21. La Casa dei Clown

La chiamavo la Casa dei Clown. La moglie aveva una passione per i paesaggi di Thomas Kinkade, che coprivano buona parte delle pareti della zona di rappresentanza. Ma sulla lunga rampa di scale che portava al piano superiore c’era una sfilza di quadri di clown. Clown tristi. Clown in primo piano con occhi che mi seguivano ovunque. Aveva anche delle statuine di pagliacci, ma i quadri erano il peggio. Mi facevano sentire indifesa. Restavo lì a fissarli con un misto di orrore, disgusto e curiosità; ma perché mai qualcuno dovrebbe voler tenere quei cosi appesi alla parete? E se fosse mancata la luce, e il fascio di una torcia elettrica si fosse posato proprio su una di quelle facce? Non si sarebbero spaventati a morte?

Una volta al mese pulivo il piano inferiore, dove si trovavano due camere da letto e un bagno riservati ai figli adulti. L’impressione era che i due ragazzi non avessero mai vissuto in quelle stanze, ma buona parte dei cimeli della loro infanzia era sistemata in bell’ordine. Spolveravo le musicassette dei Bell Biv DeVoe, gli annuari scolastici, le sveglie di Topolino, sprimacciavo i cuscini e poi rimettevo seduti gli orsacchiotti. Ma quel giorno, il mio primo giorno di lavoro dopo l’incidente, ancora una volta andai direttamente nel bagno.

Chiudermi nella stanzetta riservata al water sembrava la risposta ovvia al vuoto assordante che mi strattonava da una parte all’altra. I bagni erano un buon posto dove nascondersi. Volevo rannicchiarmi, a pancia in giù sul pavimento, con le dita intrecciate dietro la nuca nella posizione consigliata per affrontare un tornado, come se ogni cosa stesse per precipitarmi addosso. La Casa dei Clown, un edificio imponente di tre piani affacciata sulla città dove avevo vissuto con Travis, dopo l’incidente sembrava amplificare la sensazione che la mia vita fosse ormai fuori controllo. La mia insicurezza riguardo al nostro futuro. La possibilità di non riuscire a farcela con i soldi.

Mi accasciai in ginocchio davanti al water e presi un bel respiro, contando fino a cinque mentre espiravo, prima di fermarmi a ripiegare a triangolo il bordo della carta igienica: un angolo piegato di sotto, poi l’altro, fino a formare una punta precisa. La mano si abbassò sul carrello del materiale per la pulizia, per tirare fuori i guanti gialli. Frammenti di vetro, frutto dell’incidente, si sparsero su tutto il pavimento.

Ero accecata dalle lacrime. La stanza da bagno, che qualche istante prima mi aveva confortata come un abbraccio, ora sembrava un compattatore di spazzatura. Allungai la mano verso la maniglia e schizzai fuori, ansimando, senza fiato. Dalla gola mi uscì un urlo gutturale, e poi scoppiai a piangere. Il giorno prima, Jamie mi aveva gelato con lo sguardo quando era venuto di corsa al molo dei traghetti per prendere Mia, come fosse stato una specie di supereroe venuto a salvare la figlia dalla strega cattiva che l’aveva messa in pericolo. Mia era scoppiata a piangere, allungandosi verso di me. “No, amore mio,” aveva detto lui, “devi venire con me.” E poi quell’occhiata.

Mi sedetti davanti alla doccia, con la fronte appoggiata alle ginocchia, scorrendo tra le dita le fibre del tappetino rosso scuro. Il frastuono dei finestrini dell’auto che esplodevano mi rimbombava nelle orecchie, mi sentivo come schiacciata, oppressa. Sono in servizio, mi dissi. Sto per avere un crollo nervoso mentre sono in servizio.

Nelle dita dei guanti c’erano altri frammenti di vetro. Li scossi fuori e infilai i guanti, ma le lacrime continuavano ad accecarmi, quindi li tolsi e mi misi le mani sulla faccia, cercando di nascondermi.

