1. Il bungalow

Mia figlia imparò a camminare in un rifugio per senzatetto.

Era un pomeriggio di giugno, il giorno precedente il suo primo compleanno. Ero sul bordo del logoro divanetto del rifugio, pronta a cogliere i suoi primi passi con una vecchia macchina fotografica. I capelli arruffati di Mia e la sua tutina a righe sottili contrastavano con la determinazione nei suoi occhi scuri, mentre fletteva e arricciava le dita dei piedi per tenersi in equilibrio. Da dietro l’obiettivo, coglievo le pieghe delle caviglie, i rotolini di ciccia delle cosce, la morbidezza della pancia. Mentre avanzava verso di me, balbettava, a piedi nudi sul pavimento di mattonelle. Anni e anni di sudiciume si erano incistati in quel pavimento. Per quanto strofinassi, non riuscivo mai a farlo diventare pulito.

Era l’ultima settimana del nostro soggiorno di novanta giorni in un bungalow nella parte settentrionale di Port Townsend, che la commissione agli alloggi assegnava a chi non aveva casa. In seguito, ci saremmo spostate in un alloggio provvisorio, un condominio vecchio e cadente con pavimenti di cemento, che serviva anche come casa di accoglienza per ex detenuti. Per quanto fosse una soluzione temporanea, avevo fatto del mio meglio per rendere il bungalow una vera casa per mia figlia. Avevo sistemato sul divanetto un lenzuolo giallo, non solo per riscaldare le pareti bianche e incombenti e i pavimenti grigi, ma anche per offrirle qualcosa di luminoso e allegro in un periodo così buio.

Vicino alla porta d’ingresso, sulla parete, avevo appeso un piccolo calendario. Era pieno di appuntamenti con assistenti sociali e organizzazioni che ci avrebbero potuto aiutare. Avevo cercato per mare e per terra, mi ero affacciata agli sportelli di ogni sede assistenziale governativa, e mi ero unita alle lunghe file di persone con sottobraccio cartelle zeppe di documenti deputati a provare che non avevamo denaro. Ero stremata dall’impegno che ci voleva a dimostrare di essere povera.

Non ci era concesso avere visite, o avere qualsiasi cosa. Tutto ciò che possedevamo stava in una sacca. Mia aveva un solo cestino di giocattoli. Io avevo una piccola pila di libri, sistemati sui miseri scaffali che separavano il soggiorno dalla cucina. C’era un tavolo rotondo al quale avevo agganciato il seggiolone di Mia, e una sedia dalla quale la guardavo mangiare, spesso bevendo caffè per tacitare la mia fame.

Mentre osservavo Mia fare quei primi passi, cercavo di non guardare la scatola verde alle sue spalle dove conservavo i documenti legali riguardanti la causa con suo padre per l’affidamento. Mi sforzavo di concentrarmi su di lei, di sorriderle, come se tutto andasse bene. Se avessi rivolto l’obiettivo verso di me, non mi sarei riconosciuta. Le mie poche fotografie mostravano quasi una persona diversa, forse al punto di massima magrezza mai raggiunto in vita mia. Lavoravo part time come giardiniera; per molte ore alla settimana regolavo arbusti, tenevo sotto controllo l’invasione di cespugli di more, e strappavo uno a uno minuscoli fili d’erba da punti dove non avrebbero dovuto crescere. A volte pulivo pavimenti e gabinetti a casa di persone che conoscevo, amici al corrente del mio disperato bisogno di denaro. Non erano ricchi, ma avevano alle spalle una certa sicurezza finanziaria, cosa che io non avevo. Un mancato stipendio sarebbe stato una difficoltà, non l’inizio di una serie di eventi che li avrebbe portati a vivere in un rifugio per senzatetto. Avevano genitori o comunque membri della famiglia disposti a offrire del denaro, salvandoli da tutto questo. Nessuno ci stava offrendo qualcosa del genere. Eravamo solo io e Mia.

