CAPITOLO QUARTO

CAMBRAI, VIENNA, AQUISGRANA

Tutte queste vicende trovarono una loro (momentanea) conclusione nel trattato dell’Aja, cui seguì il congresso di Cambrai del 1722. Ancora una volta esso ribadiva, a profitto dell’Inghilterra, il principio dell’equilibrio delle potenze in Europa. Ma a noi interessa soprattutto l’assetto italiano, di cui ecco il riepilogo.

I Savoia, promossi a Utrecht al rango di Re, non lo erano più della Sicilia, ma della Sardegna. La Sicilia tornava con Napoli sotto la sovranità dell’Austria, già padrona del Ducato di Milano. Ma siccome due dinastie indigene – i Medici di Toscana e i Farnese di Parma – stavano per estinguersi, la loro eredità sarebbe andata al primogenito di Filippo e di Elisabetta di Spagna, Carlo.

Ma i trattati, si sa, durano quel che durano. Quello dell’Aja era appena stato firmato, che già la diplomazia europea si rimetteva in movimento. Noi non seguiremo tutte le sue quadriglie che richiederebbero un trattato in più volumi. Ci limiteremo solo agli episodi che più da vicino interessano il nostro Paese.

Il primo fu un ennesimo rovesciamento di alleanze. Il motivo per cui la Francia s’era schierata contro la Spagna era che in quel momento sul suo trono c’era un reggente della casa Orléans, il quale naturalmente sentiva molto meno la solidarietà dinastica coi Borbone spagnoli. Ma appena la reggenza finì, e sul trono di Parigi tornò, grazie al raggiungimento della maggiore età, un Borbone vero, Luigi XV, la sua politica ridiventò di stretta amicizia con la Spagna. Queste due potenze si accordarono su un’altra delle tante «liberazioni» dell’Italia, cioè per cacciarne gli Asburgo austriaci e istallarvi i Borbone.

In questo giuoco la Francia pensò di coinvolgere il Piemonte che sarebbe stato compensato col Ducato di Milano, mentre alla Spagna, cioè ai figli di Elisabetta, sarebbero andati, oltre i soliti Ducati di Toscana e di Parma – tuttora in attesa della morte dei legittimi titolari Medici e Farnese –, Napoli e la Sicilia. Fu un negoziato difficilissimo perché per «Ducato di Milano» il Piemonte intendeva tutta la Lombardia, comprese Mantova e Cremona, e gli Spagnoli non volevano saperne.

La guerra scoppiò prima che un accordo fosse raggiunto. Scoppiò non per l’Italia, ma per la Polonia, dove si era aperta un’altra crisi dinastica, che metteva di fronte Francia e Austria: la prima voleva che il trono fosse assegnato al Leczynski; la seconda lo reclamava per il suo vassallo Augusto di Sassonia. Ma, una volta scoppiato, il conflitto si estese subito anche all’Italia, dove il Savoia di turno, Carlo Emanuele, provvide ad annettersi Milano. Gli Austriaci, impegnati in Polonia, non la difesero e si rinchiusero in Mantova.

I Franco-spagnoli mossero contro di loro, comandati dallo stesso principe Carlo che, in seguito alla morte dello zio, era finalmente diventato Duca di Parma, in attesa di diventarlo anche di Toscana. Ma per dare il colpo di grazia all’avversario, occorreva l’aiuto di Carlo Emanuele. E Carlo Emanuele non si decideva a darlo, se prima non gli garantivano Mantova e Cremona. Il tempo passava. Nuove situazioni andavano maturando. E la Francia, dopo aver fatto il possibile per mettere d’accordo i suoi due alleati, preferì intendersi direttamente con l’Austria.

I negoziati sboccarono nel trattato di Vienna del 1738, la cui comprensione richiede una piccola digressione. L’Austria era tormentata da una grave crisi dinastica. L’imperatore Carlo VI era salito sul trono perché il fratello primogenito Giuseppe era morto lasciando soltanto delle figlie che per legge non potevano ereditarlo. Però aveva chiesto a Carlo l’impegno, se anche lui fosse rimasto senza eredi maschi, di cambiare quella legge in modo che la successione toccasse alla maggiore delle sue figlie. La condizione si era realizzata. Anche Carlo non aveva avuto che figlie femmine, e quindi aveva emanato una nuova legge, la cosiddetta «Prammatica Sanzione», la quale autorizzava la successione anche in linea femminile; ma a cominciare dalla figlia sua, Maria Teresa, non da quelle di Giuseppe.