Presi il telefono e schiacciai il pulsante per chiamare Pam a casa. “Non riesco a smettere di piangere,” le dissi. “Pam, non so che cosa fare. Non riesco a smettere di piangere.” Ansimai, in debito d’aria.

“Stephanie? Stai bene? Dove sei?” La sua voce sembrava così preoccupata, così materna, che non potei far altro che continuare a singhiozzare.

“Sono, ehm,” dissi, premendomi la mano sulla bocca prima che ne sfuggissero suoni ancora più imbarazzanti. Non riuscivo a ricordare il nome dei proprietari. “La grande casa con i quadri dei clown.”

“I Garrison?” chiese.

“Già.” Sì, giusto. “Oggi devo pulire anche il piano inferiore.” Ansimavo, come se stessi correndo. “Ci sono vetri tra i detersivi e gli stracci. Ieri i vetri sono ricaduti tutti su Mia. Poteva morire.”

“Beh,” disse lei, poi si interruppe, come se stesse cercando le parole giuste. “Non potevi prevederlo… dicono che mentre si guida si tende a sbandare verso ciò che attira la nostra attenzione… ma tu non hai parcheggiato là pensando che sarebbe successo, giusto?”

Pensai all’altro automobilista presumevo che durante l’incidente stesse messaggiando o accendendosi una sigaretta, o fosse comunque distratto che guardava me, in piedi sulla mezzeria. Ero stata io la distrazione che lo aveva fatto sbandare?

Pam conosceva la mia situazione finanziaria. Sapeva che avevo bisogno di quelle ore di lavoro, che non potevo permettermi di non farle, di non essere pagata. Quella mattina, mi ascoltò mentre le raccontavo quanto fosse difficile per me dover guidare: le mani tremanti, dover ripassare sulla scena dell’incidente, cercare di non guardare i segni neri degli pneumatici e i vetri rotti sul lato della strada, ma vederli comunque. Quel giorno avevo soltanto una casa da pulire. Ma non riuscivo a farlo.

“Perché non ti prendi un giorno libero?” suggerì Pam con dolcezza, dopo avermi ascoltato. “E anche domani.”

“Domani riuscirò a lavorare,” dissi con convinzione. Avevo soltanto la Fattoria. Sarebbe stata una sfida. “Starò bene,” aggiunsi, nel tentativo di rassicurare più me stessa che lei. “Forse se mi prendo la giornata per chiamare l’assicurazione e pensare a un piano d’azione, sentirò di avere ripreso il controllo,” dissi, cominciando a crederci.

“Okay,” replicò Pam. Probabilmente stava sorridendo. “Poi ho bisogno che tu ritorni al lavoro. Tu hai bisogno di tornare al lavoro. Non ti servirà a niente continuare a lasciarti andare così.” Tacque. In sottofondo sentivo la tv. “Credi nella tua forza,” aggiunse. Ma per me era dura credere di averne ancora.

Al termine della telefonata, sospirai, senza rendermi conto di quanto avessi avuto bisogno di un po’ di comprensione. Il giorno prima, mio padre me ne aveva dette di tutti i colori al telefono perché avevo parlato dell’incidente su Facebook. Aveva detto che chiunque avrebbe potuto vedere le foto della mia auto in rottami e usarle contro di me.

“Devono essere miei amici per poterle vedere,” dissi, seccata per la sua paranoia e ferita perché sembrava che fosse l’unica cosa che gli importava. “Ho bisogno di parlarne, papà.”

“Secondo me non dovresti parlarne affatto,” sbottò lui. “Ti rendi conto che l’assicurazione potrebbe pensare che è stata colpa tua? Ci hai mai pensato?” Ma lui non riusciva, o non poteva, capire quanto avessi bisogno di sostegno in quel momento, anche se si trattava di commenti che qualcuno lasciava sotto le fotografie, persone magari a migliaia di chilometri di distanza.