Sui documenti per la commissione agli alloggi, alla voce nella quale mi si chiedeva quali fossero i miei obiettivi per i prossimi mesi, avevo scritto che volevo cercare di far funzionare le cose con il papà di Mia, Jamie. Pensavo che se ci avessi provato con tutte le mie forze, ne saremmo venuti fuori. A volte mi capitava di immaginare che fossimo una vera famiglia, una mamma, un papà, una bellissima bimba. Mi aggrappavo a quei sogni a occhi aperti, come fossero stati un filo legato a un gigantesco palloncino. Quel palloncino mi avrebbe portato oltre le violenze di Jamie e la difficoltà di essere una mamma single. Se avessi tenuto stretto quel filo, avrei fluttuato sopra tutto. Se mi fossi concentrata sull’immagine della famiglia che desideravo, avrei potuto fingere che le parti brutte non fossero reali; come se questa vita fosse una situazione temporanea, non una nuova forma di esistenza.

Per il compleanno comprai a Mia un paio di scarpe nuove; avevo risparmiato per un mese. Erano marroni, con ricamati degli uccellini rosa e azzurri. Spedii gli inviti per la sua festa, come una mamma normale, e invitai Jamie come fossimo una normale coppia che condivideva la custodia della figlia. Festeggiammo a un tavolo da picnic davanti all’oceano, su una collina erbosa al Chetzemoka Park di Port Townsend, la città dello Stato di Washington dove vivevamo. Gli invitati sedevano sorridenti sulle coperte che avevo portato. Con i buoni spesa che mi erano rimasti per quel mese avevo comprato limonata e muffin. Per partecipare, mio padre e mio nonno avevano fatto quasi due ore di strada, arrivando da zone opposte. Vennero mio fratello e qualche amico. Uno portò la chitarra. Chiesi a un amico di scattare delle foto di me, Jamie e Mia, dato che era raro vedere noi tre seduti insieme, così. Volevo che Mia avesse un bel ricordo da conservare. Ma nelle foto il viso di Jamie esprimeva disinteresse, rabbia.

Mia mamma era arrivata con il marito, William, fin da Londra, o dalla Francia, o ovunque vivessero all’epoca. Il giorno dopo la festa di Mia si presentarono, in violazione alla regola “niente visite” del rifugio per senzatetto, per aiutarmi a traslocare nel mio appartamento temporaneo. Vedendo com’erano vestiti, non potei fare a meno di scrollare il capo: William con jeans neri attillati, maglione nero e stivali neri, mamma con un vestito a righe bianche e nere che le stava decisamente troppo stretto sui fianchi abbondanti, leggings neri e Converse basse. Sembravano pronti a sorseggiare un espresso, non a fare un trasloco. Non avevo permesso a nessuno di vedere dove vivevo, quindi l’invadenza delle loro espressioni britanniche e degli abiti di taglio europeo facevano sembrare il bungalow, la nostra casa, ancora più misero.

William parve sorpreso di vedere che non avevamo altro che un borsone da viaggio. Lo prese per portarlo fuori, e la mamma lo seguì. Io mi voltai per dare un’ultima occhiata a quel pavimento, al fantasma di me stessa seduta sul divanetto a leggere, di Mia che frugava nel cestino dei giocattoli, di lei dentro al cassetto che usciva da sotto il letto a una piazza. Ero felice di andarmene. Ma era un istante dedicato a capire fino in fondo che ero sopravvissuta, un addio dolceamaro al fragile luogo da dove avevamo ricominciato.

Metà dei residenti del nostro nuovo condominio, parte del Northwest Passage Transitional Family Housing Program, arrivava come me da rifugi per senzatetto, ma l’altra metà era formata da gente appena uscita di galera. In teoria doveva essere un passo avanti rispetto al rifugio, ma mi mancava già l’intimità del bungalow. Qui, in questo edificio, la realtà della mia situazione era esposta, visibile a tutti, persino a me.

La mamma e William restarono indietro mentre mi avvicinavo alla porta della nostra nuova casa. Mi misi ad armeggiare con la chiave, posando a terra la scatola per darmi ancora più da fare con la serratura, e finalmente entrammo. “Beh, almeno è un posto sicuro,” scherzò William.

C’era un ingressino; la porta d’entrata fronteggiava quella del bagno. Notai immediatamente la vasca, dove io e Mia avremmo potuto fare il bagno insieme. Era da tanto che non godevamo di quel piacere. A destra c’erano le nostre due camere da letto, ciascuna con una finestra affacciata sulla strada. Nella minuscola cucina, la porta del frigorifero strisciava contro gli armadietti di fronte. Avanzai sulle grandi mattonelle bianche, che assomigliavano al pavimento del rifugio, e aprii la porta che dava su un piccolo balcone. Era largo appena quanto bastava per sedersi allungando le gambe.

