22. Vita con Mia
Le temperature scesero di colpo, e io passavo la notte a letto a fissare il soffitto, mordendomi le labbra per la preoccupazione ogni volta che sentivo lo scricchiolio dei termosifoni a pavimento. Per scaldarci, io e Mia dormivamo insieme nel mio lettino singolo. Appendevo alle finestre coperte e lenzuola per tenere lontano il freddo che si insinuava nelle fessure. Quando il gelo divenne una presenza fissa sul terreno e sulle nostre finestre, chiusi la porta a vetri che portava alla zona dove dormivamo e restammo nella stanzetta che faceva da soggiorno e da cucina, grande più o meno quanto molte delle camere per gli ospiti e degli studi che spolveravo. La sera aprivo il divano letto e dormivamo lì. Mia ci saltava sopra, tutta felice, dichiarando che era un pigiama party. Il divano era un po’ più largo del mio lettino singolo, ma lei continuava a dormire rannicchiata contro la mia schiena, tenendomi un braccio sul collo, scaldandomi la pelle tra le scapole con il fiato. La mattina, quando la sveglia ronzava e suonava nel buio, mi giravo sulla schiena per stiracchiarmi. Mia mi abbracciava il collo, poi mi posava la mano sulla guancia.
Una sera, dopo Natale, la pioggia invernale si trasformò in fiocchi di neve grandi come monete, ricoprendo il terreno con uno strato di parecchi centimetri. Io e Mia restammo alzate a guardare la neve ben oltre l’ora in cui lei andava a dormire di solito, sapendo che il giorno seguente non saremmo potute andare da nessuna parte. Mia infilò la tuta da neve e, alla luce di un lampione, si sdraiò in cortile a fare con le braccia l’angelo della neve, mentre io misuravo lo strato bianco sul cofano di Pearl: 35 centimetri. Non vedevo una nevicata del genere dai tempi dell’Alaska.
Il mattino dopo, Pam mi chiamò dicendomi di restare a casa. Non voleva che rischiassi di rimanere bloccata per strada tra un cliente e l’altro. Bastavano pochi centimetri di neve e nel Nordovest quasi tutto chiudeva. Persino la superstrada sotto casa nostra era silenziosa, con poche auto abbandonate dagli automobilisti sul ciglio.
Mia si infagottò per bene, senza lamentarsi che i suoi pantaloni da neve fossero ancora umidi dalla sera prima, e chiese quando potevamo uscire. Un mio ex insegnante che viveva nei paraggi mi mandò un messaggio via Facebook, chiedendomi se mi servisse una slitta. Diceva di averne una fantastica, con la corda per trascinarla e tutto il resto, e che me l’avrebbe lasciata nel portico di casa sua. Quando lo dissi a Mia, lei si mise a saltare su e giù, chiedendo: “Adesso? Possiamo andare subito?”. Esitai. Ogni fibra del mio corpo non desiderava altro che sprofondare in un divano, con infinite tazzone di tè, calze di lana, e se davvero dovevo abbandonarmi ai sogni, un fuoco scoppiettante, un libro e un cane accucciato ai miei piedi.
“C’è tanto da camminare,” dissi a Mia, sapendo che non le sarebbe importato. Avrei potuto dirle che avremmo camminato per tutto il giorno, e il suo entusiasmo non sarebbe svanito. Era un bel viaggio, per una bambina di tre anni, salire a piedi sulla collina per più di un chilometro, nella neve che le arrivava alle cosce, e infatti me la portai sulla schiena per quasi tutta la strada. A metà del tragitto per il porticato dove avremmo trovato la nostra slitta, ritta come un trofeo, fui costretta a fermarmi. Mi guardai alle spalle, verso la città avvolta nella neve fitta e nel silenzio.
Io e Mia passammo fuori buona parte della mattina, e poi la trascinai verso casa sulla slitta, dove stava sdraiata sulla pancia, mangiando manciate di neve. Sulle strade principali c’erano i segni degli spazzaneve, e mi chiedevo se sarebbero arrivati fino da noi. La casa dove abitavamo era all’angolo più basso di una viuzza. Ogni via d’uscita era in salita. Pearl, un’utilitaria, aveva ruote grandi più o meno quanto il carrettino rosso sul quale a volte portavo Mia in giro. Non avevo gomme da neve, e nemmeno catene, e comunque non me le potevo permettere.
