei, e invece dovevo lavorare. Il giorno dopo avevo una casa da pulire, una delle case più grandi, che il giovedì occupava la maggior parte del mio tempo. Inoltre, la settimana seguente cominciavano le lezioni, e dovevo organizzare i libri di lesto e le password per accedere al materiale online. E in qualche modo avrei dovuto anche festeggiare il mio compleanno.
Mentre Todd ci conduceva lungo la I-5 a prendere l’auto, Mia era seduta tranquilla sul sedile posteriore. Il suo seggiolino sembrava a posto ma sapevo che, essendo stato coinvolto in un incidente, avrei dovuto sostituirlo non appena fossi riuscita a permettermene uno nuovo. Ogni volta che lo guardavo, mi ricordava quanto fossi stata vicina a perdere mia figlia.
D’un tratto, Mia sbottò: “Ruby è morta, mamma”. Ruby era il nome che aveva dato alla nostra Subaru, per il colore rosso granata e perché la prima volta che, tutta fiera, l’avevo caricata con il materiale per le pulizie, l’avevo chiamata una Suba-Ruby.
Mi girai a guardare Mia e le posai una mano sulla gamba. Mi sembrava così fragile e piccola. Sentii che le lacrime mi risalivano nuovamente agli occhi. Avevo comprato Ruby usata, ma in perfette condizioni, con solo centosessantamila chilometri sul contatore. A volte io e Mia passavamo metà giornata su quella macchina. Ruby aveva più di vent’anni, ma era uno dei migliori veicoli che avessi posseduto da anni a questa parte. Era una grave perdita. Inimmaginabile. Non potevo nemmeno pensarci.
“Ruby è morta per colpa mia, mamma,” continuò Mia, guardando fuori dal finestrino, con una vocina sottile sottile. “Perché Ariel è uscita dal finestrino.”
“Oh, tesoro,” dissi, cercando di girarmi per poterla guardare dal sedile anteriore. “No. È stato un incidente. Non è colpa tua. Nel caso, è colpa mia.”
“Stai piangendo,” disse Mia, il faccino che si arrossava, il labbro inferiore imbronciato, mentre le lacrime cominciavano a spuntarle tra le ciglia. “Tu volevi solo salvare la mia Ariel.”
Non riuscivo più a guardarla, ma le tenni la mano sulla gamba. Avevo una gran voglia di coprirmi la faccia con le mani, lasciare che gli occhi e la bocca si contorcessero cedendo a un muto singhiozzo. Invece, io e Todd ci scambiammo un’occhiata, e gli feci un timido sorriso. Dovevo stare bene. Non avevo scelta.
Todd uscì dall’autostrada, percorse alcune strade secondarie e parcheggiò dietro a una Honda Accord a due porte. Mi ricordava le auto che i ragazzi guidavano al liceo, una versione a grandezza naturale delle automobiline da corsa con cui giocava mio fratello da piccolo. Todd controllò i liquidi, le frecce, i freni e i fari con un’efficienza da intenditore che trovai attraente. Todd aveva molte qualità – lavorava nell’edilizia e al tempo stesso stava costruendo la sua casetta in una zona boscosa vicino a Port Townsend – ma non so perché il mio cuore non era convinto.
“Stavo per venderla, quindi la puoi usare quanto vuoi,” disse, porgendomi le chiavi.
“Grazie,” riuscii appena a dire, e lo abbracciai. Speravo che capisse di avermi salvato dalla disperazione assoluta e dalla probabilità di ritrovarmi senza un tetto sulla testa. Ma come poteva saperlo? Non gli avevo spiegato quanto fosse disperata la mia situazione. Volevo apparire in qualche modo uguale a lui piuttosto che, come dire, quello che ero. Frequentare qualcuno sembrava più facile, così.
Uscendo dal parcheggio, le mani mi tremavano. Ero scossa dal nervosismo, come se avessi bevuto dieci caffè. Non dovrei guidare, pensai. Non sono pronta. Ero sicurissima che avrei provocato un altro incidente, ma solo io potevo portare Mia all’appuntamento con Jamie.