Julie, l’assistente sociale che mi seguiva, due mesi prima mi aveva mostrato l’appartamento, dandomi istruzioni dettagliate. L’ultima famiglia che ci aveva vissuto era rimasta per ventiquattro mesi, il massimo possibile. “Sei fortunata che si sia liberato,” aveva detto. “Specie considerando che non puoi più restare al rifugio.”

La prima volta che avevo incontrato Julie, ero rimasta seduta di fronte a lei balbettando le mie risposte sui miei progetti futuri, su come pensavo di trovare un riparo per mia figlia. Come si presentava il mio cammino verso la stabilità finanziaria. Quali lavori avrei potuto fare. Julie sembrava comprendere il mio disorientamento, e mi offriva consigli sui passi da fare. Trasferirmi in un alloggio per persone a basso reddito sembrava l’unica possibilità. Il problema era trovarne uno disponibile. Gli avvocati del centro servizi per le vittime di violenza domestica e aggressioni sessuali disponevano di una casa protetta per chi non sapeva dove altro andare, ma io avevo avuto fortuna quando la commissione agli alloggi mi aveva offerto uno spazio tutto mio, e un sentiero verso la stabilità.

Nel corso di quel primo incontro, io e Julia esaminammo un elenco lungo quattro pagine di regole severe, regole che dovevo accettare per restare nel loro rifugio.

Per gli ospiti: attenzione, questo è un rifugio di emergenza;

NON è casa vostra.

Possono essere richieste ANALISI DELLE URINE CASUALI in qualsiasi momento.

I visitatori NON sono ammessi.

NON SONO PREVISTE ECCEZIONI.

Julie aveva chiarito che potevano effettuare controlli senza preavviso per accertarsi che gli ospiti facessero i lavori domestici indispensabili, come lavare i piatti, non lasciare cibo sui ripiani, tenere pulito il pavimento. Accettai nuovamente di sottopormi ad analisi delle urine senza preavviso, a ispezioni a campione nell’appartamento, e al coprifuoco alle dieci di sera. Senza un permesso, non era consentito avere ospiti che si fermassero a dormire, e comunque non potevano restare per più di tre giorni. Tutti i cambiamenti di reddito dovevano essere immediatamente comunicati. Ogni mese si doveva presentare un estratto conto, dettagliando da dove arrivava il denaro e come e perché veniva speso.

Con me Julie era sempre gentile e non smetteva di sorridere. Apprezzavo che non avesse quell’aria desolata, stremata, che sembrava tipica di altri assistenti sociali governativi. Mi trattava come una persona, e parlandomi si sistemava i capelli, corti e ramati, dietro alle orecchie. Ma io non riuscivo a non pensare al momento in cui mi aveva definita “fortunata”. Non mi sentivo fortunata. Grata, certo. Sicuramente. Ma fortunata proprio no. Non mentre mi stavo trasferendo in un posto con regole che implicavano che fossi tossica, sudicia, o semplicemente così incasinata da aver bisogno di un coprifuoco e di analisi della pipì.

Essere povera, vivere miseramente, assomigliava molto a essere in libertà vigilata: il crimine era la mancanza dei mezzi di sussistenza.

Io, William e la mamma spostammo abbastanza rapidamente le mie cose dal camioncino che avevo preso in prestito fino alle scale che portavano a casa mia, al secondo piano. Le avevo tenute in un magazzino che mi aveva procurato mio padre, prima che mi trasferissi nel bungalow. La mamma e William erano vestiti in modo così inadeguato alla situazione che chiesi se volessero mettersi una maglietta, ma rifiutarono. Da quanto ricordavo, la mamma era sempre stata sovrappeso, a parte il periodo in cui stava divorziando da mio padre. Aveva attribuito il dimagrimento alla dieta Atkins. In seguito, papà aveva scoperto che il suo improvviso interesse per la palestra non era dovuto al bisogno di rimettersi in forma, ma a una relazione, oltre al desiderio di sfuggire ai vincoli di una vita da moglie e mamma. La metamorfosi di mia madre fu una dichiarazione, o un risveglio alla vita che aveva sempre voluto, ma che aveva sacrificato per il bene della famiglia. Per me, fu come se all’improvviso fosse diventata un’estranea.