Il sole riscaldò la neve per quasi tutto il giorno, ma la notte le temperature piombarono sotto lo zero e il giorno seguente non risalirono. La nostra strada era una distesa compatta di ghiaccio. Restai a guardare i miei vicini del piano di sopra che cercavano di far risalire la loro auto per la stradina, senza riuscirci. Un altro giorno di lavoro perduto. Forse quel mese avrei potuto saltare il pagamento di una carta di credito, o prendere un prestito dal credito disponibile, depositare il denaro sul conto in banca, e pagare con quello. Eravamo più o meno a metà mese, quindi buona parte delle bollette era saldata, ma lo stipendio non sarebbe arrivato per altre due settimane, all’arrivo delle nuove bollette. E con quel tempo, la paga sarebbe stata più bassa di circa 100 dollari.
Passammo buona parte di quei giorni di neve in soggiorno e in cucina. Nella zona notte faceva così freddo che dalle porte di vetro a riquadri vedevamo il ghiaccio accumulato sulle finestre, e per andare a prendere un giocattolo Mia doveva infilarsi il cappotto. Il nostro televisore prendeva soltanto le stazioni locali, quindi lei vedeva e rivedeva i suoi DVD preferiti. La favola di Hello Kitty ballerina, con quelle vocette stridule, mi faceva venire il mal di testa. Finalmente lo spegnemmo, tirando fuori, invece, gli acquerelli.
Mia dipingeva mentre io la osservavo compiaciuta oppure le leggevo delle favole. Non mi accadeva molto spesso di poter trascorrere del tempo libero con lei; di solito ci riuscivamo un weekend sì e uno no, quando non era dal suo papà. Non avendo soldi da spendere, dovevo ricorrere alla creatività per tenerla occupata, perché era instancabile, sveglia e curiosa. Se pioveva, non potevamo permetterci di andare al Children’s Museum e nemmeno al McDonald’s Playland, per farle sfogare tutta l’energia che aveva. Non ci potevamo godere le giornate di sole allo zoo o nei parchi acquatici.
A volte mi bastava camminare dietro a una famiglia con due genitori perché si scatenasse la vergogna di essere sola. Non riuscivo a staccar loro gli occhi di dosso: con abiti che non mi sarei mai potuta permettere, la borsa dei pannolini ben sistemata in un costoso passeggino adatto anche a fare jogging. Quelle mamme potevano dire cose che io non potevo dire: “Tesoro, ti spiace tenere questo?”, oppure “Scusa, puoi tenere la bambina per un secondo?”. Il piccolo poteva passare dalle braccia di un genitore a quelle dell’altro. Non contavo più le volte in cui avevo detto a Mia che doveva camminare, perché le mie braccia erano stanche, e non riuscivo più a portarla.
Il giorno della nevicata, cercai di tacitare i sensi di colpa e la vergogna, quelle voci interiori che si chiedevano se Mia avrebbe avuto una vita migliore con qualcun altro, se la mia decisione di metterla al mondo non fosse stata sbagliata. Posai il mento sulla mano e restai a guardarla mentre dipingeva, con grande cura, l’ennesima faccia sorridente. Avevamo addosso la tuta pesante e due paia di calzettoni. L’aria odorava di gelo.
In quei mesi avevo il cuore in pena per mia figlia più del solito, perché la vedevo affrontare con fatica il passaggio tra la casa di suo padre e la mia. Le domeniche in cui guidavo per tre ore, tra andata e ritorno, per andarla a prendere da Jamie erano diventate pomeriggi di stress e rabbia, per entrambe. Per buona parte dell’anno passato, in quelle occasioni Mia dormiva per quasi tutto il viaggio fino a casa, stremata perché nel fine settimana Jamie la esibiva agli amici, a dimostrazione di quanto fosse bravo come padre. Altre volte lei piangeva cercandolo: mi straziava e al tempo stesso mi faceva impazzire di rabbia. Non avevo mai rimpianto tanto la decisione di restare nello Stato di Washington quanto in quei pomeriggi. La povertà era come una pozza stagnante di mota che ci imprigionava rifiutandosi di lasciarci andare.