“Sì, papà,” dissi piano. “Sì, ci ho pensato.” Tacqui, sentendo che faceva un tiro dalla sigaretta e buttava fuori il fumo. Avrei voluto che mi invitasse da lui; che si offrisse di ordinare una pizza per me. Tutto, ma non un pistolotto. “Io, ehm, devo andare, papà.” Non disse di volermi bene, prima di salutarmi. Tanto, non lo dissi nemmeno io.

Invece di tornare a casa, andai dallo sfasciacarrozze per prendere le cose rimaste nella mia vecchia auto. Dallo specchietto retrovisore pendevano ancora le collanine di perline e la margherita di vetro colorato. Presi la mia tazza, fatta a mano da un’amica, che conteneva esattamente due dosi di espresso. Tolsi dal finestrino posteriore l’adesivo LE RAGAZZE DELL’ALASKA SONO FORTISSIME. Scattai una decina di foto del retro di Ruby distrutto, ormai irriconoscibile. L’angolo posteriore era stato schiacciato vicino al tappo della benzina che ora era ripiegato verso l’esterno, accartocciato come un foglio di alluminio da cucina.

Posai la mano sul retro, dove il lunotto si univa al bordo, sull’angolo, oltre il punto dove poteva arrivare il tergicristallo. Chiusi gli occhi, chinai la testa. E, lo giuro, sentii il dolore di Ruby.

Quell’auto, robusta come un carro armato, aveva protetto la mia piccola, e ora sarebbe stata smembrata per fornire pezzi di ricambio e poi demolita. “Grazie,” le dissi.

A metà pomeriggio ero seduta sul divano, gli occhi fissi sul cielo grigio che sembrava gonfio di quella pioggia che scende a secchiate. Il martedì era stato caldo e assolato, ma era tornata la solita fredda umidità che l’autunno porta sullo Stato di Washington. Dovevo essere grata perché il giorno dell’incidente non eravamo state fuori ad aspettare sotto la pioggia. Non riuscivo a credere che fosse successo solo due giorni prima.

Mi misi a camminare avanti e indietro per l’appartamento, con il telefono all’orecchio, ascoltando una pessima riproduzione di musica classica. “Bene, mi mandi il numero del modello del seggiolino, e le spediremo un assegno per il rimborso,” disse, dopo qualche minuto, l’agente della compagnia assicurativa dell’altro automobilista. “Posso farle avere un rimborso anche per le ore di lavoro che ha perso. Inoltre, le faremo avere un’auto di cortesia e sposteremo la sua macchina in un altro parcheggio. Dovremmo ottenere il rimborso per le riparazioni o il costo della vettura entro…”

“Aspetti,” la interruppi. “Quindi non è stata colpa mia? Vi state assumendo la responsabilità?”

“Sì,” rispose la donna. “Ci assumiamo la piena responsabilità dell’incidente. Lei aveva accostato sul ciglio della strada, aveva azionato i lampeggiatori d’emergenza, ed era ferma. L’incidente non è stato colpa sua.”

La sua voce era così sincera. Non è colpa mia. Non è colpa mia. Cominciai a crederci anch’io.

Da quando ero diventata madre avevo quasi sempre camminato in punta di piedi, titubante, dal punto di vista sia reale sia metaforico, e ormai esitavo a fidarmi del terreno su cui avanzavo. Ogni volta che costruivo fondamenta, pareti, pavimenti, o rimettevo un tetto sopra le nostre teste, ero certa che sarebbe nuovamente crollato. Il mio compito era sopravvivere al disastro, ripulirmi dai calcinacci, e ricostruire. Quindi presi la decisione di fidarmi del mio istinto e quando tornai al lavoro, dissi a Pam che potevo occuparmi soltanto di una casa al giorno. Dopo avere lasciato Mia all’asilo, ed essere andata a pulire una casa, la prospettiva di prendere la macchina e andare in un’altra e ricominciare da capo era troppo. Non ne potevo più.

