23. Fare di meglio
“Emi-liii-a?” chiamò l’infermiera. Destai Mia spostando la mia spalla da sotto la sua testa.
“Siamo qui,” dissi, alzandomi e chinandomi per prendere in braccio mia figlia. “La chiamiamo Mia.”
La donna non mostrò di dare importanza a ciò che avevo detto né al fatto che preferivo portare in braccio la mia piccola di tre anni. Ci disse solo di seguirla. Dopo esserci fermate un attimo per pesare Mia, ci sedemmo di nuovo in attesa.
“Quale sarebbe il problema?” chiese l’infermiera, più interessata al modulo che teneva in mano che a me.
“Per tutta la scorsa settimana mia figlia ha avuto una brutta tosse, di notte,” esordii, cercando di ricordare, da quanto stava soffrendo, quante volte l’avevo mandata all’asilo mentre sarebbe dovuta restare a casa. “Credo che potrebbe essere sinusite, o forse un’allergia? A volte ha gli occhi rossi rossi e si lamenta di aver molto male all’orecchio.”
L’infermiera, un donnone dall’aria burbera, continuò a ignorare me, ma guardò Mia, che mi stava in braccio, con compassione. “Oh, tesoro, ti fa male l’orecchio?” disse con una vocina infantile.
Mia annuì, troppo stremata o timida per controbattere. Lasciò che la donna le misurasse la febbre, le controllasse il battito e il livello di saturazione dell’ossigeno. Poi restammo ad aspettare. Appoggiai la testa alla parete, chiudendo gli occhi, cercando di non pensare al lavoro che stavo perdendo. Era di nuovo la Casa delle Piante, la cui proprietaria era così seccata per il mio continuo cambiamento di orario che Lonnie mi aveva detto che pensava seriamente di cancellare il servizio. Mia tossì ancora, una tosse profonda, gutturale. Era troppo piccola per darle lo sciroppo per la tosse, e comunque non me lo potevo permettere. Si svegliava due volte a notte, piangendo con una specie di ululato, tenendosi con le mani la testa, e nel sonno tossiva.
La pediatra che aprì la porta non era la solita, dato che avevo chiamato la mattina chiedendo un appuntamento per il giorno stesso. Era piccola, sembrava un ragazzino, con i capelli neri a caschetto come quelli di Mia. “Okay,” disse, socchiudendo gli occhi per leggere la cartella clinica. “Mia.” Quindi, dopotutto, l’infermiera mi aveva ascoltato, pensai, mentre Mia alzava la testa, sentendosi chiamare.
“Per favore, la faccia sedere qui,” disse, dando un colpetto con la mano al lettino per le visite, coperto dalla carta. Mentre parlavo, lei guardò prima la faccia di Mia, poi nei suoi occhi. “Quali sono le vostre condizioni di vita?” chiese. Mi accigliai, frenando una gran voglia di sentirmi ferita e offesa per la domanda. Avrebbe potuto dire: “Come vanno le cose a casa?”, oppure “C’è qualcosa che possa averla fatta ammalare?”, o “Avete animali domestici?”, qualsiasi altra frase, senza chiedere quali erano le nostre condizioni di vita. Come se vivessimo in un… poi pensai a dove vivevamo, e mi arresi.
“Viviamo in un monolocale,” dissi a voce bassa, ammettendo una specie di segreto; una parte di me temeva che avrebbe chiamato i servizi sociali, se avessi descritto nei dettagli quali erano davvero le nostre condizioni di vita. “C’è tanta muffa nera che continua a presentarsi sui davanzali. Credo che arrivi dal seminterrato. C’è un condotto di aerazione che arriva fino alla zona in cui dormiamo, e guardando giù si vede il nero.” La dottoressa aveva smesso di visitare Mia e stava lì in piedi con le mani intrecciate davanti a sé. Portava un minuscolo orologio da polso con un cinturino nero. “Ci sono un sacco di finestre.” Abbassai lo sguardo a terra. “Mi è molto difficile mantenere la stanza calda e asciutta.”
