Fra i Paesi che esercitavano la loro influenza sull’Italia, l’Austria teneva naturalmente il primo posto: era essa che dominava la Penisola dalle posizioni chiave di Milano e di Firenze, cui presto si sarebbe aggiunto il Reame di Napoli per il lento scivolamento nella sua orbita dei Borbone di laggiù. Era un’influenza quasi esclusivamente politica perché sul piano culturale l’Italia subiva di più altre attrazioni. Ma per influenza politica non si deve intendere soltanto il vincolo che faceva della Penisola una «dipendenza» dell’Austria. Ci fu qualcosa di più. L’Austria non si limitò a mandare in Italia dei governatori, dei Granduchi e dei reggimenti. V’importò anche delle idee e delle riforme che scossero il Paese e vi fecero scuola. Gli apologeti del Risorgimento non se n’abbiano a male. Ma sul piano organizzativo e amministrativo, l’Italia deve molto all’Austria, che a sua volta deve molto a Maria Teresa e alla sua discendenza.
Abbiamo già detto come questa donna ascese al trono, alla morte del padre Carlo VI nel 1740. E dovette trovarlo piuttosto scomodo. Non solo perché fu subito costretta a difenderlo con le armi, ma anche perché esso aveva più lustro che sostanza. Non parliamo del titolo imperiale che – lo abbiamo già visto – era ridotto a una pura finzione. Ma anche il patrimonio ereditario di casa Asburgo, a parte la compatta cittadella austriaca, era piuttosto sgangherato: un coacervo di terre e genti di diversa razza, religione, lingua e cultura, tenute insieme da forze centripete a corrente alternata. Boemi, Moravi, Ungheresi, Croati erano ogni poco in subbuglio contro il centralismo di Vienna. E proprio nel momento in cui Francesi, Prussiani e Bavaresi, approfittando della crisi aperta con la successione di Maria Teresa e forse contando sulla sua inesperienza, cercavano di saccheggiarne il tesoro, i nobili ungheresi innalzavano il vessillo della rivolta.
I retori della storia (ce ne sono anche in Austria) hanno tramandato ai posteri l’edificante e melodrammatica scena della giovane sovrana che, accorsa nel parlamento di Budapest, solleva tra le braccia il figlioletto in fasce invocando su di lui la protezione dei cavallereschi magnati che a quella vista balzano in piedi gridando: Moriamur pro rege nostro Maria Theresia!
In realtà le cose si svolsero in maniera molto più prosaica. I magnati contrattarono puntigliosamente la loro lealtà facendosela ripagare con larghe autonomie. Ma l’Imperatrice diede prova in questa transazione di notevole accortezza e sangue freddo. Non era un genio, ma non ne aveva nemmeno gli scompensi. Le sue qualità erano l’equilibrio, la praticità, una grande carica umana e soprattutto un altissimo senso del dovere. C’è da chiedersi se quella di Regina fosse la sua vera vocazione. Forse no. Ma, visto che le toccava di esserlo, lo fu con impegno, scrupolo e buon senso. Forse al suo equilibrio giovò il fatto ch’essa non sacrificò all’ambizione la sua vita di donna. Amò teneramente suo marito Francesco di Lorena, gli dette ben sedici figli, e sopportò con molta pazienza i suoi adulteri. Quando Francesco morì, abbracciò la sua ultima amante e le disse: «Ah, signora mia, cosa abbiamo perso!».