Due settimane dopo, tornata alla Casa dei Clown, trascinai il mio materiale su per le scale, passando accanto a quegli occhi che mi seguivano, fino al bagno padronale. Il bagno aveva lavabi doppi, una cabina doccia grande quanto un tavolo da pranzo per otto, una vasca idromassaggio sistemata su una piattaforma d’angolo. Ancora una volta mi fermai a guardare la vasca. Mi faceva venir voglia di essere cullata, tenuta stretta. Mi sedetti dentro con un ginocchio sollevato e chiamai un avvocato. Dovevo ancora capire come sopravvivere alla rovina finanziaria causata dall’incidente.

Raccontai all’avvocato l’incidente nei dettagli e quello che l’assicurazione aveva detto che avrebbe rimborsato; ma la somma che mi avevano offerto per l’auto sarebbe stata appena sufficiente per pagare il finanziamento. Mi serviva una macchina, subito. Lui mi insegnò alcune frasi-chiave da usare la prossima volta che avrei parlato con la donna che seguiva il mio caso. Quando la chiamai, qualche ora dopo, la mia voce tremava, mentre ripetevo le frasi che avevo provato e riprovato.

“L’incidente ha avuto gravi ripercussioni su mia figlia e su di me,” dissi, cercando di non far capire che stavo leggendo degli appunti. “Da allora lei non dorme più tranquillamente e i rumori forti la spaventano.” Le raccontai che quando l’auto del nostro vicino aveva un ritorno di fiamma, Mia sobbalzava, spaventata, e a volte correva da me in lacrime. Parlai del mio livello di stress, spiegando che ora non ero più in grado di giostrarmi tra un impegno e l’altro e di portare a termine cose che prima facevo senza problemi. “Lo stress emotivo che abbiamo subito, i continui tremori in seguito all’incidente, insieme alla mia incapacità finanziaria di acquistare un’auto in sostituzione, ci hanno portato a una situazione estremamente difficile.” Presi un bel respiro. “Abbiamo bisogno di assistenza sanitaria. Io ho bisogno di una terapia, probabilmente di medicinali. E anche Mia ha bisogno d’aiuto. Non posso in nessun modo permettermelo, viste anche le spese per acquistare un’auto nuova.” Mi fermai a fare un altro respiro profondo. “Se la vostra assicurazione non è disposta a coprire i costi che sosteniamo in seguito al trauma emotivo, chiederò assistenza legale per poter essere adeguatamente risarcita.” Mentre parlavo, tracciavo su un foglio le parole, ma all’ultima frase le mie dita si irrigidirono. Mi sedetti, tremando, in attesa.

“Vedo che cosa posso fare e le faccio sapere,” replicò la donna. Nel giro di un’ora richiamò, con un’offerta che avrebbe coperto il finanziamento lasciandomi con un po’ più di mille dollari per una nuova auto, oltre ai compensi che avevo perduto. Cercai di ringraziarla restando sul generico, ma avrei voluto che vedesse il mio sorriso, una volta riagganciato il telefono. Era tanto, tanto tempo che non sorridevo così.

Da giorni tenevo d’occhio gli annunci online, ma era dura trovare una buona auto per 1200 dollari. E poi, eccola. Una piccola Honda Civic wagon. 1983. Azzurra. Travis e Mia vennero con me a darle un’occhiata. Era di una coppia anziana, proprietaria di un autolavaggio, che aveva speso un paio di migliaia di dollari per sistemarla per il nipote. Avevano rifatto il motore, sostituito i freni, montato pneumatici nuovi. Poi il nipote aveva deciso di non volerla più, quindi tecnicamente era lui il venditore. La vettura vibrò come un gattino. Aveva il cambio manuale. La coppia era stata la prima e unica proprietaria: avevano conservato i documenti originali di quando l’avevano acquistata. Offrii 1100 dollari. Accettarono. Io e Mia la chiamammo Pearl, la cosa più brillante che potesse uscire da una situazione buia.