Una domenica, poco prima della tormenta di neve, Mia aveva urlato per tutto il tragitto, per tutti i novanta minuti in macchina dal terminal dei traghetti fino al nostro appartamento. Non ho mai saputo cos’era successo, che cosa le aveva detto Jamie per farla arrabbiare tanto. Quel pomeriggio, lei strillò con una voce gutturale, quasi animalesca, la stessa che le era uscita dopo l’intervento chirurgico.
“Ti odio!” ripeteva, scalciando. “Voglio ucciderti! Ti voglio morta!” Suo padre approfittava di ogni occasione per manipolarla, facendole credere che la tenevo lontana da lui, dicendole quanto lui fosse triste per non averla sempre con sé. Se avesse voluto davvero tenerla di più, ci avrebbe provato. Si sarebbe assicurato, quantomeno, che lei avesse la sua stanza. Ma Mia non lo sapeva. A lui piaceva che Mia lo volesse. Gli piaceva che piangesse per lui. Quando aveva soltanto un anno, Mia tornava da me inconsolabile, e io la tenevo stretta per ore, il corpicino rigido di rabbia e sofferenza, tra lacrime calde e urla scomposte, fino a quando la voce e le energie si esaurivano. Non potevo far altro che tenerla tra le braccia, desiderando che fosse al sicuro, più di chiunque altro.
Il pomeriggio della tormenta, bloccate nella nostra personale palla di neve, ero più che felice di bere un tè o un caffè e guardare mia figlia canticchiare, mentre immergeva il pennello in un altro colore. Mia era troppo piccola per dare voce ai suoi sentimenti di perdita, confusione, tristezza, nostalgia o rabbia, ma saperlo non addolciva i pomeriggi in cui, invece, dava sfogo alla rabbia. Il mio istinto era di tenerla stretta, ma ora scalciava e urlava ancora più forte. A volte urlavo anch’io. Sono certa che, oltre le pareti sottili di quell’appartamento, i vicini si chiedessero cosa stava accadendo. In quei momenti non sapevo cosa fare. Non avevo risorse, non avevo genitori a cui rivolgermi, nessuno capace di darmi consigli, o uno psicologo o almeno un gruppo di mamme da frequentare. Chiedevo a mia figlia di essere resiliente e di venire a patti con una vita che la faceva sbattere di qua e di là, da una persona all’altra, e sotto tutto quel peso emotivo lei urlava. Come avrebbe potuto comprendere la rabbia di mia figlia una mamma a tempo pieno, la cui figlia faceva scenate per normali capricci?
Non che non avessi cercato di mettermi in contatto con altri. Quell’autunno, nell’asilo di Mia c’erano serate riservate ai genitori o cene in cui ciascuno portava qualcosa, e io ci restavo il tempo sufficiente per socializzare. La maggior parte dei bambini dell’età di Mia che frequentavano l’asilo avevano dei genitori, al plurale. Sciamavano attorno a Nonna Judy, una continua fonte di allegria. Mia correva dentro e fuori con un gruppo di amichetti e, mentre me ne stavo lì da sola, sentii un paio di donne accanto a me che si lamentavano dei mariti. Non potei fare a meno di voltarmi a guardarle, e loro non poterono evitare di accorgersi che le avevo sentite.
“È così difficile quando sei sola!” mi disse una delle due, quella che stava ascoltando l’amica lagnarsi. Annuii, sforzandomi di sollevare gli angoli della bocca in una specie di sorriso.
“Allora, Stephanie,” disse l’altra donna, “sei una mamma single, vero? La mia amica ha appena affrontato un tremendo divorzio, ed è proprio in una brutta situazione. Conosci per caso qualche organizzazione che la possa aiutare?”
“Ehm, certo,” risposi, guardandomi attorno nervosamente. Tre donne erano accanto al tavolo, alle nostre spalle, con in mano dei piattini di bastoncini di carote e pezzetti di broccoli con salsa ranch. Ora mi stavano guardando tutte. La perfetta mamma single. Borbottai il nome di alcuni programmi di sovvenzioni per il cibo e il sostegno all’infanzia.
Una di loro, una signora bassa con capelli scuri a caschetto e una faccia tonda, tirò su con il naso e disse con fierezza: “Quando Jack è stato licenziato, l’inverno scorso, ci siamo dovuti trasferire tutti e tre a casa dei miei genitori. Te lo ricordi?”. Diede un colpetto con il gomito alla donna accanto a lei. “Quella stanzetta con il lettino di Jilly accostato alla parete? Era come fossimo dei senzatetto. Eravamo senzatetto!” L’amica alla quale aveva dato la leggera gomitata fece una faccetta triste. “Ma grazie al cielo avevamo risparmiato per affrontare le emergenze.”