Sebbene essa gli avesse fatto assegnare, oltre al Granducato di Toscana, il titolo d’Imperatore, Francesco l’aiutò poco negli affari di Stato. Era troppo occupato nelle battaglie d’alcova e nell’amministrazione delle finanze domestiche, di cui fu un abilissimo regista. Investì i suoi soldi in industrie tessili, cui poi fece dare l’appalto delle uniformi per l’esercito, e seguitò a vendere materie belliche a Federico di Prussia anche quando costui guerreggiava con l’Austria. Non si curò molto neanche dei figli, cui invece Maria Teresa dedicò cure fin troppo assidue. Il suo amore materno era soffocante come quello di una chioccia. Regolava minutamente la loro vita e trascorse la propria a procurar troni ai maschi e buoni partiti alle femmine. Al primogenito era destinato il titolo imperiale, al secondo il Granducato di Toscana, al terzo il governatorato di Milano, a Maria Antonietta il Delfino di Francia, Luigi XVI (che dopo averla condotta all’altare la condurrà sulla ghigliottina), a Maria Carolina il Principe ereditario di Napoli, Ferdinando. Gran parte della sua politica estera fu condizionata da questo assillo del «posto» per i suoi pulcini. E anche dopo averveli sistemati, seguitava a sorvegliarli perché voleva che del posto a loro volta si servissero per procurarne degli altri alla famiglia. Li tempestava di lettere, ne esigeva altrettante, li teneva in una perpetua «sauna» di amorose sollecitudini e di cocenti rimbrotti.
Ma questo superlavoro domestico non andava a detrimento dei suoi impegni di sovrana. «Tutti i Re d’Europa sono soltanto illustri imbecilli, meno Carlo Emanuele di Sardegna e Maria Teresa» scrisse il suo mortale nemico Federico di Prussia. Essa non permise mai ai propri sentimenti e propensioni di prevalere sugl’interessi dello Stato. Personalmente molto pia e perfino bacchettona, fu tuttavia fermissima nell’imbrigliare la Chiesa e nel ridurne il potere temporale. L’Inquisizione con lei fece pochi affari e non riuscì nemmeno a conservare ai gesuiti l’Università di Vienna che fu affidata ai laici.
Essa rivelò il suo giudizio soprattutto nella scelta dei collaboratori. Quello che meglio la secondò fu il principe Kaunitz che fu per quarant’anni il suo factotum. Kaunitz veniva dalla diplomazia e Carlyle lo descrive come un personaggio sofisticato e piuttosto insolente. Insolente doveva esserlo davvero perché un giorno che Maria Teresa gli mosse degli appunti per la spregiudicatezza con cui ostentava le sue amanti, le rispose: «Maestà, sono qui a parlare dei vostri affari, non dei miei». Ma Maria sapeva anche incassare, quando le conveniva. E Kaunitz era davvero insostituibile: «la miglior testa d’Europa» lo definì il solito Federico, che pure ne era la maggior vittima perché fu Kaunitz che, per isolarlo, provocò quel «rovesciamento di alleanze» di cui abbiamo già parlato.
Ma il Cancelliere non si limitò alla politica estera. Quell’insieme di disparate terre e genti che formavano il Reame asburgico non aveva altro mastice che la persona del Re Imperatore. Un’ossatura di Stato non c’era. Kaunitz gliela diede. Fu lui a costruire dal nulla quell’amministrazione modello che ha consentito all’Austria di sopravviversi per quasi due secoli. Essa ha dato l’impronta a un tipo di «funzionario» solerte, scrupoloso e intriso di una dignità che per farsi valere non aveva bisogno di ricorrere ad atteggiamenti autoritari, alla cui scuola noi Italiani possiamo solo rimpiangere di aver troppo poco imparato.
Kaunitz e la sua sovrana non compirono una vera e propria rivoluzione. Essi ammodernarono il loro Paese cioè i loro Paesi, ma senza violentarne la tradizione, il costume e l’economia. Ne rispettarono l’impalcatura feudale e agraria, lasciarono che ognuno parlasse la sua lingua. Si limitarono a creare una ferrea intelaiatura amministrativa, affidando alla scuola e all’esercito la formazione di un tipo di suddito che vedeva nella monarchia e nella sua bandiera qualcosa di superiore alla propria nazionalità. Un’economia basata sul risparmio e sulla solidità della moneta, un codice chiaro e flessibile, una magistratura rigorosa ed efficiente, una burocrazia modestamente pagata, ma altissimamente considerata, furono gli strumenti con cui Maria Teresa riuscì a fare delle sue sparpagliate province uno dei più compatti (per allora) Stati europei.