Pearl era più che adatta ai nostri spostamenti quotidiani, e averla mi dava un tale sollievo che il mio livello di stress si abbassò drasticamente. Per fortuna avevo ancora l’agenda di lavoro piena, una buona distrazione. Se avevo un pomeriggio libero, inserivo un cliente privato. Pubblicizzai la mia disponibilità alle pulizie sui gruppi locali di Facebook riservati alle mamme e non su Craigslist, perché lì avevo cominciato a ricevere un numero imbarazzante di offerte per fare le pulizie nuda o in un costume da cameriera sexy. Il primo che me l’aveva proposto aveva cercato di farlo passare come un modo per darmi una mano. Come se fare le pulizie non fosse già abbastanza degradante.

Dopo aver pagato la benzina per andare al lavoro, quello che portavo a casa da Classic Clean era poco più della metà del compenso orario. Cancellato il lavoro alla Casa del Weekend, cercai di limitare gli spostamenti sotto i quarantacinque minuti, senza più accettare nuovi clienti che si trovassero al di fuori di quel raggio d’azione. Ma Lonnie insisteva perché ne accettassi uno nuovo. “Ne varrà la pena,” diceva. “Sono davvero carini.” I nuovi clienti avevano una grande casa, costruita su misura per loro con intricati intagli di legno e sassi di fiume. Ci andai solo poche volte, e per me era la Casa Amorevole. Per arrivarci, percorrevo una strada sinuosa a una corsia che si inerpicava tra alti sempreverdi. Dalla cima alla collina, dove era la casa, si vedevano i campi coltivati racchiusi nella vallata sottostante. Durante le pulizie marito e moglie erano sempre presenti. Le foto della figlia ormai adulta e dei suoi bambini riempivano lo sportello del frigorifero e le mensole. La stanza per gli ospiti accanto alla cucina sembrava sempre pronta per il loro ritorno.

Il marito mi accolse alla porta, ansioso di aiutarmi a trasportare il materiale. Un golden retriever dal pelo soffice agitava la coda, annusandomi i piedi. Mi tolsi le scarpe e sorrisi alla moglie, che mi sorrise di rimando restando seduta su una poltrona che lasciava di rado. Lonnie, nel raccontarmi la storia della Casa Amorevole, aveva detto che il marito si era occupato a tempo pieno della moglie nel corso di una lunga malattia. Doveva trattarsi di cancro o di qualcosa di altrettanto grave, forse terminale. La tv era sempre accesa ad alto volume su Dottor Oz o programmi di ristrutturazione di case. Ma quando la moglie parlava, il marito correva ad abbassare il volume. Avevo qualche difficoltà a capire quello che lei diceva, perché parlava a bassa voce, biascicando. Il marito la imboccava e dopo il pranzo la portava nel bagno che dava sull’ingresso.

Per buona parte del loro matrimonio avevano viaggiato insieme, decidendo di avere una figlia più tardi rispetto al solito. Sulle mensole del soggiorno erano allineati tamburi, sculture di legno, statuette di pietra di elefanti e libri che parlavano di scalate. Ogni volta che il marito parlava della loro vita, chiedeva con dolcezza alla moglie se ricordava quei bei momenti. Se lei annuiva, lui sorrideva con tanta amabilità e tanto amore che provavo un certo struggimento: avrei voluto avere la loro vita.

La prima volta, superai le ore preventivate per le pulizie. La cucina e i bagni non erano stati puliti a fondo da molto tempo, e ci volle del tempo extra per scrostare i ripiani. Una volta finito, indossai la giacca, poi mi fermai a salutare la signora seduta in poltrona. Lei mi fece cenno di avvicinarmi e allungò la mano per prendere la mia. Con l’altra, vi posò una banconota da dieci dollari.