La primavera in cui mio fratello Tyler terminò il liceo, i miei genitori divorziarono e la mamma si trasferì in un appartamento. A fine novembre, per il Giorno del Ringraziamento, era dimagrita tanto da rientrare in abiti di una taglia metà della precedente e si era fatta crescere i capelli. Andammo insieme in un bar, e restai a guardarla mentre baciava uomini della mia età, per poi accasciarsi su un divanetto. Ero imbarazzata, ma in seguito quella sensazione si trasformò in un senso di perdita che non sapevo come affrontare. Rivolevo la mia mamma.

Dal canto suo, anche papà era sparito per un po’, entrando in una nuova famiglia. La donna che frequentava dopo il divorzio era gelosa e aveva tre figli maschi. Non le piaceva avermi nei paraggi. “Devi arrangiarti,” mi disse papà un giorno, dopo aver fatto colazione a un fast food vicino a casa loro.

I miei genitori erano andati avanti per la loro strada, lasciandomi emotivamente orfana. Giurai che mai avrei permesso che tra me e Mia si creasse lo stesso spazio fisico ed emotivo.

Ora, guardando la mamma, sposata a un inglese che aveva soltanto sette anni più di me, mi accorsi che era lievitata, arrivando a dimensioni superiori a quelle mai raggiunte in passato, tanto da sembrare a disagio nel proprio corpo. Non potevo fare a meno di osservarla in silenzio mentre mi parlava con un falso accento britannico. Erano passati più o meno sette anni da quando si era trasferita in Europa, e da allora l’avevo vista pochissime volte.

Tra uno scatolone di libri e l’altro, cominciò a dire che un hamburger ci sarebbe stato proprio bene. “E una birra,” aggiunse, quando ci incrociammo nuovamente sulle scale. Non era ancora mezzogiorno, ma a lei sembrava di essere in vacanza, il che voleva dire che si poteva cominciare a bere di buonora. Suggerì di andare da Sirens, un bar in centro con dei tavolini all’aperto. Sentii l’acquolina in bocca. Erano mesi che non uscivo a pranzo.

“Dopo aver finito qui devo lavorare, ma posso venire,” dissi. Una volta alla settimana facevo le pulizie della scuola materna di un’amica, per 45 dollari. Dovevo anche restituire il camioncino e andare a prendere Mia da Jamie.

Quel giorno la mamma si liberò anche di parecchi scatoloni di vecchie foto e cianfrusaglie che aveva riposto nel garage di un amico. Portò tutto nella mia nuova abitazione, in regalo. E io decisi di accettarlo, con nostalgia, come prova della vita che avevamo avuto insieme. Aveva conservato ogni ritratto scolastico, ogni foto di Halloween. Io che reggevo il primo pesce che avevo pescato. Io che stringevo al petto un mazzo di fiori dopo lo spettacolo di fine anno. Mamma era tra il pubblico, a sostenermi, sorrideva tenendo in alto la macchina fotografica. Ora, nell’appartamento, mi guardava come fossi un’adulta, una sua pari, e io me ne stavo lì, più smarrita che mai. Avevo bisogno della mia famiglia. Avevo bisogno che stessero dalla mia parte, sorridendo, dicendomi che tutto si sarebbe sistemato.

Quando William si alzò per andare in bagno, mi sedetti sul pavimento accanto alla mamma. “Ehi,” dissi.

“Che c’è?” rispose, come fossi stata lì lì per chiederle qualcosa. Avevo sempre la sensazione che temesse che potessi chiederle dei soldi, ma non l’avevo mai fatto. Lei e William vivevano modestamente in Europa, affittando l’appartamento di lui a Londra mentre stavano in una casetta in Francia, non lontano da Bordeaux, che avevano intenzione di trasformare in un bed and breakfast.

“Magari potremmo passare un po’ di tempo insieme, che ne dici?” le chiesi. “Solo noi due?”

“Steph, non mi sembra proprio che sia la cosa giusta da fare.”

“Perché?” chiesi, rialzandomi in piedi.

“Insomma, se vuoi passare del tempo con me, allora devi accettare che ci sia anche William.”

