5. Sette diversi tipi di assistenza governativa
Allungai la mano per tirarmi sopra la testa il cappuccio dell’impermeabile, ma la pioggia di fine estate era arrivata così forte e improvvisa che avevo già i capelli zuppi. Mi avvicinai al muretto di sassi dove c’era il mio compagno di lavoro, il viso nascosto dal cappuccio. “Bene, e adesso che facciamo?” gridai, cercando di farmi sentire sulla pioggia che scendeva a secchiate.
“Torniamo a casa,” rispose John, il marito della mia amica Emily che, sei mesi prima, mi aveva assunta per aiutarlo nella gestione degli spazi verdi. Si strinse nelle spalle e abbozzò un sorrisetto, anche se il suo giaccone, degno di una foresta pluviale, era ancora punteggiato dalla grandine che ci aveva colpito prima che si mettesse a piovere. Si sfilò gli occhiali, strofinandoli per togliere l’appannamento e le gocce di pioggia prima di inforcarli di nuovo.
Chinai il capo, sconfitta. Ci era successo spesso negli ultimi tempi, eravamo stati costretti a interrompere il lavoro per la pioggia. Si avvicinava la fine della stagione, e con essa la mia principale fonte di reddito.
Caricammo i bidoni della spazzatura, le cesoie e i rastrelli sul retro del furgoncino giallo di John, e lui mi sorrise di nuovo prima di salire a bordo e andarsene. Restai a guardarlo mentre si allontanava, poi tornai alla mia auto, parcheggiata al lato della strada. I finestrini davanti erano rimasti aperti. Merda.
Tornata a casa, restai in equilibrio su un piede sul rettangolo di linoleum che segnava l’ingresso, dimenandomi per togliermi gli stivali di gomma. Slacciai i pantaloni da lavoro e li spinsi giù fino alle ginocchia per uscirne. Erano così zuppi di fango e pioggia che non si appiattirono a terra, ma rimasero in piedi, una specie di fisarmonica. I veri alaskani hanno un detto per capire quando, e solo in quel caso, un paio di pantaloni Carhartt ha bisogno di essere lavato: quando te li togli e stanno in piedi da soli.
Quella sera Mia restava con Jamie fino alle sette, e non sapevo bene cosa volevo fare nel tempo che mi restava. Sul tavolo della cucina c’erano dei libri di testo, a ricordarmi i compiti per le lezioni universitarie che erano diventati parte della mia vita quotidiana. Avevo iniziato il percorso, penosamente lento, per ottenere un diploma, e mi ero iscritta per dodici crediti: due serie di lezioni online e una che si svolgeva in un edificio vicino all’asilo nido di Mia. Quando avevo incontrato la counselor incaricata dell’ammissione, le avevo detto di voler ottenere soltanto un diploma AA, associate of arts, che si ottiene dopo due anni di studi. Potevo avere la convalida della maggior parte dei corsi che avevo seguito al liceo grazie al programma Running Start, che consente di seguire lezioni universitarie per ottenere crediti al liceo, e di quelli all’Università dell’Alaska. Un diploma di due anni in un’università pubblica sarebbe stato il modo più semplice per cominciare, e avrei potuto completare i corsi fondamentali nel modo più economico. In seguito potevo continuare con una certa facilità per ottenere una laurea quadriennale. Ma, come la maggior parte dei genitori single con pochi aiuti, arrivare a quel punto avrebbe richiesto anni e anni.
Dato che Mia risultava a mio carico dal punto di vista fiscale, ottenere un finanziamento governativo per pagare le lezioni era abbastanza semplice. Averla a mio carico, con le dichiarazioni dei redditi come pezza d’appoggio, era il modo più facile per dimostrare che mantenevo una figlia con un (inesistente) salario minimo.