“Per legge, il padrone di casa deve fare tutto il possibile per eliminare la muffa,” disse, guardando nell’orecchio di Mia. “Qui c’è un’infezione,” mormorò, scuotendo la testa, quasi come fosse colpa mia.
“Il proprietario aveva pulito la moquette,” ricordai all’improvviso. “E aveva ritinteggiato, prima che entrassimo. Non credo che abbia fatto altro.”
“Allora dovete traslocare.”
“Non posso,” dissi, posando la mano sulla gamba di Mia. “Non posso permettermi niente altro.”
“Beh,” replicò, accennando con il capo a Mia, “sua figlia ha bisogno che lei faccia di meglio.”
Non sapevo che altro dire. Aveva ragione.
Guardai le mani di Mia, che teneva in grembo, le dita intrecciate. Avevano ancora quella morbidezza infantile, con le fossette al posto delle nocche. Ogni volta che aprivo la porta del nostro appartamento sentivo di aver fallito come genitore, ma non era nulla a confronto della bruciante vergogna che provavo in quel momento.
Riportando Mia in auto, avevo bisogno di sentire la sua testa sulla mia spalla, e il solletico dei suoi capelli sotto il naso. La pediatra ci aveva dato la ricetta per un altro ciclo di antibiotici e ci aveva rinviato allo specialista che aveva inserito i tubi timpanostomici a Mia, quasi un anno prima.
Dall’otorino, qualche giorno dopo, ci fecero entrare in una stanza con un lungo tavolo marrone, imbottito. Dopo un bel po’ d’attesa, lo specialista entrò senza tanti complimenti, anche stavolta senza dar segno di averci riconosciute, e disse: “La metta sul tavolo, qui”. Mi alzai, sempre tenendo in braccio Mia, che era rimasta seduta sulle mie ginocchia, e la feci sedere sul tavolo. “No, la stenda,” disse lui, voltandoci le spalle per frugare in contenitori pieni di strumenti. “Devo avere la sua testa sotto la luce.”
Mia spalancò gli occhi, spaventata, mentre le dicevo: “Tutto bene, Mia, deve soltanto guardare nel tuo orecchio”. Era dura essere sincera, mentre il medico cercava degli strumenti, chiamando dentro un’infermiera perché lo aiutasse, prima di tornare a guardarmi, brusco, con un sospiro di fastidio. Si sedette accanto al tavolo su uno sgabello girevole, infilando subito uno strumento nell’orecchio di Mia. Lei, che non riusciva a dormire senza prendere l’ibuprofene e che si affrettava a posarsi una mano sull’orecchio quando usciva all’aperto, aprì la bocca, un grido silenzioso di dolore. Lo specialista non perse tempo, prima esaminò l’orecchio, poi ritagliò un pezzetto di cotone grande quando il canale uditivo di Mia; lo mise dentro, aggiungendo alcune gocce di liquido.
“Ecco,” disse. “Dovrà metterle delle gocce di antibiotico nell’orecchio, come ho fatto io.”
“Sta già prendendo gli antibiotici,” sbottai.
“Vuole che sua figlia stia meglio o no?”
Non sapevo che cosa rispondere. “In passato, quando le ho dato queste gocce, le venivano le vertigini e cadeva per terra. Dovevo tenerla giù ferma per mettergliele.”
“Lei è la madre,” replicò lui. Era già alla porta, lo sguardo su di me, che stavo seduta con Mia in grembo. “Deve fare quello che è necessario.” Poi aprì la porta, uscì, e la richiuse così in fretta che mi arrivò una leggera corrente d’aria. Le sue parole mi bruciavano, come quelle della pediatra: non stavo dando a Mia quello che le serviva.
Nella valle di Skagit chiamano la primavera la stagione dei tulipani. Comincia con campi di narcisi gialli, iris porpora e anche qualche croco. Con il passare delle settimane, tulipani di ogni colore tappezzano il terreno. Agli abitanti piace dire che ci sono più tulipani nella Skagit Valley che in Olanda. Decine di migliaia di turisti sciamano nella regione, intasando le stradine di campagna e le rampe d’uscita delle autostrade, affollando ristoranti e parchi. Ma anche se i campi di tulipani, con le loro file di rosso, porpora, bianco e arancione, sono stupendi, non mi è mai importato molto dei fiori.