Alla cultura badò poco, e fu il suo grande difetto. Per lei la cultura era soltanto la scuola, e la scuola era non una palestra d’intelligenze, ma un’incubatrice di funzionari e di ufficiali. Sotto il suo regime, in fatto di servizi, sviluppo urbano, fasto, eleganza, Vienna rivaleggiò con Parigi. Ma di Parigi non ebbe mai il fremito intellettuale, la commistione fra uomini di Stato e uomini di lettere o d’arte o di filosofia, ch’era stata anche la caratteristica dell’Atene di Pericle e della Firenze di Cosimo e Lorenzo il Magnifico. Il padre di Mozart scrisse che il pubblico dei teatri viennesi era fatto di gentiluomini e di gentildonne eleganti di fuori ma rozzi e grossolani di dentro, assolutamente refrattari all’intelligenza e alla bellezza. Forse lo scrisse perché quel pubblico aveva fischiato suo figlio. Ma quei fischi gli davano ragione. Comunque è un fatto che la Vienna di Maria Teresa non riuscì a esercitare sull’Europa contemporanea un’influenza proporzionale al suo peso perché le mancò l’apporto culturale. Essa esportava nei Paesi della sua area eccellenti Generali, governatori e prefetti, validi criteri amministrativi, buone leggi e regolamenti. Idee, no.
Di questo aveva coscienza il primogenito Giuseppe, erede al trono. Per meglio prepararvelo, sua madre aveva curato in maniera particolare la sua educazione. Ma tanta sollecitudine aveva sortito, come spesso accade, l’effetto contrario. Giuseppe fu, da ragazzo, un contestatore avanti lettera. «Il mio Giuseppe non sa obbedire» si lamentava la madre. I gesuiti che gli avevano dato come precettori fecero di lui un furioso anticlericale. Quando scoprì Voltaire, se ne ubriacò. E quando seppe che Voltaire era intimo amico di Federico di Prussia e lo teneva in gran conto, si entusiasmò anche di lui, sebbene fosse il nemico giurato degli Asburgo, e non ebbe pace finché non andò a esternargli di persona la propria ammirazione.
Maria Teresa pensò che l’unico modo di disciplinarlo era di affidargli qualche responsabilità, e a vent’anni lo fece membro del Consiglio di Stato. Giuseppe vi portò una ventata d’ideologia progressista che sconvolse i tradizionalisti e abitudinari patriarchi che lo componevano. Propose di abolire tutto il rituale di Corte, le proprietà ecclesiastiche, i dazi e le gabelle, di tassare anche l’aristocrazia, e di liberare i contadini da ogni gravame feudale. C’era gente che, per aver propagandato idee molto meno radicali di quelle, era finita in galera.
Gli dettero moglie, e per una volta tanto egli gradì la scelta che gli veniva imposta: Isabella di Parma, figlia di don Filippo di Borbone. Giuseppe apprezzò molto la sua gioventù, la sua grazia e più ancora forse la sua malinconia perché la condivideva. Ma in Isabella quella malinconia era patologica. La vita la spaventava. E quando, dopo pochi mesi di matrimonio, fu colpita dal vaiolo, si sottrasse alle cure e si lasciò morire.
Giuseppe non si riebbe mai più da quel dolore. Si piegò alla ragion di Stato che gl’imponeva di risposarsi, ma odiò la seconda moglie, una Principessa di Baviera, prima ancora di conoscerla. La trovò «repulsiva», non ebbe con lei alcun rapporto, e forse benedisse il vaiolo che con assoluta imparzialità si portò via poco dopo anche lei. Da allora non volle più sentir parlare di matrimonio, e si dedicò alle cure del governo con una dedizione esclusiva che rasentava il fanatismo.
Nel ’64 lo avevano coronato «Re dei Romani», il titolo che avviava a quello d’Imperatore. La cerimonia dell’investitura, cui partecipò da spettatore anche il giovane Goethe, gli parve un grottesco residuato medievale (qual era). «Mi costa un grande sforzo» scrisse al fratello «trattenermi dal dire a tutti questi imparruccati signori quanto sono idioti, loro e i loro discorsi.» L’anticamera al titolo imperiale fu breve: suo padre lo lasciò vacante l’anno dopo. La morte del marito fu per Maria Teresa un terribile colpo. Si tagliò i capelli, si disfece di ogni monile, regalò il suo guardaroba meno gli abiti di lutto, e annunziò il proposito di ritirarsi in convento. La trattenne il senso del dovere: Giuseppe era troppo giovane e impetuoso per abbandonargli interamente le redini del potere. Insieme al titolo imperiale essa gli affidò il comando dell’esercito e la supervisione sulla politica estera che tuttavia rimase nelle accorte mani di Kaunitz. Ma mantenne la qualifica di Regina e la suprema autorità sugli affari interni d’Austria, Ungheria e Boemia.