Un’altra mamma annuì. Tutte si voltarono verso di me, in attesa di una replica. Io guardai il piatto che Mia aveva lasciato lì, patatine e un hot dog molliccio. Non avevo portato del cibo, quindi avevo deciso di non mangiarne. Non avevo la minima idea di che cosa dire. Come avrebbero giudicato la stanza in cui abitavamo io e Mia? Non riuscivo a darle una casa, o del cibo, e accettavo la carità per permetterci il piccolo spazio che occupavamo. La parte più frustrante dell’essere bloccata, incapace di avanzare, erano le punizioni che mi venivano inferte quando miglioravo la qualità della mia vita. In un paio di occasioni, il mio reddito aveva superato di pochi dollari il limite, e io avevo perso centinaia di dollari di benefit. Da libera professionista, dovevo comunicare il mio reddito con frequenza. Guadagnare 50 dollari in più poteva far sì che il mio contributo all’asilo di Mia aumentasse della stessa cifra. A volte significava perdere del tutto la sovvenzione per l’asilo. Non c’erano incentivi e occasioni per mettere qualcosa da parte. Il sistema mi teneva bloccata, a grattare il fondo del barile, e senza un piano d’azione per venirne fuori.
Una delle mamme del gruppo chiese di chi parlavano, chi aveva divorziato, e tutte si radunarono richiamate dal pettegolezzo, così riuscii a filarmela.
Forse potevano mettersi, in parte, nei miei panni. Forse i loro matrimoni le facevano sentire più sole di quanto io credessi. Forse tutte noi volevamo qualcosa che tutte avevamo perso la speranza di ottenere.
Pensavo agli scoppi di rabbia di Mia, a quando ero stata quasi sul punto di perderla nell’incidente, al fatto che dovevamo tenere il cappotto in casa perché non potevamo permetterci di aumentare il riscaldamento. A tutti i fine settimana senza Mia passati a pulire gabinetti e a strofinare pavimenti.
Quell’inverno presi un’altra decisione e mi misi a scrivere sul mio diario online con un obiettivo del tutto nuovo. Nel blog che avevo tenuto fino a quel momento avevo raccontato tutti i sacrifici che avevo affrontato, perché non sapevo a chi altro dirlo. Di quando in quando, inserivo un momento di bellezza, di limpidezza, di stupore per la vita che io e Mia condividevamo. Decisi di concentrarmi solamente su questo, cambiando il tema della nostra esistenza, e lo intitolai Vita con Mia. Volevo cogliere i momenti come quello che stavo vivendo ora, seduta al nostro tavolo, io immersa nelle riflessioni mentre la guardavo dipingere, per mantenerli vivi nella memoria.
Il diario online divenne l’ancora di salvezza che desideravo con tutta me stessa, uno sfogo per parole e immagini, un modo per dare un taglio allo stress e alla paura e concentrarmi su quello che amavo di più: mia figlia e la scrittura. Scattai una foto del viso di Mia illuminato dalla meraviglia. Scoprii che quegli istanti mi facevano sentire come se fossi stata lì, per lei, ancora più di quanto lo ero stata.
Quella non era la vita che desideravo per noi, ma era quella che avevamo, per ora. Non sarà sempre così. Dovevo continuare a ripetermelo, o il senso di colpa per avere questa stanza come casa, per dover dire a mia figlia che non avevamo altro che questo, che si trattasse di spazio o di cibo, mi avrebbe devastata. Quanto desideravo per lei una casa con un cortile e un patio di muratura o un marciapiede per giocare a campana. Ogni volta che facevamo il gioco “immaginiamo la casa dei nostri sogni”, Mia diceva di volere un recinto di sabbia e un’altalena, come quelle che aveva a scuola. Visualizzare dove saremmo finite, dove avremmo vissuto, cosa avremmo fatto sembrava importante per lei quanto lo era per me.