“È più di quanto guadagno in un’ora,” dissi, sorpresa che mi fosse sfuggita quell’informazione. “È quasi il doppio.”

Lei sorrise, e io mi diressi alla porta, borbottando un grazie. Prima di arrivare sulla soglia, sopraffatta dall’emozione, mi voltai e dissi: “Accidenti, stasera compro a Mia un Happy Meal!”. Sorrisero, poi scoppiammo tutti in una risatina.

Dopo che ebbi radunato le mie cose, il marito arrivò di corsa per insistere che portassi la macchina in garage, dato che si era messo a piovere un po’ più forte.

Caricammo nel bagagliaio della mia macchina il carrello di materiali, strofinacci e sacchetti di stracci che dovevo lavare nel fine settimana, e poi lui mi chiese di seguirlo di nuovo in garage. “Non riceviamo più molti ospiti,” disse, porgendomi un bocconcino da dare al cane. Cercando di non arrossire per essere stata definita un’ospite, gli chiesi della motocicletta parcheggiata contro la parete di fondo. Lui sorrise, dicendomi che in estate la figlia si era trasferita da loro per una settimana, così che lui potesse andare all’annuale gita in moto lungo la costa, con alcuni amici.

Restammo lì senza parlare, ascoltando il non detto. Volevo chiedergli della moglie, com’era stata la loro vita, come riusciva a essere felice e in pace nonostante tutto. Invece ammisi di desiderare anch’io una gita. “Basterebbe anche un giorno o due di libertà,” confessai, cosa insolita per me. Non parlavo mai con i miei clienti di quanto fosse faticoso pulire le loro case per un salario minimo.

“Ma davvero?” replicò lui, sinceramente interessato. “Dove le piacerebbe andare?”

“Missoula, in Montana,” dissi, abbassandomi per accarezzare il cane, pensando a quanto sarebbe piaciuto a Mia averne uno proprio così, un giorno o l’altro. “Vengo dall’Alaska. Dopo l’Alaska, mi sembra il posto migliore al mondo.”

“È vero,” sorrise. “Bellissima zona. Incredibilmente ariosa. È vero quello che dicono: là il cielo è più grande.”

Sorrisi, lasciando che l’immagine, il sogno mi scorresse dentro. “Magari avremo l’occasione di andarci.”

L’uomo annuì, poi mi disse di affrettarmi per poter andare a prendere la mia piccolina. Facendo retromarcia sul vialetto, lo salutai con la mano. In quella casa mi sembrava di aver visto l’amore nella sua forma più autentica. Ne avevano così tanto, che traboccava persino dal garage.

Era una casa davvero anomala, e ripensandoci, mentre guidavo verso casa, mi venne da sospirare. I miei fine settimana erano per lo più solitari e monotoni. Ero sempre da sola: mentre guidavo, lavoravo, restavo sveglia di notte a completare i compiti per le mie lezioni. L’eccezione era costituita dalle due ore con Mia, la sera, per la cena, il bagno e le favole della buonanotte. Il mio tutor allo Skagit Valley Community College aveva fatto tanto d’occhi quando gli avevo detto che ero una mamma single e avevo un lavoro a tempo pieno. “Quello che stai cercando di fare è quasi impossibile,” aveva replicato, riferendosi alla quantità di corsi ai quali mi ero iscritta, in aggiunta agli altri impegni. Dopo il nostro incontro, mi ero fermata nel parcheggio, seduta in auto senza partire, a riflettere per un bel po’.

In realtà i compiti da fare a casa non erano difficili, erano solo una seccatura. Dovevo completare i corsi fondamentali, come quelli di matematica e scienze, che secondo le istituzioni di istruzione superiore era necessario concludere, e pagare, per ottenere il diploma. Alcuni crediti per corsi che avevo seguito tra i venti e i trent’anni mi erano stati convalidati, ma mi servivano ancora quelli di educazione fisica e comunicazione: e li feci entrambi online, seduta al mio computer, da sola, pensate che ironia.