La convivenza fra mamma e figlio fu burrascosa. Giuseppe tentava continuamente di forzarle la mano con progetti di riforme in cui la timorata sovrana avvertiva con orrore un gran puzzo di Voltaire e d’ateismo. Ma quando anch’essa cadde malata di vaiolo, la trepidazione di Giuseppe, che sfidando il contagio rimase ininterrottamente al suo capezzale, fu sincera e appassionata. Di quell’interregno materno si valse solo per emanare una legge sanitaria che liberava i medici dal vincolo di molti tabù imposti dalla Chiesa.
Subito dopo però ricominciarono i bisticci. Giuseppe non si contentò di andare a render visita al grande e sempre più minaccioso Federico. Volle anche, rovesciando il tradizionale sistema di alleanze, combinarne una con lui. Il risultato fu un accordo fra Austria, Prussia e Russia per la spartizione della Polonia, la prima delle tante che quell’infelice Paese ha subìto. Nonostante la bella fetta che assegnava all’Austria, Maria Teresa vi appose la sua firma a malincuore e dopo molte riluttanze. «Piange, ma prende» fu il cinico commento di Federico. Ma il rincrescimento della Regina era sincero. Scrisse al figlio Ferdinando: «Il rimorso mi pesa sul cuore, mi tortura la mente, e mi avvelena le notti». E a Giuseppe: «Che vi siate scelto per modello Federico non vi fa onore. Questo conquistatore non è mai riuscito a conquistarsi un amico. E che vita è, una vita senza calore umano?». Forse in queste parole c’è anche un po’ di gelosia.
Col passare degli anni, la volontà di Giuseppe prevalse sempre più su quella della madre. Egli ebbe una gran parte nella soppressione dell’ordine dei gesuiti, che Maria Teresa proteggeva, e nella confisca dei loro beni e nell’abolizione della tortura: fatto, per quei tempi, rivoluzionario. Poi il giovane Imperatore volle andare a Parigi per dare – disse – qualche consiglio alla sorella Maria Antonietta, da poco salita al trono. Il consiglio ai due giovani sovrani fu di procedere allo smantellamento del vecchio regime feudale e alle riforme di cui il Paese aveva bisogno, prima che una rivoluzione spazzasse via anche il trono. Come si vede, quando Giuseppe affermò di aver capito in pochi giorni della Francia più di quanto suo cognato Luigi XVI ne avesse capito in tutta la vita, non era una vanteria. Ma la vera ragione che l’aveva spinto ad andarci era il desiderio di prender contatto con l’ambiente dei filosofi, di cui aveva ammirato le opere e fra i quali ottenne un grande successo. Solo per non dispiacere a sua madre, che lo considerava il diavolo in persona, rinunziò a una visita a Voltaire.
Quando rientrò a Vienna, vi trovò brutte novità. Incoraggiati dal suo anticlericalismo, i Boemi si stavano convertendo al protestantesimo così massicciamente che la Regina aveva reagito con misure persecutorie. Fra madre e figlio ci fu uno scontro che solo il tatto di Kaunitz riuscì ad appianare. Ma subito sopravvenne un’altra complicazione. Il Duca di Baviera era morto senza lasciare eredi. Al candidato dell’Austria, Federico ne oppose uno suo. Sentendosene tradito nell’amicizia, Giuseppe mobilitò, sordo ai richiami di sua madre che lo ammoniva di non stuzzicare quell’avversario spericolato e rotto a tutte le insidie. I Prussiani erano già sconfinati in Baviera, la stavano mettendo a sacco, e l’Europa tratteneva il fiato paventando un’altra Guerra dei sette anni. In un soprassalto d’autorità la vecchia Regina riprese in mano il timone e mandò a Federico un emissario segreto con un’offerta di compromesso, che Federico accettò.