La stagione dei tulipani significa emergere da un lungo inverno, ma significa anche pioggia, umidità e muffa. In aprile, i deumidificatori della Casa delle Piante erano sempre azionati al massimo, e in camera da letto fece la comparsa un altro filtro per l’aria. Toglievo dai davanzali tracce di muffa nera sottili come ragnatele, sapendo che avrei dovuto fare lo stesso a casa mia.
Mia tossiva la notte, incessantemente. Certe sere, quando entravamo in casa, gli occhi le si arrossavano, riempiendosi di grumi appiccicosi. Era evidente che dipendeva dalla casa, che la casa che avevo scelto, con lo sfiatatoio che faceva entrare aria dallo scantinato centenario e pieno di muffa, ci stava facendo ammalare.
Ero sempre malata, ma i miei sintomi non mi disturbavano troppo, fino a quando potevo permettermi i farmaci da banco contro le allergie. L’anno prima, quando il mio reddito era ancora abbastanza basso da darmi diritto a Medicaid, avevo fatto un test per le allergie. Aveva rivelato che reagivo ai cani, ai gatti, a certe erbe e alberi, agli acari della polvere e alle muffe. “Si chiamano allergeni indoor,” aveva detto il dottore. Avevo appena cominciato a lavorare per Jenny, e per settimane il raffreddore di petto non mi aveva dato pace. Mi avevano prescritto inalazioni e spray nasali con acqua di mare. Andarmene dalla fattoria di Travis – con le pareti coperte di muffa nera e popolata da una colonia di gatti selvatici – mi aveva fatto un gran bene, ma avevo ancora sintomi allergici per le ore passate a pulire nelle case della vallata, con acari della polvere, forfora dei gatti e spore di muffa.
La Casa della Gattara mi dava irritazione agli occhi, naso che colava e una tosse che durava fino a quando non riuscivo a cambiarmi gli abiti e a farmi la doccia. La mattina, appena arrivata, pulivo il bagno padronale. In camera da letto c’era la moquette rosa, due lettiere e tre tiragraffi. Mentre spostavo le lettiera per passare sotto l’aspirapolvere, quattro gatti mi fissavano dai loro trasportini di plastica allineati sul letto. La mia presenza era una seccatura per loro, perché per tutto il giorno dovevano restare rinchiusi. Se mi avvicinavo troppo mi soffiavano.
Quando andavo in quella casa, raddoppiavo la dose di antistaminici da banco, eppure quando correvo fuori mi sembrava di aver sniffato del pepe di Cayenna. Socchiudevo le finestre, cercando disperatamente un po’ di sollievo. Ma non lo dissi mai a Lonnie o a Pam.
Quella primavera, dopo aver calcolato le tasse tramite il software TurboTax, per poco non caddi dalla sedia. Sommando il credito per il reddito dichiarato e le detrazioni per la bambina, avrei avuto un rimborso di quasi 4000 dollari. “È più di quanto guadagno in tre mesi,” mormorai tra me e me, nel buio del nostro appartamento. Non mi sembrava possibile avere una cifra del genere. Aspettai con ansia che l’ufficio imposte accettasse i miei moduli, con la sensazione di averla fatta franca. In un quadernetto elencai le cose che avrei potuto comprare con quei soldi: revisione, cambio dell’olio e ammortizzatori per la Honda; saldo di una delle mie carte di credito; infine spugnette e detersivo per i piatti, spazzolini da denti, shampoo e balsamo, bagnoschiuma, vitamine e antistaminici. O magari potevamo fare un viaggetto in macchina.