La borsa di studio Pell, un programma federale che offre sostegno finanziario agli studenti a basso reddito, mi dava una cifra che superava il costo totale delle mie lezioni per il trimestre, lasciandomi con un extra di 1300 dollari. Calcolando i 275 dollari al mese per il mantenimento della bambina, e i 45 dollari alla settimana derivanti dalle pulizie dell’asilo, significava che avevamo circa 700 dollari al mese per tirare avanti. I buoni spesa arrivavano a un po’ meno di 300 dollari, e avevamo ancora i coupon del WIC (Women, infants and children food and nutrition service). Grazie al TBRA e al LIHEAP (Low Income Energy Assistance Program), le spese per l’alloggio si aggiravano attorno ai 150 dollari, il che mi lasciava di che pagare l’assicurazione dell’auto, il telefono e Internet. Con l’arrivo della stagione invernale non lavorai più, e quindi terminò il sostegno per l’asilo di Mia. Proseguire negli studi, seguire le lezioni non mi dava diritto ai servizi per l’infanzia, quindi dovetti trovare qualcuno che si prendesse cura di Mia per un paio d’ore due volte alla settimana durante le lezioni di francese che, oltre a essere obbligatorie, si dovevano frequentare di persona. Anche se in un certo senso le detestavo, la maggior parte delle settimane erano la mia unica occasione di passare del tempo con altre persone.
Molte sere, dopo che Mia era andata a letto, mi preparavo una grande tazza di caffè e restavo sveglia fino all’una o alle due di notte per terminare i compiti. Mia non faceva il pisolino durante il giorno, e in pratica non smetteva mai di muoversi e parlare. Aveva bisogno costante della mia attenzione e delle mie cure. Non riuscivo a trovare dei lavori per riempire i buchi nella mia agenda, così andavamo a fare lunghe passeggiate nei boschi o in riva all’oceano, come mi sarebbe tanto piaciuto fare quando lavoravo, ma ora camminavo con addosso la pesantezza di aver dormito solo per quattro ore e di avere molti meno soldi. Era più semplice quando Mia era più piccola, prima che cominciasse a camminare, quando i suoi capricci duravano appena il tempo necessario per cullarla e farla addormentare. Ora la sua natura determinata cominciava a rivelarsi. Mia aveva certamente un’inclinazione all’indipendenza; le bastava una mattinata per sfinirmi.
Ma dopo averla messa a letto, stavo lì a guardare i miei libri di testo nel silenzio della cucina. La noia di leggere i compiti che mi erano stati assegnati e di rispondere ai questionari al termine di ogni capitolo non faceva che amplificare la mia solitudine. Quell’estate mi ero data un gran da fare, concentrata nello sforzo di procurarci una casa sicura. Ora che tutto era a posto, potevo rilassarmi un attimo, e rendermi conto che mi stavo prendendo cura completamente da sola di una bimba si insinuò nella mia mente come una fitta nebbia. Considerando tutte le difficoltà che ruotavano attorno al tempo che Mia trascorreva con il suo papà e il fatto che le visite non duravano più di due o tre ore per volta, mi sembrava di non avere mai un momento di tregua. L’energia di Mia era infinita. Durante le passeggiate, insisteva per spingere lei stessa il passeggino, a passo di lumaca. Al parco, voleva che la spingessi sull’altalena per un tempo che sembrava non terminare mai, o che stessi a guardarla mentre scendeva dallo scivolo, di nuovo, e poi ancora e ancora. Avevo quasi trent’anni e molte mie amiche erano sposate, compravano casa e mettevano su famiglia. Facevano tutto nel modo giusto. Smisi completamente di frequentarle, per l’imbarazzo di ammettere che per me era andato tutto storto. Sommando borsa Pell, SNAP, TBRA, LIHEAP, WIC, Medicaid****** e sostegno per l’asilo, ecco un totale di sette diversi programmi ai quali avevo fatto richiesta. Per sopravvivere mi servivano sette diversi modi di assistenza governativa. Il mio mondo era silenzioso, nel caos costante dell’avere una bimba piccola, del tirare avanti, dello stress.
Quel mese compii gli anni e per la prima volta nessuno in famiglia se ne accorse. Jamie, che forse si sentiva dispiaciuto per me, acconsentì a portare me e Mia a cena all’Olive Garden, un ristorante italiano per famiglie dove potevamo anche dipingere le nostre tazze di ceramica personalizzate. Lo osservai tenere Mia in braccio mentre lei si cacciava in bocca la pasta con le mani.
Quando fermò l’auto davanti al nostro appartamento, attesi per qualche istante prima di aprire lo sportello.