Se durante la settimana non riuscivo a completare i compiti che mi erano stati assegnati, recuperavo nei weekend che Mia passava da Jamie. Potevo portarmi avanti. Ogni lezione si confondeva con l’altra. Seguii un corso di antropologia, e uno sul clima, e tutte le informazioni svanirono dalla mia testa immediatamente dopo aver dato l’esame tenendo aperti i libri di testo. Non aveva senso spendere tanto tempo, denaro ed energia. Quando si comincia, la conclusione sembra lontanissima. E non sapevo nemmeno quale sarebbe stata la conclusione. Sapevo soltanto che per arrivarci dovevo completare i test sui nomi dei diversi tipi di nuvole. E, certo, mentire sulla continuità dei miei esercizi di educazione fisica.

In quei lunghi fine settimana senza Mia, circondata dai compiti da fare, seduta al tavolo rotondo della cucina, sembrava inevitabile passare un bel po’ di tempo a fissare fuori dalle finestre. Su ciascuna c’era un sottile velo di umidità che quando eravamo a casa strofinavo via più volte al giorno, con la sensazione che la sola differenza tra “fuori” e “dentro” fossero pochi gradi di temperatura e una vecchia lastra di vetro.

Quando arrivava la nebbia, per me iniziava la lotta infinita con la muffa scura che faceva ammalare Mia e me. Mi sembrava che Mia avesse sempre grumi di muco che le scendevano dal naso. Io tossivo come un minatore, a volte fino a vomitare. Una volta, colta dal panico dopo aver provato a formulare da sola una diagnosi cercando i sintomi online, andai al pronto soccorso a pagamento. Avevo le ghiandole così ingrossate da non riuscire a muovere la testa, ed ero convinta di avere la meningite. Due settimane dopo, mi arrivò un conto di 200 dollari per i pochi minuti di colloquio con il medico. Chiamai la contabilità dell’ospedale, furibonda, pronta a non pagare affatto la parcella, senza badare a quello che avrebbero potuto pensare di me. Dopo aver riempito diversi moduli, alla fine li convinsi ad abbassare la cifra grazie a un programma riservato ai pazienti a basso reddito. Non dovevo far altro che chiamare e chiedere. Mi lasciava sempre senza parole accorgermi che nessuno ti parlava mai di quelle soluzioni. In contabilità ti dicevano soltanto di chiamare per conoscere le diverse opzioni di pagamento, non per sapere come tagliare il conto dell’ottanta per cento.

Il maltempo che ti costringe a non uscire ti porta anche a osservare meglio il posto che chiami casa. Pensavo ai miei clienti che vivevano soli. Li immaginavo aggirarsi per stanze deserte, con le linee dell’aspirapolvere ancora visibili sul tappeto. Io non volevo finire come loro. Le vite dei miei clienti, le case che si potevano permettere lavorando tanto duramente, non erano più il mio obiettivo. Anche se ormai da molto tempo avevo abbandonato quel sogno, quando mi abbandonavo alla sincerità, mentre spolveravo stanze tutte rosa con fiori e bambole, mi accadeva ancora di ammettere di desiderare disperatamente quelle cose per la mia bambina. Non potevo impedirmi di domandarmi se le persone che vivevano in quelle case si fossero in un certo senso smarrite, fossero diventate estranee una all’altra in quelle stanze piene di videogiochi, computer e televisori.

Il monolocale dove vivevamo, nonostante tutti i lati negativi, era casa nostra. Non avevo bisogno di due bagni padronali e uno per gli ospiti e di un garage. E comunque, sapevo quanto costava tenerli puliti. Nonostante quello che ci circondava, io la mattina mi svegliavo piena d’amore. Ero lì. In quella stanzetta. Ero presente, potevo vedere Mia che faceva i suoi balletti e le facce buffe, e ne amavo disperatamente ogni istante. Il nostro spazio era una casa perché, lì dentro, noi ci volevamo bene.