2. Il camper
Per il Natale del 1983 i miei genitori mi regalarono una bambola Cabbage Patch. La mamma aveva fatto la fila per ore davanti a un JC Penney, aspettando che aprisse. I responsabili del grande magazzino stavano pronti con delle mazze da baseball per impedire alla folla di assalire i banconi. La mamma si fece largo assestando gomitate a destra e a sinistra come una lottatrice e afferrò l’ultima scatola dallo scaffale prima che una donna la agguantasse. O almeno così la raccontava lei. Io la ascoltavo sgranando gli occhi, beandomi all’idea che avesse combattuto per me. La mia mamma, la mia eroina. La campionessa. Colei che portava le bambole più ambite.
La mattina di Natale mi stringevo accanto la mia nuova Cabbage Patch. Aveva capelli biondi, corti e ricci, e occhi verdi. In piedi davanti alla mamma, alzai la mano destra e promisi: “Dopo aver conosciuto questa Cabbage Patch, e aver capito di cosa ha bisogno, mi impegno solennemente a essere una brava genitrice per Angelica Maria”. Poi firmai l’atto di adozione, che costituiva una parte essenziale del fenomeno delle bambole Cabbage Patch. Esprimeva i valori della famiglia e incoraggiava i bambini alla responsabilità. Quando ricevetti il certificato di nascita della bambola, a nome mio, la mamma strinse me e Angelica, tutta pulita e vestita per l’occasione, in un abbraccio colmo di fierezza.
Per quanto posso ricordare, ho sempre voluto essere una scrittrice. Fin da piccola scrivevo racconti e mi appartavo con i libri come fossero vecchi amici. I giorni di vacanza che preferivo erano quelli di pioggia, quando iniziavo un nuovo libro la mattina in un caffè, e lo finivo la sera tardi, in un bar. In quella prima estate con Jamie, mentre mi avvicinavo alla trentina, l’Università del Montana a Missoula cominciò a ingolosirmi mandandomi cartoline che pubblicizzavano il suo programma di scrittura creativa. Io mi immaginavo in quelle foto, a passeggio nel panorama bucolico del Montana sotto la citazione da Viaggi con Charley di John Steinbeck, tracciata a caratteri graziati: “… ma con il Montana è amore” aveva scritto, semplicemente. Parole che mi portavano nel Montana, la “Big Sky Country”, mentre cercavo il posto giusto per una nuova fase della vita.
Conobbi Jamie una sera mentre tornavo a casa dopo essere stata in un bar con i miei colleghi alla fine del turno. Era quasi mezzanotte, e i grilli, in quella sera di mezza estate, frinivano nell’erba. Avevo legato in vita la felpa con cappuccio, sudata per aver ballato per tutta la sera. Pensando alla lunga pedalata verso casa, feci per mettermela. Sul davanti dei miei pantaloni Carhartt c’erano delle goccioline di espresso, perché lavoravo in una caffetteria, e riuscivo ancora a sentire in bocca il sapore dell’ultimo sorso di whisky.
Uscita all’aria aperta, nella brezza fresca, sentii arrivare, trasportato dal vento, il suono di una chitarra e l’inconfondibile voce di John Prine, provenienti da una panchina nel parco. Mi fermai giusto il tempo di riconoscere la canzone e scorsi un tizio con un MP3 e due altoparlanti portatili sulle ginocchia. Indossava una giacca di flanella rossa e un cappello marrone ed era seduto un po’ chino, annuendo piano con la testa, perduto nella musica.
Senza pensarci due volte, mi sedetti accanto a lui. Mi sentivo ancora scaldata dal whisky. “Ciao,” dissi.
“Ciao,” rispose, con un sorriso.
Restammo lì seduti per un po’, ad ascoltare le sue canzoni preferite, a respirare l’aria notturna sui moli nel centro di Port Townsend. Gli edifici vittoriani di mattoni rossi torreggiavano sulle onde che lambivano le banchine.
