Capitolo Quarto

Questo povero vecchio uccello innocente spara bestemmie come mille diavoli ma non può capire quel che dice.

R. L. Stevenson



Purtroppo, il giorno seguente dovetti occuparmi delle mie incombenze sin dal primo mattino. L’ Aldan era stato riparato ed era pronto alla lotta. Dopo colazione, quando arrivai nella sala computer, c’era già un nutrito drappello di doppioni ad attendermi sulla porta, tutti con le liste dei compiti assegnati.

Per prima cosa scacciai via (per vendetta) il doppione di Cristobal Junta, dopo avergli scritto sul foglietto che non riuscivo a decifrarne la grafia (la grafia di Cristobal Josevič era effettivamente difficile da leggere: Junta scriveva in russo con caratteri gotici).

Il doppione di Fëdor Simeonovič aveva portato un programma composto personalmente da Fëdor Simeonovič. Era il primo programma che era riuscito a stendere senza alcun consiglio, suggerimento o indicazione da parte mia. Lo verificai attentamente e conclusi soddisfatto che era esente da errori, sintetico e non privo d’ingegno. Corressi alcuni refusi involontari e lo passai alle mie ragazze.

Poi notai in fila a languire, pallido e impacciato, il ragioniere dell’impianto di lavorazione del pesce. Si sentiva a disagio e aveva un po’ di fifa. Lo feci entrare subito.

« È un po’ sconveniente », mormorò diffidente lui guar-dando di sbieco i doppioni in fila. « Dopo tutto, i compagni qui stanno aspettando e sono arrivati prima di me ».

« Non fa niente, non sono compagni in realtà », lo tran-quillizzai.

« Beh, cittadini quanto meno ».

« Nemmeno cittadini ».

Il ragioniere sbiancò e chinatosi verso di me disse con un fil di voce: « Ah ecco, avevo notato che non sbattono le palpebre, e poi questo qui vestito di blu… per me non respira nemmeno ».

Avevo già sbrigato metà della fila quando telefonò Roman.

« Sasha ? »

« Sì ».

« Guarda che il pappagallo non c’è ».

« Come sarebbe a dire che non c’è ? »

« Non c’è ».

« L’addetta alle pulizie l’avrà gettato via ».

« Gliel’ho chiesto. Non solo non l’ha buttato ma non l’ha nemmeno visto ».

« Magari si tratta di uno scherzo dei folletti domestici, cosa dici ? »

« Nel laboratorio del Direttore ? Difficile ».

« Mm, sì. Forse è stato lo stesso Janus ».

« Janus non è ancora arrivato. E comunque, a quanto pare, non è ancora tornato da Mosca ».

« Allora come si può spiegare tutto questo ? », chiesi.

« Non lo so. Vedremo ».

Restammo in silenzio.

« Mi chiamerai ? », chiesi. « Se ci sarà qualcosa di interessante che… ».

« Ma certo. Necessariamente. Ci vediamo vecchio mio ».

Mi sforzai di non pensare al pappagallo. Dopo tutto, non era affare che mi riguardasse. Sistemai tutti i doppioni che erano rimasti in fila, verificai tutti i programmi e mi occupai dell’incarico odioso che avevo lasciato in sospeso già da un po’ e che mi era stato assegnato dagli assolutisti. All’inizio avevo detto loro che questa cosa non aveva né capo né coda, come la gran parte dei loro quesiti. Poi però avevo chiesto consiglio a Junta, che era un fine intenditore di queste faccende, e lui mi aveva dato alcuni consigli incoraggianti. Mi ci ero messo di buona lena molte volte ma altrettante lo avevo rimandato. Quel giorno però decisi di andare fino in fondo e di farla finita una volta per tutte. E devo dire che me la cavai in modo piuttosto egregio.

Avevo appena finito e mi stavo godendo l’attimo, abbandonandomi sullo schienale della sedia, quando entrò Junta scuro in volto dalla rabbia.