Come tanti altri, buona parte di ciò che sapevo su Missoula lo avevo letto in In mezzo scorre il fiume, di Norman Maclean. Chi va a Missoula in cerca di posti dove praticare la pesca a mosca può affermare di essere stato attirato da quel romanzo, o dal film che ne è stato tratto. Per me, era stata la descrizione del Montana che John Steinbeck aveva fatto in Viaggi con Charley a convincermi a lasciare l’Alaska e a dirigermi verso il Paese del grande cielo. Avevo scelto Missoula non per Maclean, ma per David James Duncan, l’autore di Il fiume delle verità che, durante un reading a Seattle, aveva rivelato di vivere e a volte tenere lezioni in quella università. Quello che mi costringeva a sognare di svegliarmi una mattina d’estate per guidare per nove ore verso est era, semplicemente, un presentimento. Un presentimento che era cresciuto fino a diventare un ronzio costante. Che continuava da più di cinque anni.
A Missoula le paghe sono basse e le spese per gli alloggi sono alte. Ecco quanto sapevo dopo aver parlato con persone che ci avevano abitato ma non potevano più permetterselo. Non è facile procurarsi un lavoro, e non pagano bene, in una cittadina universitaria di circa settantamila abitanti. I genitori dei ragazzi che vanno al college affittano per loro degli appartamenti, facendo crescere i prezzi nelle zone più ambite della città, dove persino un appartamento con una sola stanza da letto in un seminterrato arriva almeno a 800 dollari. Riflettendo sulla possibilità di trasferirmi, tenevo sempre presente questa situazione di stallo. Ma quando parlavo con chi viveva a Missoula, ecco, si sentiva che amavano profondamente la loro città. Chi vi si era trasferito diceva di aver sacrificato salari competitivi o paghe alte, ma che ne valeva la pena, pur di vivere a Missoula.
Volevo capire perché Steinbeck ne avesse scritto con tanto amore. Perché Maclean affermasse che più ci si allontana da Missoula, più aumenta esponenzialmente il numero dei bastardi. La gente parlava del luogo come di una sensazionale varietà di gelato che avevano gustato una volta, in vacanza, che non erano mai più riusciti a ritrovare, e che forse, ma non ne erano certi, avevano soltanto sognato.
La sera in cui il denaro del rimborso delle tasse arrivò sul mio conto, uscimmo a cena al Red Robin. Lasciai che Mia prendesse un frappè al cioccolato. Al super riempimmo il carrello con cibi che di solito non potevamo permetterci: avocado, pomodori, frutti di bosco surgelati per i pancake. E una bottiglia di vino. La settimana dopo, comprai un letto e un materasso a due piazze e un termoforo, così da non dover riscaldare tutta la stanza durante la notte. Trovai in svendita delle tende isolanti e dei bastoni. Comprai a Mia un piccolo tappeto elastico, per poter saltare, invece di usare il divano e il letto. Mi comprai una cosa che desideravo da tanti anni: un anello a tensione in titanio con diamante, per 200 dollari. Ero stanca di aspettare che si presentasse un uomo e me ne comprasse uno. Erano anni e anni che non spendevo così tanto per qualcosa di non necessario. Una decisione difficile da prendere, ma avevo bisogno di assumere un impegno con me stessa. Di avere fiducia nella mia forza interiore. Potevo farlo, fare tutto, stare bene da sola. L’anello che scivolò sul dito medio della mano sinistra serviva a ricordarmelo ogni giorno.
Con il denaro, sia pure provvisoriamente, la vita sembrava quasi serena. Riempivo il serbatoio della benzina senza sottrarre il totale da quello che restava sul mio conto. Al supermercato, non mi impegnavo più in complessi calcoli matematici – che giorno era, quali conti erano stati pagati, quanto avrei pagato, o su quali carte di credito avevo ancora disponibilità – prima di decidere se mi potevo permettere i tovaglioli di carta. Dormivo; senza ulteriori coperte per tenermi al caldo, senza un groppo nello stomaco, senza troppe preoccupazioni. Ma Mia continuava a rigirarsi e a rivoltarsi nel sonno, tossiva e starnutiva, si svegliava lamentandosi per il male in gola e alle orecchie. E anche se io, per il momento, potevo permettermi di prendermi ore libere per portarla dal dottore, non potevo impedire che la sinusite e l’otite la stremassero.