Quando mi alzai per andarmene, nell’eccitazione di aver conosciuto un ragazzo nuovo, gli scribacchiai il mio numero di telefono su una pagina dell’agenda e la strappai.
“Ti va di uscire, qualche volta?” chiesi, porgendogli il foglio. Lui alzò lo sguardo su di me, poi lanciò un’occhiata verso le persone che uscivano ridendo dal Sirens, malferme sulle gambe. Prese il foglietto dalla mia mano, mi guardò, e annuì.
La sera seguente ero in auto quando il telefonino squillò.
“Dove stai andando?” chiese lui.
“In centro.” Sterzai bruscamente, senza riuscire a scalare la marcia, ripresi il controllo e tenni ben stretto il telefono.
“Incontriamoci fuori dal Penny Saver Market,” disse, e riagganciò.
Circa cinque minuti dopo, arrivai nel parcheggio. Jamie mi aspettava, appoggiato a un maggiolone Volkswagen rosso scassato, con addosso gli stessi abiti della sera prima. Mi sorrise con una certa freddezza, mostrando denti storti che, al buio, non avevo notato.
“Prendiamo un po’ di birra,” disse, gettando a terra il mozzicone di una sigaretta rollata a mano.
Comprò due bottiglie di Samuel Smith, una birra scura, poi salimmo sulla sua Volkswagen per andare sulla scogliera a guardare il tramonto. Mentre lui parlava, io sfogliavo una copia della “New York Times Book Review” che avevo trovato sul sedile del passeggero. Mi raccontò di un viaggio in bicicletta che aveva progettato, lungo la costa del Pacifico sulla Highway 101, fino a San Francisco.
“Mi hanno già dato le ferie,” disse, lanciandomi un’occhiata. I suoi occhi erano di un marrone più scuro dei miei.
“Dove lavori?” chiesi, rendendomi conto che di lui non sapevo niente, oltre alle sue preferenze musicali.
“Al Fountain Cafè.” Fece un tiro di sigaretta. “Prima ero sous chef. Ma adesso mi occupo soltanto dei dessert.” Espirò, e una nuvola di fumo scomparve sulla scogliera.
“Fai il tiramisù?” chiesi, interrompendo il mio patetico tentativo di rollarmi una sigaretta.
Annuì, e io capii che sarei finita a letto con lui. Il tiramisù era troppo buono.
Quella stessa settimana Jamie mi portò per la prima volta nel suo camper. In piedi in quello spazio minuscolo, restai a osservare con interesse il rivestimento di legno, la poltrona a sacco arancione e le mensole cariche di libri.
Accorgendosi che mi stavo guardando attorno, Jamie si scusò e si affrettò a spiegarmi che vivere nel camper era solo un modo per risparmiare in vista del suo viaggio in bici. Ma in una pila di libri sul tavolo avevo scorto Bukowski e Jean-Paul Sartre, e non poteva importarmi di meno dello stato del camper. Mi girai immediatamente a baciarlo.
Lentamente, lui mi sospinse sul piumone bianco steso sul letto. Ci baciammo per ore, come se al mondo non esistesse altro. Ero conquistata.
Prima o poi, io e Jamie avevamo intenzione di andare ciascuno per la propria strada, io a Missoula, lui a Portland, in Oregon. Quando suggerì che io mi trasferissi da lui, per risparmiare, non me lo feci ripetere. Vivevamo in un camper di sei metri, ma l’affitto era di appena 150 dollari a testa. La nostra era una storia destinata a finire; ciascuno di noi aiutava l’altro ad arrivare al proprio scopo: andarsene dalla città.