Da anni, Carlo stava lottando per indurre gli altri Sovrani d’Europa a riconoscere la validità di questa legge in modo che costoro non facessero scoppiare, il giorno della sua morte, una ennesima guerra di successione anche in Austria. Col trattato di Vienna la Francia s’impegnava a questo riconoscimento, che però comportava una serie di conseguenze anche sulla situazione italiana. L’Austria infatti lo ripagava rinunziando a Napoli e Sicilia, che sarebbero andati ai Borbone di Spagna, cioè al principe Carlo. Ma in compenso otteneva, oltre alla restituzione di Milano, il Granducato di Toscana.

Quest’ultima clausola esige anch’essa una digressione, di cui chiediamo scusa al lettore; ma la colpa è del groviglio dinastico. Abbiamo detto che la guerra era scoppiata per la successione al trono di Polonia. Alla fine aveva vinto il candidato austriaco. Ma siccome lo sconfitto Leczynski era suocero di Luigi XV, bisognava trovargli un compenso. E questo compenso fu il Ducato di Lorena. Ma questo aveva a sua volta un titolare, Francesco. Anche a lui bisognava dare un compenso perché era il marito di Maria Teresa, futura Imperatrice d’Austria. E il compenso fu appunto il Granducato di Toscana, che così cambiava per la seconda volta padrone prima ancora di esser rimasto vacante.

Com’era logico, questo accordo suscitò il furore sia della Spagna che del Piemonte. Entrambi minacciarono di continuare la guerra per conto loro. Ma era la minaccia di una pistola scarica. Prima l’uno, poi l’altra dovettero arrendersi, ma restando all’agguato di un’occasione più favorevole.

Questa si presentò alla morte di Carlo VI, nel ’40. In quel momento l’Austria era impegnata fino al collo nel suo eterno conflitto coi Turchi, che tratteneva nel cuore dei Balcani i suoi eserciti. Ne approfittò subito Federico di Prussia per contestare la Prammatica Sanzione, cioè l’ascesa al trono di Maria Teresa. Federico apparteneva alla dinastia Hohenzollern che, come i Savoia, da poco erano diventati Re, e non perdevano occasione per ingrandirsi in Germania a spese degli Asburgo, come i Savoia non la perdevano per ingrandirsi in Italia. Federico occupò di sorpresa la Slesia intaccando non tanto il territorio dell’Impero, quanto il principio della sua integrità.

Elisabetta di Spagna – poiché era sempre lei a dettare la politica di Madrid – ci vide la grande occasione per realizzare il suo sogno: quello di dare una corona anche all’altro suo figlio, Filippo, riunendo sotto il suo scettro Lombardia, Parma e Piacenza. Ma fu proprio questo che impedì al Piemonte di aderire al progetto. Carlo Emanuele non voleva gli Asburgo a Milano. Ma non ci voleva nemmeno i Borbone. E siccome in quel momento i Borbone, sempre spalleggiati da quelli francesi, erano più forti e quindi più pericolosi degli Asburgo, egli si riavvicinò a Vienna, dalla cui parte ora stavano Inghilterra e Olanda, ma a modo suo, cioè con un piede solo. Il suo intervento militare si sarebbe limitato alle operazioni in Lombardia e sarebbe stato compensato con l’annessione di Vigevano e di uno sbocco al mare in Liguria, Finale, che apparteneva a Genova, la quale si alleò subito alla Francia. Quanto a Milano, l’eterno miraggio dei Savoia, l’impegno prevedeva questo: che, esclusine in ogni caso i Borbone, Piemonte e Austria si riservavano di manovrare ciascuno per conto proprio anche trattando separatamente col nemico. Era la legalizzazione del doppio giuoco, e mandò in visibilio i diplomatici del tempo: l’ambasciatore di Venezia a Torino lo chiamò «un fatto meraviglioso».