Senza guardarmi in faccia, con voce asciutta e sgradevole, mi chiese quando avessi smesso di comprendere la sua grafia. Gli sembrava un vero e proprio atto di sabotaggio e mi spiegò che lui, a Madrid nel ’36, dava ordine di mettere al muro chi poneva in essere azioni di questo tipo.

Lo guardai affettuosamente. « Cristobal Josevič », dissi. « Ho trovato la soluzione. Lei aveva perfettamente ragione. La dimensione degli incantesimi può essere effettivamente piegata in una qualsiasi delle quattro variabili ».

Lui alzò finalmente gli occhi e mi guardò. Avrò avuto un’espressione particolarmente raggiante, fatto sta che si rabbonì e borbottò un: « Mi faccia vedere ».

Gli consegnai i fogli, lui si sedette di fianco a me e insieme cominciammo a riesaminare il problema da cima a fondo. Ci gustammo con piacere due elegantissime trasformazioni. Una fu lui a suggerirmela, l’altra la trovai io stesso.

« Io e lei abbiamo delle teste mica male, Alejandro », disse infine Junta. « In noi c’è una sorta di maestria di pensiero. Che ne dice ? »

« Penso che siamo bravi », dissi io con sincerità.

« Anch’io lo penso », replicò. « Questo lo pubblichiamo. Nessuno si vergognerà di pubblicarlo. Non si tratta mica delle galosce con dispositivo di auto-bloccaggio e nemmeno dei pantaloni dell’invisibilità ».

Il nostro umore era alto e così cominciammo a esaminare il nuovo incarico di Junta. Molto presto lui se ne venne fuori col fatto che anche in passato, alle volte, aveva pensato di essere un pobrecito* e inoltre che, sin dal nostro primo incontro, si era convinto che io fossi acerbo in matematica. Gli diedi ragione spassionatamente e suggerii che per lui, forse, sarebbe già stata ora di andare in pensione; quanto a me, che mi avrebbero dovuto mandar via dall’Istituto a calci nel sedere a tagliar legna nel bosco, dal momento che non ero capace di fare nient’altro.

Lui obiettò. Disse che non c’era neanche da discutere di pensione e che bisognava direttamente trattarlo come concime per i campi; quanto a me, che era meglio non farmi neppure avvicinare a una segheria in quanto per lavorarci serve comunque un determinato livello intellettuale. Secondo lui bisognava semmai assegnarmi come allievo a un giovane praticante addetto allo spurgo dei pozzi neri nelle baracche dei malati di colera.

Ce ne stavamo seduti lì, con le teste appoggiate l’uno contro l’altro abbandonati all’autocommiserazione, quando fece il suo ingresso Fëdor Simeonovič. Sapevo che era impaziente di conoscere la mia opinione sul programma che aveva elaborato.

« Il programma! », esclamò Junta ridendo sarcastico. « Io non ho visto il tuo programma Teodoro, ma sono convinto che è una genialata in confronto a questo… ». Con due dita e una smorfia di fastidito porse a Fëdor Simeonovič il foglietto di carta con il suo nuovo problema. « Ammira questo esempio di insignificanza e assoluta mediocrità ».

« M-miei cari », disse perplesso Fëdor Simeonovič dopo aver decodificato la grafia. « Questo è il dilemma di Ben Bezalel. Cagliostro ha dimostrato che n-non ha s-soluzione ».

« Lo sappiamo anche noi che non ha soluzione », disse Junta rizzandosi all’istante. « Vogliamo scoprire come risolverlo ».

« Stai ragionando in modo un po’ strano, C-Cristo, c-cosa vuol dire cercare una soluzione q-quando la soluzione non c’è ? Che sc-sciocchezza… ».

« Scusa Teodoro, ma sei tu a parlare in modo un po’ bislacco. La sciocchezza è semmai cercare una soluzione quando questa c’è già. Il discorso è invece come trattare un problema che non ha soluzione. È una fondamentale questione di principio che evidentemente non è di facile comprensione per uno studioso del tuo calibro. Penso di aver solo sprecato tempo a parlartene ».