A Port Townsend i posti di lavoro riguardavano per lo più il terziario, la ristorazione per i turisti e per coloro che potevano spendere senza problemi, che arrivavano a frotte nei mesi più caldi. I traghetti, che attraversavano lentamente il braccio di mare tra la terraferma e la penisola fino alle foreste pluviali e alle sorgenti calde sulla costa, erano zeppi di gente così. Le residenze vittoriane, i negozi e i caffè sul lungomare portavano denaro in città, e a loro volta fornivano di che vivere a molti cittadini. Eppure, i soldi non arrivavano a fiumi. A Port Townsend non c’era molto che un lavoratore normale potesse fare per migliorare il proprio futuro, a meno che non mettesse in piedi un’impresa.
Molte delle persone che avevano creato il nucleo della città avevano già il loro futuro ben avviato. Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, un gruppo di hippy si era trasferito a Port Townsend, che all’epoca era una specie di città fantasma. Era stata fondata con l’intento di farla diventare uno dei principali porti dell’Ovest, ma il progetto era fallito quando la mancanza di fondi, in seguito alla Depressione, aveva indirizzato le linee ferroviarie verso Seattle e Tacoma. Gli hippy, alcuni dei quali erano ora miei datori di lavoro e clienti, comprarono le residenze vittoriane, che dopo quasi un secolo di abbandono erano praticamente in rovina. Nel corso degli anni restaurarono gli edifici, preservandoli come monumenti storici, facendo crescere la città, costruendo panetterie, caffè, birrerie, bar, ristoranti, negozi di alimentari e alberghi. Port Townsend divenne nota per ospitare nella sua baia barche a vela d’epoca, e l’interesse aumentò fino alla creazione di una scuola di vela vera e propria e di un festival annuale. Ora quel gruppetto originario che si era dato da fare per far rivivere la città poteva rilassarsi, rallentare il passo, e stabilizzarsi nell’imborghesimento. Tutti noi del terziario eravamo al loro servizio in diversi modi, vivendo in minuscoli bungalow, casette o monolocali. Restavamo lì per il tempo mite (le Olympic Mountains tenevano lontane le piogge) e per quella specie di comunità artistoide, a solo un tratto di traghetto da Seattle. Restavamo lì per l’acqua calma dell’oceano nella baia, e il lavoro sudaticcio e lo stile di vita creato dalle cucine che non chiudevano mai.
Io e Jamie lavoravamo nei caffè, godendoci la gioventù e la libertà di poterlo fare. Entrambi sapevamo di essere destinati a cose più grandi e migliori. Lui dava una mano all’impresa di catering dei suoi amici, e faceva qualsiasi altro lavoretto potesse trovare, pagato in nero. Oltre a servire nel caffè, io lavoravo in una pensione diurna per cani e vendevo pane nei mercati contadini. Nessuno di noi due aveva una laurea – Jamie ammetteva di non essersi nemmeno diplomato – e facevamo qualsiasi cosa per far quattrini.
Jamie faceva i normali turni dei ristoranti, dal tardo pomeriggio fino a tarda sera, così la maggior parte delle volte ero già addormentata quando rientrava, un po’ brillo dopo aver fatto tardi in un bar. A volte andavo in centro per stare con lui, spendendo in qualche birra i soldi guadagnati con le mance.
Poi scoprii di essere incinta. A causa delle nausee mattutine, il mio stomaco si chiuse e il mondo di colpo cominciò a rimpicciolirsi, fino a quando non sembrò fermarsi. Restavo a lungo davanti allo specchio del bagno con la felpa sollevata a esaminarmi la pancia. Avevamo concepito in occasione del mio ventottesimo compleanno, il giorno prima che Jamie partisse per il suo viaggio in bicicletta.
Scegliendo di tenere il bambino, avrei scelto di restare a Port Townsend. Volevo tenere segreta la gravidanza e mandare avanti il progetto di trasferirmi a Missoula, ma non sembrava possibile. Dovevo offrire a Jamie la possibilità di essere padre, mi sembrava sbagliato negargliela. Tuttavia, restare significava rimandare il sogno di diventare scrittrice. Di essere la persona che volevo essere. La persona che sarebbe andata avanti, diventando qualcuno di importante. Non ero sicura di volerci rinunciare. Avevo preso degli anticoncezionali in passato, e non credevo fosse sbagliato abortire, ma non riuscivo a smettere di pensare a mia madre, che probabilmente era rimasta a guardarsi la pancia allo stesso modo, esaminando i pro e i contro della scelta di portare avanti la mia stessa vita.