Era la partenza per il nostro viaggio. L’inizio. Sedute a quel tavolo, sentii che per un attimo il tempo si era fermato, il tempo di una pennellata sul foglio. Per ora, eravamo al caldo. Avevamo l’un l’altra, avevamo una casa, e conoscevamo la forma d’amore più forte, più profonda. Passavamo così tanto tempo a scapicollarci da una parte all’altra, a cercare di cavarcela, ad arrivare a fine giornata, per poi ricominciare da capo, che non mi sarei mai più scordata di apprezzare appieno anche i più minuti momenti di bellezza e pace.
Quel pomeriggio Pam chiamò, e le parlai restando seduta al tavolo di cucina, fissando fuori la neve. “Riesci a uscire?” chiese con un sussulto, un filo di speranza nella voce.
“Prima ho provato a spostare la macchina,” risposi, alzandomi per andare nella zona notte, che tenevo chiusa, per guardare fuori dalla finestra. “È scivolata fuori dal suo posto auto, finendo in strada e da lì gli pneumatici girano a vuoto.” Scossi il capo, una ex abitante dell’Alaska fatta e finita. “Il mio vicino ha cercato di rimetterla nel mio parcheggio, ma non ci siamo riusciti.” Grattai lo strato di ghiaccio sul vetro. Avevo lasciato Pearl parcheggiata dov’era, con il paraurti che per poco non sporgeva sulla strada. Si pensava che la tormenta di freddo non sarebbe terminata prima di uno o due giorni. Anche se la maggior parte delle strade era praticabile, molti miei clienti abitavano in case immerse nei boschi, o sulle colline. Se fossi rimasta bloccata, avrei rischiato di non poter andare a prendere Mia in tempo, e non c’era nessuno che potessi chiamare all’ultimo.
Per un attimo mi chiesi se Pam potesse licenziarmi per non essere in grado di andare a lavorare. Non mi era mai successo di perdere così tanti incarichi, e questo almeno andava a mio merito. Ma per qualche secondo, non me ne importò. Detestavo quel lavoro quasi quanto detestavo doverne dipendere. Detestavo averne bisogno. Detestavo essere grata di averlo. “Trovo un modo,” dissi a Pam.
“So che ci riuscirai, Steph,” rispose lei, e chiudemmo la conversazione.
Grattai ancora un po’ il ghiaccio dalla finestra. Mia aveva riacceso il televisore. Il fiato mi usciva a nuvolette. Allungai la mano per allontanare dalla finestra alcuni peluche di Mia, e dei frammenti della loro pelliccia restarono attaccati, gelati, al vetro.
Il crepuscolo oscurava l’orizzonte. Decisi di preparare per la cena di Mia dei pancake con un cucchiaino di gelato alla menta e pezzetti di cioccolato. Per me preferii del ramen pronto, con due uova sode e un avanzo di broccoli surgelati. Mia fece il bagno, e io scrissi sul diario online con il nuovo titolo, postando foto della passeggiata nella neve per andare a prendere la slitta. Le guance di Mia erano rosso acceso, i capelli le spuntavano dal cappello proprio quel che bastava per arricciarsi ai lati del viso mentre lei, con grande cura, leccava la neve dalle sue muffole rosa. Quanta pace. L’unico suono erano stati i nostri piedi che compattavano la neve.
Sul bordo della vasca da bagno, Mia allineò la sua mandria di My Little Pony, che mi erano stati passati di seconda mano da un’amica. “Ho finito il bagnetto, mamma,” mi avvertì lei, e la sollevai, ancora coperta di schiuma, la pelle arrossata dall’acqua calda, posandola sull’asciugamano che avevo messo sul coperchio del water. Stava diventando così pesante. Era passato tanto tempo da quando era una minuscola neonata tra le mie braccia.
Quella sera dormimmo sul divano letto per la seconda settimana di fila. Mia saltava su e giù, tutta eccitata perché l’aspettava un altro pigiama party con me e un’altra visione di Alla ricerca di Nemo.
Si addormentò a metà film. Mi alzai per abbassare il riscaldamento. Ci sarebbero volute tre ore prima che cominciassi ad assopirmi, e mi ritrovai a desiderare di avere un bicchiere di vino o anche un caffè decaffeinato, qualcosa che mi tenesse calda. Invece, mi rinfilai a letto accanto al corpo tiepido di Mia, sentendola respirare e agitarsi nel sonno. Infine, mi addormentai.