Maria Teresa aveva salvato la pace, ma usciva da quell’ennesima crisi col figlio definitivamente prostrata. Grassa di costituzione, negli ultimi anni si era vieppiù appesantita, e il cuore ne risentiva. Colpita da una bronchitella, non poté mettersi a letto, dove non riusciva a respirare. Giuseppe fu, come al solito, la sua più amorosa e assidua infermiera. Una sera, aggiustandole i cuscini, le disse: «Vostra Maestà è in cattiva posizione». «Sì,» rispose lei «ma abbastanza buona per morirci.» Spirò il giorno stesso: 29 novembre 1780.
Ora Giuseppe era libero di governare come voleva, e non mise tempo in mezzo. Liquidò in pochi giorni la vita di Corte col suo pesante rituale di feste e cerimonie, e ne istaurò un’altra da grande e coscienzioso burocrate. Come Federico, volle essere soltanto «il primo servitore dello Stato», e non gli costò sforzo perché solo lo Stato lo interessava. Non aveva né donne né hobby. Aveva solo, davanti ai suoi occhi, il miraggio di una Città del Sole che realizzasse gl’ideali della giustizia e dell’efficienza e servisse di modello a tutte le altre nazioni.
Non si lasciò condizionare da pregiudiziali democratiche. Il popolo, diceva, non aveva abbastanza preparazione ed esperienza per poter fare da sé. Bisognava dunque governare per, ma non con e attraverso il popolo. È il principio su cui si basano tutti i dispotismi. E despota fu anche lui, nel senso più pieno della parola. Scelse i propri Ministri infischiandosi di titoli, rango e anzianità, e li trattava come impiegati, a eccezione di Kaunitz che riuscì per qualche anno a tenergli testa. Li controllava con un sistema di spionaggio degno di Stalin e, accentrati così nelle proprie mani tutti i poteri, si diede a costruire il suo utopico Regno.
Fu una grandine di riforme: abolizione della pena di morte e di tutte le discriminazioni religiose, introduzione del divorzio, liberazione dei servi, abbattimento dei privilegi feudali. Erano misure che mettevano a soqquadro tutte le impalcature di quella società agraria e basata sulle caste nobiliari. Ma Giuseppe non si curò degli squilibri che ne derivavano. Travolgendo ogni resistenza, demolì tutto il sistema di dazi interni che facevano da supporto economico delle autonomie regionali. Lasciò solo, e anzi rafforzò, quelli esterni avviando così il suo Reame all’autarchia. Naturalmente gli altri Paesi reciprocarono con alte tariffe protettive. E questo spinse Giuseppe a «pianificare» la produzione in modo da dare il passo all’industria e alla città sull’agricoltura e il contado. Questo significava l’indebolimento della proprietà terriera su cui si basava l’aristocrazia a profitto dei ceti borghesi e imprenditoriali. Insigniti di titoli e blasoni, industriali e mercanti formarono anch’essi una nobiltà che faceva da contrappeso a quella tradizionale e diedero avvio a un capitalismo fortemente protetto dallo Stato.
Giuseppe non si lasciò scoraggiare dal sentimento profondamente cattolico della popolazione e le impose la tolleranza con editti di esemplare intolleranza. A coloro che si ostinavano a praticare discriminazioni religiose fece infliggere ventiquattro scudisciate (che non venivano considerate tortura perché non procuravano la morte). L’effetto fu un rapido incremento nelle conversioni al protestantesimo e una proliferazione di logge massoniche che Giuseppe, lungi dal combattere, organizzò in due sette in modo da evitarne la dispersione. Non abolì la censura. Ma la comminò imparzialmente sia ai libri che contenevano attacchi al Cristianesimo, sia a quelli che propalavano miracoli e leggende che alimentassero la superstizione. Le opere scientifiche ne erano comunque immuni, e quelle all’Indice erano messe a disposizione degli studiosi. L’insegnamento doveva essere assolutamente libero, e quando quattordici studenti bigotti contestarono un loro professore perché sosteneva che il mondo era più antico di quanto la Bibbia dicesse, Giuseppe ordinò che fossero espulsi «perché delle teste così vuote non possono profittare dell’istruzione».