“Vuoi entrare?” gli chiesi.
“Perché?” replicò, tamburellando con le dita sul volante.
Ricacciai in gola le lacrime per aver voluto la sua compagnia, per averne bisogno. “Magari ti va di mettere a letto Mia?”
Lui contrasse le labbra per la frustrazione, ma allungò la mano verso le chiavi per spegnere la vettura. Guardai lui, poi guardai Mia con un sorriso. Jamie e Mia erano tutta la mia famiglia.
Volevo che Jamie si fermasse per la notte, anche solo per dormire sul divano.
Di solito, ogni volta che pensavo di dover andare a letto da sola, mi sembrava di avere un mostriciattolo nel petto che mi arpionava da dentro. Mi rannicchiavo il più possibile e a volte abbracciavo stretto il cuscino, ma niente poteva colmare il grande vuoto che mi risuonava dentro. Desideravo disperatamente che se ne andasse, ma ogni notte era più ostinato, rimaneva lì. Il giorno del mio compleanno, il mio primo compleanno da anni senza che nessuno mi coccolasse fino a farmi addormentare, cercai di vincere quella sensazione.
“Magari ti va di restare?” borbottai, guardando a terra.
“No,” replicò lui, quasi ridendo. Se ne andò senza dire arrivederci o buon compleanno. Rimpiansi di averglielo chiesto.
Mi sedetti a terra e chiamai papà. Erano quasi le dieci di sera, ma sapevo che sarebbe stato ancora sveglio a guardare Countdown with Keith Olbermann sulla MSNBC con sua moglie Charlotte, come facevano quasi ogni sera. Ecco quel che mi piaceva del vivere con loro. Dopo che Jamie ci aveva cacciate di casa, quando non avevo altro posto dove andare, ero rimasta da loro per qualche settimana.
“Ciao papà,” dissi e tacqui. Non sapevo come continuare; avevo bisogno di lui ma non avrei mai potuto ammetterlo. Il linguaggio segreto della mia famiglia era che nessuno diceva mai niente.
“Ciao, Steph,” rispose, un po’ sorpreso. Non avevo più chiamato. Non ci vedevamo e non ci parlavamo dalla festa di compleanno di Mia, tre mesi prima, anche se abitavano solo a poche ore di distanza. “Che succede?”
Presi un bel respiro. “È il mio compleanno.” La mia voce tremò un poco.
“Oh, Steph,” disse lui, con un profondo sospiro.
Non aggiungemmo altro. Non riuscivo a sentire in lontananza la tv, e immaginai il loro salotto buio, illuminato solo dallo schermo, con la trasmissione messa in pausa. Forse Charlotte era uscita a farsi una sigaretta. Chissà se continuavano a non bere vino durante la settimana.
I primi tempi, subito dopo aver lasciato Jamie ed essermi rifugiata da lui, mio padre restava a guardarmi quando mi sedevo al tavolo della cucina fino a tarda notte, circondata da fascicoli e documenti legali. Immaginavo che stesse cercando di capire quel che accadeva nella mia vita. Lui sapeva soltanto che non avevo soldi, non avevo una casa e che Mia aveva appena sette mesi. Non aveva idea di come aiutarmi a venirne fuori. Poteva darmi da mangiare, ma in realtà non se lo poteva permettere. La crisi immobiliare aveva già impattato sulla sua attività di elettricista. Era il 2008 e gli imprenditori edili si arrabattavano perché non c’era nessuno per cui costruire qualcosa. Avevo cercato di alleviare il peso della nostra presenza facendo la spesa per tutti con i miei buoni. Preparavo la cena o la colazione e cercavo di pulire casa, ma sapevo che non bastava. Stavo chiedendo molto a papà e a Charlotte, che già lavoravano sodo per arrivare a fine mese. Si erano trasferiti su quel terreno quattro o cinque anni prima, con l’idea di vivere in una roulotte mentre costruivano la casa dei loro sogni. Poi il valore della loro proprietà era crollato miseramente e i progetti erano sfumati. Charlotte lavorava da casa analizzando i casi clinici per le compagnie di assicurazione; era tornata a scuola per ottenere un diploma specifico per questo. Papà faceva l’elettricista da quando aveva finito le superiori.