In quel momento, William si avvicinò, soffiandosi rumorosamente il naso con il fazzoletto. Lei allungò la mano per afferrare la sua e mi guardò con aria di sfida, come se fosse fiera di sé per aver stabilito dei confini.

Non era un segreto che William non mi piacesse. Quando, un paio d’anni prima, ero andata a trovarli in Francia, io e lui avevamo litigato aspramente; mia madre ne era stata così turbata che era scesa dall’auto scoppiando a piangere. Questa volta, volevo riguadagnare la relazione con lei. Non era solo una persona che poteva aiutarmi a prendermi cura di Mia; avevo un disperato desiderio di una mamma, qualcuno su cui contare, che mi accettasse incondizionatamente, anche se vivevo in un rifugio per senzatetto. Una mamma con la quale parlare, che forse poteva spiegarmi cosa mi stava succedendo, o che poteva semplificarmi le cose, aiutandomi a non considerare me stessa un completo fallimento. Era dura, arrivata a quel livello di disperazione, gareggiare per ottenere l’attenzione della propria madre. Quindi risi alle battute di William. Sorrisi quando prendeva in giro la grammatica americana. Non feci commenti sul nuovo accento di mia madre o sul fatto che ora faceva l’altezzosa, come se la nonna non avesse preparato macedonie con la frutta sciroppata e la panna spray.

Mamma e papà erano cresciuti in zone differenti della Skagit County, nota per le piantagioni di tulipani, circa un’ora a nord di Seattle. Le loro famiglie erano sempre state povere, da generazioni. Quella di papà era originaria, dalla notte dei tempi, delle colline boscose sopra il lago Clear. Si diceva che alcuni suoi lontani parenti continuavano ancora a distillare clandestinamente liquori. La mamma viveva nella vallata, dove si coltivavano piselli e spinaci.

Il nonno e la nonna erano stati sposati per quasi quarant’anni. I miei primi ricordi sono di loro nella roulotte nel bosco, parcheggiata accanto a un ruscello. Stavo con loro durante il giorno, mentre i miei lavoravano. Per pranzo il nonno preparava panini di maionese e burro con pane bianco in cassetta. Non avevano tanti soldi, ma i miei ricordi dei nonni materni sono pieni di amore e calore: la nonna che mescolava la zuppa di pomodori Campbell’s sul fuoco, con una bibita in mano, in bilico su un piede solo, e l’altro sollevato come un fenicottero. E sul posacenere lì accanto c’era sempre una sigaretta accesa.

Si trasferirono in città, in una vecchia casa vicino al centro di Anacortes, che nel corso degli anni si degradò tanto da diventare quasi infrequentabile. Il nonno era un agente immobiliare e tra una visita e l’altra alle case da mostrare ai clienti si presentava all’improvviso con dei giocattolini che aveva scovato per me o che aveva vinto alla macchinetta acchiappapremi del bowling.

Quando non ero da loro, telefonavo alla nonna. Passavo così tanto tempo a parlare con lei che nello scatolone delle foto ce n’erano parecchie di me a quattro o cinque anni, in cucina, con una grande cornetta telefonica gialla attaccata all’orecchio.

La nonna soffriva di schizofrenia paranoide, e a un certo punto divenne quasi impossibile instaurare una conversazione con lei. Ormai era al delirio. L’ultima volta che ero andata a trovarla con Mia, le avevo portato una pizza Papa Murphy’s, comprata con i buoni spesa. La nonna, con una spessa riga di eyeliner e un rossetto rosa acceso, restò quasi sempre fuori casa a fumare. Dovemmo aspettare che tornasse il nonno per entrare e mangiare. Quando lui arrivò, la nonna disse che non aveva più fame e accusò il nonno di avere una relazione, e persino di flirtare con me.

Ma ad Anacortes avevo tutti i miei ricordi d’infanzia. Anche se i legami con la mia famiglia erano sempre più deboli, raccontavo a Mia di Bowman Bay, una zona di Deception Pass: un’insenatura nell’oceano che separa Fidalgo Island e di Whidbey Island, dove papà mi portava a camminare da piccola. Quella nicchia dello Stato di Washington, con gli altissimi sempreverdi e i corbezzoli, era l’unico posto che sentissi come casa mia. Ne avevo esplorato ogni angolino, ne conoscevo i sentieri e le sfumature delle correnti oceaniche, e avevo inciso le mie iniziali sul tronco nodoso rosso-aranciato di un albero di corbezzoli. Avrei potuto indicarne esattamente la posizione. Ogni volta che tornavo ad Anacortes a trovare la mia famiglia mi ritrovavo a passeggiare sulle spiagge sotto il ponte di Deception Pass, prendendo la via più lunga attraverso Rosario Road, con le grandi case sulla scogliera.