Al semaforo, sapendo che l’ingresso dell’autostrada era vicino, avrei voluto avere qualcuno da poter chiamare in aiuto, o anche soltanto per parlare. Ma non riuscivo a pensare a nessuno capace di comprendere quello che stavo passando, a meno che non sapesse cosa voleva dire essere una mamma single, un genitore senza un partner costretto a mettere insieme il pranzo e la cena, come facevo io.
Quando parlavo alle amiche della mia vita, dando appena una pallida idea degli spostamenti, dello stress, del continuo destreggiarmi tra mille impegni, il loro commento era sempre lo stesso: “Non so come ci riesci”. Se i loro mariti andavano fuori città, o lavoravano sempre fino a tardi, si dicevano: “Non so come ci riesci”, scuotendo il capo, e io cercavo di non fare commenti. Avrei voluto dire che quelle ore senza i mariti non sono nemmeno lontanamente paragonabili alla vita da genitore single, ma lasciavo credere che lo fossero. Mettermi a discutere avrebbe rivelato troppo di me, e io non avevo nessuna intenzione di suscitare compassione. Inoltre, non potevano capirlo, non avevano provato sulla loro pelle cosa comportasse essere poveri. La disperazione di farsi bastare ciò che si aveva, perché non c’era altro da fare. Non potevano sapere come ci si sentisse nei miei panni, la mattina dopo l’incidente, sul punto di guidare lungo la stessa strada dove c’erano ancora i vetri infranti dei finestrini della mia auto. Perché non avevo altra scelta.
Ero sicura che i miei clienti avrebbero capito, ma l’azienda elettrica no. Non volevo far altro che starmene sul divano con la mia piccola malata e riempirle la tazza di succo di frutta mentre guardava tre volte di fila il DVD della scimmietta George. Invece dovevo tornare al lavoro. E dovevo guidare. Non ero sicura di cosa mi sembrasse più impossibile.
Non era questione di “come” facevo le cose. Sono sicura che ogni genitore avrebbe fatto lo stesso. Essere un genitore single non significa soltanto essere l’unica persona che si occupa del suo bambino. Non significa essere capaci di dirgli di darci un taglio con i capricci o di stabilire il momento del bagnetto e della nanna; queste sono difficoltà di poco conto. Il numero delle mie responsabilità era devastante. Portavo fuori la spazzatura. Portavo a casa la spesa che avevo scelto e comprato. Cucinavo. Pulivo. Cambiavo il rotolo di carta igienica. Rifacevo il letto. Spolveravo. Controllavo il livello dell’olio della macchina. Portavo Mia dal dottore e a casa del suo papà. La portavo alle lezioni di danza, se riuscivo a trovare una scuola che le offriva gratis, e poi la riportavo a casa. Stavo a guardare ogni piroetta, ogni salto e ogni giro giù dallo scivolo. Ero io a spingerla sull’altalena, e metterla a letto la sera, a darle un bacio quando cadeva. Quando mi sedevo un attimo, partivano i pensieri e le preoccupazioni. Con lo stress che mi attanagliava lo stomaco, mi preoccupavo. Mi preoccupavo che la mia busta paga potesse non bastare per i conti di quel mese. Mi preoccupavo per il Natale, e mancavano ancora quattro mesi. Mi preoccupavo che la tosse di Mia potesse diventare sinusite, costringendola a restare a casa dall’asilo. Mi preoccupavo che il comportamento di Jamie stesse peggiorando, che ci mettessimo a litigare, che avrebbe ritirato la sua offerta di andarla a prendere all’asilo quella settimana, soltanto per complicarmi la vita. Mi preoccupavo di dover riorganizzare il lavoro, o di perderlo del tutto.
Ogni genitore single sull’orlo della povertà fa tutto questo. Lavoriamo, amiamo, facciamo. E lo stress che ne consegue, la stanchezza, ci lasciano come svuotati. Ai minimi termini. Fantasmi di quel che eravamo un tempo. Ecco come mi sentivo in quei giorni dopo l’incidente, come se non fossi del tutto ancorata a terra. Sapevo che, in qualsiasi momento, una brezza poteva arrivare e spazzarmi via.