Il tono di Cristobal Josevič era straordinariamente offensivo e Fëdor Simeonovič si risentì parecchio. « S-senti, m-mio caro », disse, « n-non posso mettermi a discutere con t-te in questo t-tono davanti al ragazzo. M-mi stupisci. Non è p-pedagogico. Se ti sta bene c-continuare, ti prego di uscire con me nel c-corridoio ».

« D’accordo », rispose Junta scattando in piedi come una molla e facendo il gesto di afferrare un’inesistente elsa di spada alla sua anca.

Uscirono con incedere cerimonioso, le teste sollevate con fierezza e senza guardarsi. Le ragazze ridacchiavano. Anch’io non mi sentivo particolarmente preoccupato.

Mi sedetti stringendo la testa tra le mani, osservavo il foglietto rimasto sul tavolo e allo stesso tempo tendevo l’orecchio. Nel corridoio si sentiva il forte rombo di basso di Fëdor Simeonovič solcato dalle urla secche e rabbiose di Cristobal Josevič.

A un certo punto, Fëdor Simeonovič ruggì: « La prego di venire nel mio ufficio! »

« Come vuole! », strillò Junta.

Erano già al “lei”.

Le voci si allontanarono.

« Duello! Duello! », iniziarono a cinguettare le ragazze.

Junta aveva la brutta fama di duellista e attaccabrighe. Si diceva che portasse l’avversario nel suo laboratorio, gli offrisse la scelta tra fioretto, spada e alabarda e che poi cominciasse a saltellare sui tavoli à la Jean Marais 36 e a ribaltare i mobili.

Comunque, non c’era di che preoccuparsi per Fëdor Simeonovič, era chiaro che i due avrebbero passato la successiva mezz’ora nell’ufficio a guardarsi in modo truce, da una parte e all’altra del tavolo. Fëdor Simeonovič, dopo un profondo sospiro, avrebbe aperto l’armadietto della sua riserva privata e avrebbe versato due bicchierini di elisir della felicità. Junta avrebbe dilatato le narici e arricciato il baffo, quindi si sarebbe messo a bere. Fëdor Simeonovič avrebbe versato di nuovo altri due bicchierini e avrebbe tirato un fischio al laboratorio affinché gli portassero dei cetriolini freschi.

In quel momento telefonò Roman e con voce strana mi chiese di salire immediatamente da lui.

Corsi di sopra.

Nel laboratorio c’erano Roman, Vitka e Edik.

C’era anche il pappagallo verde. Vivo.

Come il giorno prima stava seduto sul braccio della bilancia, osservava i presenti con un occhio (una volta con uno, una volta con l’altro), si frugava le penne col becco e, a quanto pareva, stava benissimo.

A differenza sua, i cervelloni non avevano un bell’aspetto.

Roman, avvilito, osservava il pappagallo e di tanto in tanto sospirava convulsamente. Edik era pallido e si massaggiava accuratamente le tempie. Aveva una penosa espressione sul volto come se fosse tormentato dall’emicrania. Vitka, a cavalcioni su una sedia, si dondolava come un ragazzino che gioca a cavalluccio, mormorava parole confuse strabuzzando febbrilmente gli occhi.

« È lo stesso uccello ? », chiesi a mezza voce.

« Lo stesso », rispose Roman.

« Fotone ? », anch’io cominciavo a sudare freddo.

« Fotone ».

« E il numero coincide ? »

Roman non rispose. Parlò Edik, con voce sofferente: « Se solo sapessimo quante penne hanno i pappagalli sulla coda, potremmo contarle e verificare se manca proprio quella che era stata perduta l’altro ieri ».

« Volete che corra a cercare Brehm ? »,37 suggerii.

« Dov’è il corpo ? », chiese Roman. « Ecco da cosa bisogna iniziare! Sentite, investigatori, dov’è il corpo ? »

« Corr-po! », garrì il pappagallo. « Cerr-imonia! Corr-po fuoriborr-do! Ru-rrubidio! »

« Che diavolo sta dicendo ? », chiese Roman irritato.