La condotta della guerra fu in tono con l’ambiguità di queste premesse. E noi non vogliamo affliggere il lettore col resoconto di tutt’i capovolgimenti cui diede luogo. Diremo soltanto che nel ’43 il Piemonte era in tali condizioni da dover impegnarsi coi denti rinunziando per sempre ai «fatti meravigliosi», cioè a ogni speranza su Milano; e nel ’45 tutta la Penisola era alla mercé dei due figli di Elisabetta al comando dei Franco-spagnoli.

Una controffensiva degli Austro-piemontesi ricacciò gl’invasori, ma a capovolgere gli avvenimenti furono i capricci degli uomini, e nella fattispecie di una donna, la solita «strega di Spagna». Spaventata dai suoi appetiti, la Francia pensò di contrapporle il Piemonte, richiamandolo nella sua alleanza. Da buon Savoia specializzato in rovesciamenti di fronte, Carlo Emanuele non si fece pregare, ma sempre a suo modo, cioè impegnandosi solo a mezza bocca. Appena seppe che gli Austriaci, liquidate per il momento le pendenze con la Prussia, ridiscendevano il Brennero, assalì di sorpresa e imprigionò le guarnigioni francesi di Asti e Alessandria.

Il colpo di grazia ai borbonici in Italia lo assestò la morte a Madrid di Filippo V. Non era un personaggio di gran rilievo. Ma la sua fine comportava quella di sua moglie. Il successore Ferdinando VI, figlio del primo letto, detestava la matrigna e provvide subito a esiliarla dalla capitale e, anche per far dispetto a lei e ai suoi rampolli, richiamò le truppe spagnole dall’Italia, abbandonando i fratellastri al loro destino.

Per Carlo Emanuele, questo era anche troppo. Egli non voleva il definitivo trionfo dei Borbone, ma nemmeno quello degli Asburgo. Lo si vide dalla fretta con cui s’impadronì di Finale e di Savona per sbarrare il passo agli Austriaci in marcia su Genova per castigarla della sua solidarietà con la Francia. Fu in questa occasione che Balilla lanciò il famoso sasso, destinato a rimbalzare sulla testa di generazioni d’Italiani come il primo segno di una riscossa nazionale. Non esageriamo. Probabilmente Balilla lo avrebbe lanciato anche contro i Piemontesi, se fossero stati loro a rimanere a Genova. Tuttavia il suo gesto esprimeva un sentimento di fierezza – sia pur soltanto municipale – assolutamente nuovo da parte di un popolo «abituato da secoli» diceva Voltaire «a essere il premio dei vincitori».

La sassata diventò prima sassaiola, poi insurrezione, e gli Austriaci dovettero sgombrare. I Francesi si misero in moto lungo la Riviera per dare man forte alla Repubblica. Per impedirgli di piantarvi bandiera, la flotta inglese bloccò il porto. Ne derivò un garbuglio diplomatico ancora più aggrovigliato del solito, che finì per impaurire un po’ tutti. Da cinquant’anni l’Europa non aveva conosciuto che rari intermezzi di pace. Le guerre «politiche» del Settecento non erano condotte con l’ottuso furore e non sortivano gli effetti devastatori di quelle religiose del secolo precedente. Ma nemmeno esse erano dei minuetti come le farebbero apparire le incipriate parrucche e le sofisticate uniformi militari del tempo. Tutti sentivano il bisogno di por fine a quell’interminabile drenaggio di sangue e di denaro. L’Inghilterra se ne rese interprete e, come aveva fatto a Utrecht, prese l’iniziativa delle trattative aprendone per conto suo con la Francia. Gli altri dovettero seguire.

L’appuntamento fu fissato per l’autunno del ’48 ad Aquisgrana. E qui ci affrettiamo ad accorrere anche noi dopo questa lunga carrellata di guerre sparpagliate, di effimere alleanze, d’intrighi e tradimenti, di cui disperiamo che il lettore abbia potuto seguire il filo. Se qualche volta lo ha smarrito, non se ne faccia. Tutto, da Utrecht in poi, rimase allo stato fluido. Solo Aquisgrana diede un nuovo assetto che, per l’Italia, era destinato a durare più d’un secolo, salvo l’intermezzo degli eserciti di Napoleone.

Vediamo di rendercene conto più da vicino.