La mia famiglia mi mancava, ma mi confortava sapere che la mamma e la nonna si sentivano ogni domenica. La mamma la chiamava da qualsiasi parte d’Europa si trovasse. Mi consolava, come se non avessi perduto del tutto la mamma, come se avesse in sé qualche ricordo delle persone che si era lasciata alle spalle.

Quando arrivò il conto del nostro pranzo da Sirens, la mamma ordinò un’altra birra. Controllai l’ora. Dovevo avere almeno due ore a disposizione per pulire la scuola materna prima di andare a prendere Mia. Dopo essere restata ancora per quindici minuti a guardare la mamma e William che si divertivano raccontando storielle bizzarre sui loro vicini di casa in Francia, ammisi che dovevo andare.

“Oh,” disse William, con aria contrariata. “Vuoi che vada a chiamare la cameriera così puoi pagare il pranzo?”

Lo fissai, stupefatta. “Non posso,” dissi. Ci guardammo l’un l’altro, non sapendo che fare. “Non ho i soldi per pagare.”

Sarebbe stato corretto, da parte mia, offrire loro il pranzo, dato che erano in visita e mi avevano aiutato nel trasloco, ma insomma, quelli avrebbero dovuto essere i miei genitori. Volevo ricordare a William che mi aveva appena aiutato a uscire da un rifugio per senzatetto, invece mi rivolsi alla mamma con uno sguardo di supplica. “Posso pagare la birra con la mia carta di credito,” propose lei.

“Ho sì e no 10 dollari sul mio conto,” replicai. In gola avevo un groppo che si faceva sempre più grosso.

“Bastano appena per il tuo hamburger,” sbottò William.

Aveva ragione. Il mio panino costava 10 dollari e 59. Avevo ordinato una cosa che costava esattamente ventotto centesimi meno di ciò che avevo sul mio conto in banca. La vergogna mi martellava in petto. Qualsiasi soddisfazione avessi provato quel giorno per essermene andata dal rifugio era in frantumi. Non potevo permettermi un maledetto hamburger.

Spostai lo sguardo dalla mamma a William, poi dissi che dovevo andare in bagno. Non dovevo fare pipì. Avevo bisogno di piangere.

Il riflesso nello specchio mostrava una persona sottile come un filo, con una maglietta taglia bambino e jeans stretti con l’orlo arrotolato per non far vedere che erano troppo corti. Nello specchio c’era quella donna, che lavorava tanto, ma senza denaro a dimostrarlo, una persona che non poteva permettersi uno schifoso hamburger. Spesso ero troppo stressata per mangiare, e molti pasti insieme a Mia si riducevano a guardarla infilarsi il cibo in bocca, ringraziando per ogni boccone che mia figlia mangiava. Il mio corpo era fibroso, privo di grazia, e non mi restava altro che piangere disperata in quel bagno.

Anni prima, quando pensavo al futuro, la povertà sembrava inconcepibile, così lontana dalla mia realtà. Mai avrei pensato di finire così. Ma ora, dopo un figlio e la rottura di una relazione, ero piombata nel bel mezzo di una realtà dalla quale non sapevo come uscire.

Quando tornai al tavolo, William era ancora lì, fremente di indignazione, come una specie di minuscolo drago. La mamma si chinò su di lui e gli sussurrò qualcosa; lui scrollò il capo, in segno di disapprovazione.

“Posso pagare dieci dollari,” dissi, sedendomi.

“Okay,” rispose la mamma.

Non mi aspettavo che accettasse la mia offerta. Mancavano ancora dei giorni alla prossima busta paga. Frugai nella borsa cercando il portafogli e porsi la mia carta di credito da aggiungere alla sua. Dopo aver firmato la ricevuta, mi cacciai la carta nella tasca posteriore e andandomene faticai a dare un abbraccio a mia madre. Mi ero allontanata solo di pochi passi dal tavolo quando William disse: “Beh, incredibile, come se avesse ragione lei!”.