« Corpo fuoribordo è una tipica espressione piratesca », chiarì Edik.

« E rubidio ? »

« Ru-rrubidio! Ri-rriserva! Enorr-me! », disse il pappagallo.

« Le riserve di rubidio sono enormi », tradusse Edik. « Interessante… mi chiedo dove ».

Mi chinai per esaminare l’anellino.

« Non è che forse non è nemmeno lo stesso esemplare ? »

« E dov’è il primo allora ? », chiese Roman.

« Beh, questa è un’altra questione », dissi io. « Comunque sarebbe la spiegazione più semplice ».

« Allora spiega », suggerì Roman.

« Aspetta un attimo », insistei. « Dai, prima rispondiamo a questa domanda: è lo stesso sì o no ? »

« Secondo me sì », rispose Edik.

« Secondo me no », proseguii io. « Guardate qua, c’è un graffio sull’anellino in corrispondenza del numero tre… ».

« Trr-re! », proferì il pappagallo. « Trr-ri! Tutta a tri-rriborr-rdo! Vorr-tice! Vorr-tice! »

Vitka trasalì. « Ho un’idea », attaccò.

« Quale ? »

« Interrogazione associativa ».

« Che roba è ? »

« Aspettate. Sedetevi tutti, state zitti e non disturbate. Roman, ce l’hai un registratore ? »

« Ho un dittafono ».38

« Da’ qua. Però state tutti zitti. Ora faccio parlare questo birbante, vedrete che mi dirà tutto ».

Vitka trascinò una sedia, si sedette col dittafono in mano di fronte al pappagallo, si drizzò con la schiena, fissò il pappagallo con un occhio solo e gracchiò: « Ru-rrubidio! »

Il pappagallo sobbalzò e per poco non cadde dalla bilancia. Dopo aver agitato le ali per ristabilire l’equilibrio, replicò: « Ri-rriserva! Cra-cratere Ri-Ritchey! »39

Ci scambiammo delle occhiate.

« Ri-rriserva! », strepitò Vitka.

« Gra-grande! Pro-pro-prio gra-grande! Ri-Ritchey ra-rragione! Ro-rrobot! Ro-rrobot! »

« Robot! »

« Cro-crollo! Bru-brucia! Atmosferr-ra bru-brucia! Vii-a! Drr-amba, vii-a! » 40

« Dramba! »

« Ru-rrubidio! Ri-rriserva! »

« Rubidio! »

« Ri-rriserva! Cra-cratere Ri-Ritchey! »

« È un corto circuito », disse Roman. « È tornato al punto di partenza ».

« Aspetta, aspetta », borbottò Vitka. « Ora… ».

« Prova qualcosa di genere diverso », suggerì Edik.

« Janus! », disse Vitka.

Il pappagallo aprì il becco e starnutì.

« Janus! », ripetè Vitka imperterrito.

« Il pappagallo guardò pensieroso verso la finestra.

« Non ci sono lettere r », osservai.

« Umm, sì », osservò Vitka. « Allora… Nevstr-ruev! »

« Pa-sso, stre-strregone! », gracchiò il pappagallo. « Stre-strregone! Parr-la Kr-Krilo, passo! Parr-la Kr-Krilo! »

« Questo non è un pappagallo pirata », puntualizzò Edik.

« Chiedigli del corpo », suggerii.

« Corpo! », pronunciò Vitka malvolentieri.

« Cerr-imonia! Funerr-ale! Tempo scarr-so! Orr-azione! Orr-azione! Chiaacchierr-e! Lavorr-are! Lavorr-are! »

« I suoi padroni devono essere alquanto bizzarri », commentò Roman. « Che facciamo ? »

« Vitja », disse Edik. « Secondo me sta usando un lessico spaziale. Prova qualcosa di semplice e comune ».

« Bomba all’idrogeno », disse Vitka.

Il pappagallo abbassò la testa e si pulì una zampetta con il becco.

« Treno a vapore! », pronunciò Vitka.