Charlotte aveva acquistato la roulotte dopo il divorzio, quando era rimasta sola a crescere un figlio con un salario modesto. Papà aveva fatto del proprio meglio per trasformarla in una vera casa, costruendo sul retro un grande portico, dove avevano sistemato una decina di mangiatoie per gli uccelli. A Mia piaceva tanto stare a guardare dalla finestra del soggiorno le ghiandaie azzurre che planavano per afferrare le noccioline. Agitava le braccine e strillava di gioia. Ogni volta che lo faceva, papà rideva. “Tale e quale a te quando avevi la sua età,” diceva, un po’ stupito.
Una sera papà tornò a casa tardi, carico di sacchetti della spesa. Dopo aver messo Mia a letto, restai in soggiorno con Charlotte a guardare la tv. Papà se ne andò fuori senza dire niente, nella vasca idromassaggio, con una bottiglia di vino. Nonostante la tv, io e Charlotte cominciammo a sentire dei singhiozzi, o almeno così ci sembrava. Un uomo maturo che singhiozza. Non avevo mai udito niente del genere. Charlotte uscì più volte nel portico per vedere come stava papà.
“Smettila!” la sentii gridare, a un certo punto. “Stai spaventando tua figlia!”
Non avevo mai visto o sentito mio padre piangere, eppure, proprio come avrebbe fatto una bambina, pensai che fosse colpa mia. Lo avevo messo in crisi chiedendogli aiuto in un periodo in cui non se lo poteva permettere. Quella stessa settimana mi aveva detto che dovevo andarmene. Lo avevo riferito a Charlotte e lei mi aveva rassicurata, dicendo che potevo restare quanto volevo. Chissà quanto avevano litigato per colpa mia.
La crisi di papà mi sembrava di cattivo auspicio, dal momento che dovevamo andarcene di lì. Per quanto provassi compassione per lui, il pensiero di me e Mia costrette a vivere in affitto senza che io avessi un lavoro sembrava impossibile. Non riuscivo nemmeno a immaginarlo. Non avevo avuto il tempo di riprendermi dallo shock di essere senza casa e con una neonata a carico. Charlotte aveva ragione. Lui mi stava spaventando, ma probabilmente non per i motivi che lei pensava.
Quando Charlotte tornò in casa per la terza volta, si sedette accanto a me sul divano, e restammo in silenzio. Ripristinò il sonoro della tv e continuammo a guardare Countdown with Keith Olbermann. Non riuscivo a girarmi a guardarla, e cercai di restare immobile. Calma.
Infine mi alzai per andare a letto. Mio zio aveva portato lì una piccola roulotte, parcheggiandola nel vialetto. Io e Mia ne avevamo fatto la nostra casa provvisoria. Il tettuccio ricadeva sulla porta e non potevamo usare la minuscola cucina o il bagno, ma c’era una stufetta elettrica e spazio per dormire.
“Vai a letto, Steph?” chiese Charlotte, cercando di far finta che fosse una sera come le altre.
“Già, sono piuttosto stanca,” mentii. Mi fermai sulla soglia a guardarla. “Mille grazie per permetterci di stare qui.”
Charlotte sorrise, come faceva sempre. “Puoi restare quanto vuoi,” ma ormai sapevamo entrambe che non era più vero.
Quando feci capolino nella roulotte, vidi Mia che dormiva profondamente sul lettino pieghevole. Mi infilai sotto le coperte, in bilico sul bordo accanto a lei. Non ero stanca, avevo soltanto voglia di starmene sdraiata lì ad ascoltarla dormire, dimenticando tutto il resto del nostro nuovo mondo. Mi girai sulla schiena, poi di fianco, ma non riuscivo a levarmi dalla testa il singhiozzare di mio padre. Forse potevo affittare una piazzola in un campeggio per un po’, e parcheggiarci la roulotte. O forse potevamo tornare dietro alla casa del nonno ad Anacortes, ma non riuscivo a immaginare di vivere a stretto contatto della nonna che, da quanto mi avevano detto, aveva preso a dar da mangiare a una cinquantina di gatti selvatici.