Nonostante tutte le mie speranze di intraprendere una strada diversa, nei giorni seguenti mi intenerii e cominciai a innamorarmi della maternità, dell’idea di essere madre. Quando dissi a Jamie del bambino, aveva appena terminato il suo viaggio in bici. All’inizio cercò con dolcezza di convincermi a porre termine alla gravidanza, ma l’atteggiamento cambiò di colpo quando gli dissi che non l’avrei fatto. Conoscevo Jamie soltanto da quattro mesi e la sua rabbia, il suo odio verso di me furono spaventosi.
Un pomeriggio, Jamie irruppe nel camper mentre io, seduta sul divanetto davanti al televisore, cercavo di trattenere in pancia del brodo di pollo, guardando Maury Povich che rivelava i risultati del test di paternità dei partecipanti al suo show. Jamie andava avanti e indietro fissandomi, proprio come gli uomini dello show televisivo, urlando che non voleva il suo nome sul certificato di nascita. “Non voglio che tu mi faccia causa per pagare per questo marmocchio del cazzo,” continuava a ripetere, indicando la mia pancia. Restai in silenzio, come facevo di solito quando si lanciava nelle sue tirate, sperando che non si mettesse a scagliare roba in giro. Ma stavolta, più lui urlava, più si opponeva e mi diceva che stavo commettendo un errore, più mi spingeva verso il bambino, a proteggerlo. Quando se ne andò chiamai mio padre, con voce tremante.
“Sto facendo la cosa giusta?” chiesi, dopo avergli riferito cosa aveva detto Jamie. “Perché non ne sono così sicura. Ma sento che dovrei esserlo. Non capisco più niente.”
“Accidenti,” replicò lui, poi tacque. “Speravo proprio che su questa cosa Jamie si assumesse le proprie responsabilità.” Tacque di nuovo, forse aspettando la mia risposta, ma non c’era niente da dire. “Tu sai che io e la mamma eravamo nella stessa situazione quando abbiamo scoperto di aspettare te, con la differenza che eravamo adolescenti. E, lo sai, non è stato tutto perfetto. Non so nemmeno se sia mai andato vicino alla perfezione. Non sapevamo quello che stavamo facendo, e se eravamo nel giusto. Però tu, tuo fratello, io e la tua mamma, stiamo tutti bene. Alla fine ce la siamo cavata. E io so che anche tu, Jamie e questo bambino ve la caverete, anche se non pensi che sarà così.”
Dopo quella telefonata restai lì a fissare fuori dalla finestra. Cercavo di non permettere che ciò che mi circondava – il camper era parcheggiato accanto a un grande emporio, nei boschi – mi distraesse dall’immaginare il mio futuro. Cominciai parlando a me stessa in modo diverso, per placare i miei dubbi. Forse Jamie avrebbe cambiato idea. Forse ci voleva soltanto un po’ di tempo. Se non l’avesse fatto, sì, potevo cavarmela, anche se non sapevo proprio come. Non potevo basare le mie decisioni su di lui, avere un bambino con lui, ma sapevo di dovergli dare almeno l’opportunità di essere padre. Il mio piccolo se lo meritava. Non era una situazione ideale, ma avrei fatto ciò che fanno i genitori, ciò che fanno da generazioni: fare in modo che funzionasse. Non c’era altro da dire. Nessuna altra opzione. Ora ero una madre. Mi sarei assunta quella responsabilità per tutta la vita. Mi alzai e, uscendo dal camper, strappai in mille pezzi la mia richiesta di ammissione al college. Poi andai al lavoro.