A notte fonda, quando avevo bisogno di fare una pausa dallo studio, scorrevo le inserzioni immobiliari. Guardavo con desiderio le foto delle case, appartamenti di due stanze, tutti molto al di là delle mie possibilità. Con il mio reddito riuscivo a malapena a pagare l’affitto del monolocale, ossia più o meno metà di quanto costassero le altre soluzioni. Anche se al momento avevo un piccolo introito extra, non ce la potevo fare. Era un cuscino che ci avrebbe accolte e salvate in caso di caduta. E se avevo imparato qualcosa era che, quando sei in bilico, sul punto di farcela, di solito perdi l’equilibrio e cadi. Scrollavo la testa e con un clic cancellavo le inserzioni, tornando allo studio. Perfino sognare sembrava al di là delle mie possibilità.
Per giorni mi era risuonata in testa la voce della pediatra. “Sua figlia ha bisogno che lei faccia di meglio.” Come potevo fare di meglio? Non mi sembrava possibile provarci con ancora più determinazione di quanto già non facessi, a saltare nei cerchi che mi si paravano davanti e che a volte mi imprigionavano, mi intrappolavano senza possibilità di scampo.
Quella settimana consegnai una copia della busta paga di Classic Clean scritta a mano per rinnovare il sussidio per l’asilo di Mia, e l’impiegata del dipartimento Salute e Servizi Sociali mi chiamò, chiedendomi di presentarne una ufficiale. Cercai di spiegare che era la calligrafia del mio capo e una busta paga reale, ma lei mi minacciò di togliermi il sussidio e di negarmi immediatamente l’assistenza. Scoppiai in singhiozzi. Lei mi disse di andare il giorno seguente alla sede locale del dipartimento per chiarire la faccenda.
La mattina la gente si mette in fila al dipartimento Salute molto prima che aprano gli uffici. Io non lo sapevo, e arrivai circa trenta minuti dopo l’apertura delle porte. Tutte le sedie in sala d’aspetto erano occupate. Presi un numero e rimasi in piedi appoggiata alla parete, osservando le interazioni tra madri e figli; tra assistenti sociali e utenti che non capivano perché fossero lì, perché venissero loro negati i sussidi, perché dovessero tornare con altri documenti.
Una sedia si liberò, ma la lasciai a una donna anziana che indossava una gonna lunga e teneva per mano un bimbo piccolo e triste. Diedi un’occhiata all’orologio. Era passata un’ora. Quando lo guardai di nuovo, ne era trascorsa un’altra. Mi stavo innervosendo, speravo che chiamassero il mio numero prima di dover andare a prendere Mia all’asilo. Lei si sarebbe messa a saltellare per tutta la sala. Non come i bambini che avevo attorno, seduti tranquilli, che sussurravano per chiedere di poter andare al bagno. In quell’ufficio non c’era traccia degli stereotipi sulle persone che vivono in povertà. Sui loro volti potevo leggere la frustrazione, la necessità di uscire di lì per andare a comprare da mangiare, tornare al lavoro. A loro, come me, era stata tolta ogni speranza; lo sguardo a terra, aspettavano, e avevano davvero bisogno di ciò che chiedevano. Ci serviva aiuto. Eravamo lì per un aiuto per poter sopravvivere.
Quando il mio numero lampeggiò sul tabellone, corsi allo sportello, per paura che, se non fossi stata abbastanza svelta, avrebbero chiamato quello seguente. Posai la mia cartelletta viola sul bancone, tirai fuori tutte le copie degli assegni che avevo ricevuto dai clienti e la busta paga scritta a mano. La donna prese un paio di moduli, ascoltando le mie ragioni, poi esaminò la busta paga.
“Il suo capo deve stamparne una ufficiale,” disse, fissandomi negli occhi. Sbattei le palpebre. La sua espressione non cambiò.