Un’ora dopo, attraverso le pareti sottili della roulotte, sentii delle porte sbattere in casa. Papà e Charlotte stavano litigando; una serie di schianti e colpi. Poi silenzio.
Scivolai silenziosamente in casa per vedere cos’era successo. In cucina, i magneti attaccati al frigorifero erano sparsi a terra. Il tavolo era stato spostato. C’era un silenzio carico di tensione. Poi li sentii, erano nel portico sul retro. Papà stava ancora piangendo, ma ora continuava a chiedere scusa a Charlotte.
Il mattino seguente, quando io e Mia entrammo per fare colazione, papà era già andato al lavoro. Charlotte era seduta al tavolo della cucina, che era ancora fuori posto. Mi sedetti e istintivamente cercai la sua mano. Lei alzò lo sguardo su di me, gli occhi gonfi e spenti.
“Non ha mai fatto prima una cosa del genere,” disse, lo sguardo fisso sulla parete. Poi, d’un tratto, si girò a guardarmi negli occhi. “È un tale tenerone.”
A poco a poco mi raccontò gli eventi della sera precedente: lei aveva detto a papà che intendeva andare da sua sorella e aveva iniziato a preparare la valigia, dicendo che avrebbe preso con sé anche il cane. Io la guardavo, colma di ammirazione, magari avessi avuto la forza di andarmene quando le sfuriate di Jamie erano cominciate, all’inizio della mia gravidanza. Magari fossi stata così forte.
“Quello è stato il mio errore,” continuò Charlotte, guardando Jack, il cane, accoccolato ai suoi piedi. “Ecco dove ho sbagliato.” Posò il caffè sul tavolo e con cautela si arrotolò la manica, mostrando dei lividi violacei.
Guardai Mia, che stava tranquillamente giocando per terra accanto al cane, accarezzandolo sulla schiena, dicendo “Cane, cane” a ogni colpetto. I capelli scompigliati per la nanna, aveva ancora addosso il pigiama con i piedini. Che ironia, ero scappata da un uomo violento e finita in casa di un altro.
Chiusi gli occhi. Me ne dovevo andare.
Quello stesso giorno cominciai a chiamare i rifugi per senzatetto. Un rifugio sarebbe stato, come minimo, un tetto sulla testa per un certo periodo di tempo, permettendo almeno a me e a mia figlia di vivere senza paura che qualcuno diventasse violento. Quando papà mi chiamò dal lavoro per dirmi di andarmene, avevo già caricato la macchina.
Cercai di confidare a mia zia e a mio fratello di aver visto i lividi su Charlotte, ma papà aveva già parlato con loro, dicendo che me l’ero inventato per ottenere attenzione, e che mi ero inventata anche tutto quello che era successo con Jamie, sempre per lo stesso motivo.
“Mi spiace, Steph,” ripeté mio padre al telefono, la sera del mio compleanno. Cominciò a dire che era stato molto occupato al lavoro, ma io smisi di ascoltarlo, rimpiangendo di averlo chiamato.
Cercò di farsi perdonare. Una settimana dopo ricevetti per posta un biglietto con un assegno da 100 dollari. Restai a fissarlo, sapendo che per lui era una grossa cifra. Ero ancora così arrabbiata con lui per averci scacciato, che decisi di fare con quel denaro qualcosa di futile. Invece di metterlo da parte per pagare un conto o comprare cose necessarie, io e Mia andammo a pranzo nel nuovo ristorante thailandese, quello che aveva per dessert delle ciotoline di riso addolcito con latte di cocco e mango. Mia si impiastricciò i sottili capelli da bebè con il riso, tanto da aver bisogno di fare il bagno. Dopo averla messa a fare un pisolino, mi sedetti al computer sullo scrittoio in cucina, e decisi di fare qualcosa unicamente per me stessa.