Il pappagallo rimase in silenzio.

« Non succede niente », disse Roman.

« Dannazione », imprecò Vitka, « non riesco a pensare a niente di comune con la lettera r. Sedia, tavolo, soffitto… divano… oh! Traslatore! »

Il pappagallo osservò Vitka con un occhio. « Korr-neev, prr-ego! »

« Cooosa ? », reagì Vitka. Per la prima volta in vita mia lo vidi totalmente frastornato.

« Scor-rbutico, Korr-neev! Buurr-bero! Grr-an lavorr-atore! Grraan testone! Prr-egevole! »

Cominciammo a sghignazzare.

Vitka ci lanciò un’occhiataccia e strillò vendicativo: « Oirr-a Oirr-a! »

« Vecchiarr-do, vecchiarr-do! », rispose prontamente il pappagallo. « Grr-atificato! Rii-rriuscito! »

« C’è qualcosa che non va », osservò Roman.

« Perché mai ? », chiese Vitka. « Mi pare che tutto quadri, invece. Pr-rivalov! »

« Prr-ogetto ingenuo! Prr-imitivo! Grr-an lavorr-atore! »

« Ragazzi, questo ci conosce tutti », disse Edik.

« R-rragazzi! », ribattè il pappagallo. « Grr-anello pepe! Zee-ro! Zee-ro! Grr-avità! »

« Amperian », si affrettò a dire Vitka.

« Crr-ematorio! Prr-ematuramente interr-otta! », gracchiò il pappagallo, poi tergiversò pensieroso e aggiunse: « Amperr-metro! »

« Assurdità sconclusionate », commentò Edik.

« Le assurdità non esistono », obiettò pensieroso Roman.

Vitka fece scattare il lucchettino e aprì il dittafono. « È finito il nastro. Peccato ».

« Sentite », intervenni io. « Secondo me è più semplice se chiediamo lumi a Janus. Che pappagallo è, da dove viene e, in generale… ».

« Sì, e chi sarà a chiederglielo ? », si informò Roman.

Nessuno si offrì volontario. Vitka propose di ascoltare la registrazione e noi concordammo.

Suonava tutto molto strano. Alle prime parole trasmesse dal dittafono il pappagallo svolazzò sopra la spalla di Vitka, anche lui ascoltava con evidente interesse e di tanto in tanto si inseriva con repliche del tipo: « Drr-amba, iignorr-ando, uurr-anio », « corr-etto », e « Korr-neev, burr-bero, buurr-bero, buurr-bero! »

Terminata la registrazione Edik propose: « In teoria si potrebbe stilare un vocabolario e analizzarlo meglio al computer. Ma qualcosa di chiaro c’è già. In primo luogo, ci conosce tutti. E già questo è sorprendente. Significa che ha sentito i nostri nomi molte volte. In secondo luogo, conosce i robot. E il rubidio. A proposito, dov’è che viene impiegato il rubidio ? »

« Qui da noi nell’Istituto non si usa », rispose Roman.

« È qualcosa tipo il sodio », precisò Korneev.

« Il rubidio okay », feci io. « Ma come fa a conoscere i cra-teri lunari ? »

« Perché dici che sono proprio lunari ? »

« Perché sulla Terra ci sono forse montagne che si chiamano crateri ? »

« Beh, innanzitutto c’è il cratere Arizona e poi il cratere non è una montagna, è più una specie di voragine »

« Vorr-agine teeemporr-ale », comunicò il pappagallo.

« Usa una terminologia curiosissima », osservò Edik. « Non posso affatto affermare che sia d’uso comune ».

« Sì », concordò Vitka. « Se il pappagallo si trova tutto il tempo da Janus allora vuol dire che Janus si occupa di cose molto strane ».

« Strr-aano trr-aansito orr-bitale! », disse il pappagallo.

« Janus non si occupa di cosmo », disse Roman. « Se così fosse, lo saprei ».

« Non è che se ne occupava in passato ? »

« No, nemmeno in passato ».