Le dissi che ero stata lì tutta la mattina, che l’ufficio del mio capo era a quaranta minuti di macchina. Non potevo passare un altro giorno lì in attesa.
“Se vuole mantenere il sussidio per l’asilo, è quello che deve fare.” Ero congedata. Era quasi l’una.
Lonnie scosse il capo mentre stampava una busta paga per me. Si riferiva a un periodo di lavoro di settimane prima. Tutto il mio reddito indipendente arrivava da assegni compilati a mano dai clienti. Mi sembrava che fosse tutto senza senso. Tuttavia il giorno dopo aspettai in fila che l’ufficio aprisse, poi attesi per ore per consegnare il mio reddito relativo agli ultimi tre mesi, un foglio con le ore di lavoro che svolgevo, e lettere di diversi clienti che affermavano in via ufficiale che lavoravo nelle loro case nelle ore che risultavano dalla mia dichiarazione.
Senza i buoni pasto, saremmo andate al banco alimentare o alla mensa dei poveri in chiesa. Senza il sussidio per pagare l’asilo, non avrei potuto lavorare. Le persone abbastanza fortunate da restare estranee al sistema sociale, o da mantenersene ai margini, non capivano quanto fosse difficile ottenere quegli aiuti. Non sapevano quanto ne avessimo un disperato bisogno, nonostante gli ostacoli che ci mettevano davanti.
Quel venerdì, quando andai a pulire la casa di Henry, lui si accorse che sembravo depressa. Mi era rimasto ancora circa un quarto del rimborso delle tasse. Per il momento non l’avrei toccato, a meno che l’auto non si rompesse, o Mia si ammalasse, o un cliente cancellasse il servizio, o tutto insieme. Anche se continuavo ad addormentarmi immaginando Missoula – chissà come sarebbe stato oltrepassare il ponte sul Clark Fork River, o sdraiarmi su un prato guardando il grande cielo – al momento un viaggio sembrava impossibile anche solo da prendere in considerazione.
“Non credo di potermi permettere di fare un giro nel Montana,” dissi a Henry, quando mi chiese cosa avessi. Lui spazzò l’aria con la mano, come se le mie parole avessero un cattivo odore. Era ormai un anno che mi sentiva parlare di Missoula, ma solo con frasi tipo “oh-come-mi-piacerebbe-andarci-prima-o-poi”. La mia faccia doveva avere un’espressione così funebre che si rese conto che era una faccenda seria. Allora si alzò dalla scrivania, andò a uno scaffale e si mise a cercare tra guide turistiche e cartine geografiche. Poi mi porse un libro sul Glacier National Park e una grande cartina ripiegata del Montana.
Allargò la cartina sulla scrivania e mi indicò i posti dove dovevo andare. Si rifiutava di credere che il viaggio in Montana fosse del tutto impossibile. Certo, apprezzai il gesto, il suo incoraggiamento, il sostegno, ma il mio sorriso non era sincero. Una grande parte di me era spaventata. Non del viaggio – anche se temevo che la mia auto non ce la facesse – ma di innamorarmi di Missoula e di dover poi tornare a Skagit Valley, alla muffa del mio monolocale sopra la tangenziale. Sarebbe stato come dire addio per sempre a una vita migliore, quella che non avrei avuto.
Desideravo quella vita, desideravo migliorare, e in quell’ottica il mio lavoro a Classic Clean smetteva di avere un senso. Più di un terzo dei miei guadagni se ne andava per la benzina. Dopo averlo fatto notare a Pam, lei mi offrì un piccolo contributo agli spostamenti, ma era un quarto di quanto spendevo solo per andare da un lavoro all’altro. Inoltre, l’anonimato cominciava a sfinirmi. Tra il lavorare da sola e il seguire le lezioni online, la mia era una vita di solitudine. Avevo assoluto bisogno di contatti umani, anche se si fosse trattato solo di qualcuno che mi assumeva per lavorare. Ciò che facevo doveva avere uno scopo, un significato, o perlomeno doveva darmi la sensazione di aver aiutato qualcuno.