Ormai da giorni avevo il sito Match.com aperto sul browser. Avevo già compilato il mio profilo, caricato delle fotografie e dato un’occhiata ai profili degli uomini della mia età. Entrambi i miei genitori avevano trovato su quel sito i loro attuali compagni, e altrettanto aveva fatto mia zia. Io non ero del tutto sicura di volerlo fare, ma di certo una cosa mancava nella mia esistenza: una vita sociale. Nell’ultimo anno la maggior parte delle mie amicizie era svanita perché mi ero isolata e nascosta, imbarazzata per la vita che conducevo. A notte fonda, ben dopo che Mia si era addormentata, quando stavo lì a riflettere fino alle prime luci del giorno, provavo un disperato bisogno di compagnia, anche soltanto di qualcuno con cui comunicare via email o parlare al telefono. Non con gli amici che conoscevano bene quanto fosse difficile la mia situazione; ero stanca di sentirne parlare. Volevo flirtare, tornare a essere per un po’ la persona che ero prima, quella ragazza tatuata con i capelli scuri tagliati all’altezza del mento e un fazzoletto in testa, che danzava ai concerti con la felpa legata in vita. Volevo fare nuove amicizie.
Poteva sembrare davvero patetico andare su un sito di incontri, nella mia situazione, ma non me ne importava. Parlai con uomini che vivevano a Salt Lake City, nello Utah, e a Winthrop, nello Stato di Washington. Preferivo chi abitava a una bella distanza da me, così non correvo il rischio di affezionarmi. Non avevo la minima possibilità di andarli a trovare, o che loro venissero ospiti da me, dato che Mia restava a casa del papà soltanto per qualche ora di fila. E comunque mi sembrava troppo impegnativo. In realtà avevo bisogno di ridere, di ricordare chi ero prima che la maternità e la povertà soffocassero ogni altro aspetto della mia personalità. Non ritrovavo più quella persona libera di andare e venire a piacimento, vedersi con gli amici oppure no, fare tre lavori per mettere qualcosa da parte e viaggiare. Avevo bisogno di sapere se quella persona esisteva ancora.
Fossi stata onesta con me stessa, avrei ammesso di essere alla ricerca di un partner, o di sperare segretamente di incontrarne uno. Le mie insicurezze, o forse il mio lato razionale, realistico, erano consapevoli che le probabilità che accadesse erano infime. Vivevo grazie all’assistenza statale, soffrivo di frequenti attacchi d’ansia, ero ancora incapace di elaborare buona parte della violenza emotiva che avevo sperimentato o di comprendere quanto profondamente mi avesse toccato. La mia vita era a una specie di punto morto, nella sua nuova identità; si consumava nella maternità, e non ero nemmeno sicura che mi piacesse davvero. Insomma, chi, sano di mente, avrebbe voluto avere a che fare con una persona così?
Dopo solo un mese di presenza sul sito, con mio enorme sgomento un uomo venne a trovarmi. Viveva abbastanza vicino, a Stanwood, una città dove mi ero recata parecchie volte alla ricerca di un alloggio che non fosse a Port Townsend. Stanwood era una piccola comunità agricola a sud della contea di Skagit, quella dove viveva tutta la mia famiglia. Era vicina ma non troppo, e accanto a Camano Island con le sue infinite, e per lo più intatte, spiaggette nascoste. Quest’uomo non aveva dalla sua soltanto il luogo dove viveva: le sue email sembravano scritte di pugno da John Steinbeck, quando raccontava della vita nella proprietà dove il suo bisnonno aveva costruito una casa, e nella quale poi si era suicidato.
Travis parlava della fattoria dove viveva con un’ammirazione sorprendente, considerando che se ne era allontanato solo una volta, e non a lungo. Disse di avere delle sue foto da neonato, mentre faceva il bagnetto nello stesso lavandino dove ogni sera si lavava i denti. I genitori, che avevano acquistato la fattoria da suo nonno, continuavano a vivere e lavorare nella proprietà, gestendo completamente da soli una pensione per cavalli. La mamma di Travis teneva la contabilità e al tempo stesso si occupava, durante la settimana, dei suoi cinque nipotini. Questo dettaglio, più della promessa di farmi cavalcare ogni volta che volevo, mi avvicinò a lui tanto che accettai di farmi portare fuori a cena.
Quella sera aveva dovuto chiedere a suo padre di occuparsi di dare da mangiare e da bere ai cavalli al posto suo, e fu più che felice di venire fino a Port Townsend. Quando lo incontrai, al terminal dei traghetti, aveva gli occhi sgranati per la sorpresa.