« Qualche tipo di robot », puntualizzò con ansia Vitka. « Crateri… ma che c’entrano i crateri ? »

« Forse Janus legge fantascienza », suggerii.

« A voce alta ? Al pappagallo ? »

« Mm, effettivamente… ».

« Venere! », pronunciò Vitka rivolto al pappagallo.

« Arr-dore moorr-tale », replicò il pappagallo. Ci pensò su un attimo e poi aggiunse: « Sfr-rracellato. A che prrro ? »

Roman si alzò e cominciò a passeggiare per il laboratorio. Edik appoggiò una guancia sul tavolo e chiuse gli occhi.

« Ma come c’è finito qua ? », chiesi.

« Come ieri », rispose Roman. « Dal laboratorio di Janus ».

« Ma lo avete visto coi vostri occhi ? »

« Aha ».

« C’è una cosa che proprio non capisco », dissi. « Ma è morto oppure no ? »

« E come facciamo a saperlo ? », replicò Roman. « Io non son mica un veterinario, e Vitka non è un ornitologo. E comunque può anche darsi che non si tratti di un pappagallo ».

« Cosa allora ? »

« E che ne so ? »

« Forse si tratta di un complesso caso di allucinazione indotta », suggerì Edik senza aprire gli occhi.

« Indotta da chi ? »

« Ci sto pensando proprio in questo momento », disse Edik.

Feci pressione su un occhio con un dito e guardai il pappagallo. Il pappagallo si sdoppiò.

« La sua immagine si sdoppia », comunicai. « Questa non è un’allucinazione ».

« Ho detto un ‘complesso caso di allucinazione », sotto-lineò Edik.

Feci pressione su entrambi gli occhi e mi andò via la vista per qualche secondo.

« Sapete che vi dico ? », fece Korneev. « Io sostengo che qui abbiamo a che fare con una violazione della legge di causa-effetto, perciò c’è un’unica conclusione da trarre: tutto questo è un’allucinazione, dobbiamo alzarci, metterci in riga e marciare spediti dallo psichiatra, magari intonando qualche bel motivetto. Su, in piedi! »

« Io non ci vengo », reagì Edik. « Ho ancora un’altra idea ».

« Quale ? »

« Non te lo dico ».

« Perché ? »

« Mi gonfierete di botte ».

« Le botte te le daremo lo stesso ».

« Dai, fatti avanti ».

« Non è vero, tu non hai nessuna idea », obiettò Vitka. « Ti sei solo immaginato di averla. Forza, andiamo dallo psichiatra ».

La porta del corridoio cigolò e nel laboratorio entrò Janus Poluektovič. « Allora », disse. « Salve ».

Ci alzammo. Venne da noi e strinse la mano a tutti.

« Fotoncino è ancora qui ? », chiese notando il pappagallo. « Non vi starà mica disturbando, eh, Roman Petrovič ? »

« Disturbando ? », disse Roman. « Certo che no, come potrebbe disturbare ? Al contrario… ».

« Beh, comunque, ogni giorno… ». Janus stava per dire qualcosa ma si bloccò all’improvviso. « Di cos’è che parlavamo io e lei ieri sera ? », chiese sfregandosi la fronte.

« Ieri lei era a Mosca », rispose Roman con tono di voce rispettoso.

« Ah… sì, sì. Beh, bene. Fotoncino! Vieni qua! »

Il pappagallo, dopo aver spiccato il volo, si posò sulla spalla di Janus e gli disse all’orecchio: « Grr-ano, grr-ano! Zuu-ccherr-ino! »

Janus, sorridendogli affettuosamente, se ne andò nel suo laboratorio. Noi rimanemmo di stucco a guardarci l’un l’altro.

« Andiamocene da qua », esortò Roman.

« Dallo psichiatra, dallo psichiatra », farfugliò in modo sinistro Korneev mentre percorrevamo il corridoio in dire-zione del divano nel suo laboratorio. « Nel cratere Ritchey. Drr-amba. Zuu-ccherr-ino ».