“Non ero mai stato su quella barca, prima,” disse, quasi senza fiato. “Non sapevo nemmeno che qui ci fosse la città.” Rise nervosamente, e io proposi di andare a piedi fino al Sirens. Erano soltanto le quattro del pomeriggio, quindi sarebbe stato deserto. Sapevo che se qualcuno mi avesse sorpreso a mangiare fuori con un tizio strano, mai visto prima, lo avrebbe spifferato subito a Jamie. Un paio di mesi prima, dopo una lunga giornata passata a sistemare giardini, ero andata in centro per concedermi una pausa più che meritata, io e una birra. Qualcuno ne aveva informato Jamie, e quando ero andata a prendere Mia lui mi aveva accusato di essere sbronza. Dopo quell’episodio avevo cercato di stare alla larga dai bar.
Trovammo un tavolo dentro e ordinammo hamburger e birra. Lanciai un’occhiata al tavolo sul molo dove mi ero seduta con la mamma e William sei mesi prima, l’ultima volta che ero stata in quel locale. Non avevo l’impressione che Travis andasse spesso a pranzo fuori, a giudicare dalla sua difficoltà a ordinare. Immaginai che fosse nervoso, ma ero troppo intrigata da lui per preoccuparmene.
“E allora, tu cosa fai, esattamente?” gli chiesi, anche se me ne aveva già parlato nelle email e al telefono.
“La mattina pulisco le stalle, la sera do da mangiare ai cavalli, e durante il giorno sistemo tutte le cose che vanno sistemate.” Travis non sembrava innervosito dal mio interesse e dalle mie continue domande, e rideva sereno quando uno di noi cercava di faro lo spiritoso. “Ma nel periodo della fienagione, allora sì che non si smette mai di lavorare.”
Annuii, come se avessi capito. “Quindi voi coltivate il fieno per i cavalli che la gente vi lascia a pensione? Quanti cavalli avete?”
“Nel loro fienile i miei genitori ne hanno un paio, più qualche altro che tengono lì per conto degli amici.” Addentò il suo hamburger, e io aspettai che continuasse. Portava gli abiti da lavoro, o così sembrava, blue jeans bucati e macchiati di unto, stivali di pelle marrone e una felpa con il cappuccio su una maglietta stinta. Il mio abbigliamento in un certo senso era simile al suo, ma portavo un bel paio di jeans Lucky che quell’estate avevo comprato a un mercatino in conto deposito. “E poi Susan, la donna che affitta uno dei terreni per l’addestramento, ha il suo fienile dove tiene lezione. Quello principale può contenere circa 120 cavalli, ma ora noi ne abbiamo solo metà. La gente che ci lasciava i cavalli a pensione ha perso tutti i soldi e non può più permetterseli. E nemmeno pagare qualcuno che se ne occupi.”
Non avevo mai pensato che un cavallo fosse così costoso, ma sapevo che richiedeva moltissimo lavoro. Da ragazzina, quando vivevo vicino ai nonni, in estate trascorrevo molti giorni nella proprietà in fondo alla sterrata dove era cresciuto mio padre. Prima di andare in pensione il nonno era stato un boscaiolo, e portava nei boschi carovane di cavalli da soma. Mi aveva messo in groppa a un cavallo quando avevo l’età di Mia. Sapevo cavalcare a pelo molto meglio di quanto sapessi correre sulle mie gambe. Immaginavo già Mia fare lo stesso.
Stava facendo buio quando riaccompagnai Travis al terminal del traghetto. Ci abbracciammo, e io mi accorsi di aver voglia di nascondere il viso nel suo petto e restare lì. Odorava di cavalli, fieno, grasso e segatura. Odorava di lavoro, che nella mia mente si traduceva in stabilità. L’insieme degli odori portò con sé una tale nostalgia da sopraffarmi. Lavorare sui motori, cavalcare con il nonno, passare i chiodi a papà, da bambina. L’abbraccio di Travis mi fece tornare in mente tutti quei momenti, mi confortò, e in certo senso mi fece sentire a casa.
****** Medicaid: programma sanitario federale per persone a basso reddito. [N.d.T.]