Queste misure crearono nella Chiesa tale apprensione che Pio VI si precipitò a Vienna. Da più di tre secoli e mezzo nessun Papa aveva attraversato il Brennero. Fu accolto da una folla osannante che volle così manifestare la sua avversione all’anticlericalismo dell’Imperatore. Questi scrisse con una punta di cinismo: «È stato un bellissimo spettacolo. Dal balcone il Papa ha impartito l’assoluzione a rate anche di sessantamila peccatori alla volta e una donna è rimasta schiacciata nella ressa proprio sotto la mia finestra». Egli colmò il Pontefice di doni e onori, ma non gli concesse nulla. Quando, di lì a pochi mesi, gli restituì la visita a Roma, vi fu accolto da una folla non meno osannante che volle così manifestare la propria avversione al clericalismo.
Ma di ben altra portata si rivelarono le resistenze interne della tradizione, del costume, delle autonomie locali, delle singole nazionalità e, se si vuole, anche del pregiudizio. Con l’occhio fisso alla sua Città del Sole, Giuseppe le aveva sottovalutate. Ma alle prime difficoltà economiche e diplomatiche, se le trovò di fronte. Un’incauta alleanza con Caterina di Russia lo costrinse a una campagna contro i Turchi, che mise in luce le magagne dell’esercito. Quasi tutti appartenenti alla nobiltà terriera o ad essa legati, i comandanti non avevano molta voglia di battersi per un Imperatore che aveva mortificato la loro casta tradizionalmente depositaria del culto della lealtà e dei valori guerrieri. Per ridare slancio alle truppe demoralizzate dall’apatia dei capi, Giuseppe dovette richiamare in servizio e passare il comando al vecchio maresciallo Laudon, eroe della Guerra dei sette anni. Ma la Prussia aveva approfittato degli smacchi austriaci per scendere in campo accanto ai Turchi. Sul suo trono non c’era più il grande Federico, di cui Giuseppe aveva celebrato la scomparsa con queste cavalleresche parole: «Come soldato rimpiango la morte di questo grande condottiero. Come patriota, rimpiango che sia venuta con trent’anni di ritardo». Ma il suo successore ne continuava la politica antiaustriaca. I magnati ungheresi, sempre all’agguato della buona occasione, innalzarono il vessillo dell’indipendenza nazionale, sotto cui si nascondeva il proposito reazionario di restaurare i privilegi feudali e la servitù della gleba che Giuseppe aveva abolito. I Belgi seguirono l’esempio, scacciarono il governatore austriaco, ch’era il cognato stesso dell’Imperatore, e proclamarono la Repubblica. Giuseppe si rivolse per aiuto alla sorella Maria Antonietta e a suo marito Luigi XVI. Ma proprio in quel momento la rivoluzione spazzava via anche loro.
Lo sventurato sovrano non sapeva più a che santo votarsi, anche perché coi Santi era sempre stato in guerra. Tutta la sua utopia era in pezzi. Perfino la fedelissima Austria gli si ribellava, sobillata dai preti. Su consiglio del fratello Leopoldo, Granduca di Toscana, restituì agli Ungheresi la loro corona, la corona di Santo Stefano, e se ne riguadagnò i consensi. Ma ormai era tardi per tentare una rivincita. Il suo fisico non aveva retto ai dieci anni di forsennato lavoro che si era imposto. Stomaco e polmoni erano in disordine, i nervi cedevano rosi dalla tensione e dall’insonnia. Ora si aggiungeva l’idropisia. Chiamò Leopoldo per passargli le redini del potere, lasciò che il prete gl’impartisse i sacramenti e dettò il proprio epitaffio: «Qui giace Giuseppe che non riuscì in nulla».
Perché non fosse riuscito, non ebbe il tempo di domandarselo. Se lo avesse avuto, forse si sarebbe accorto che quel «nulla» non era del tutto esatto. Ciò che gli era mancato era quel realismo che invece sua madre aveva posseduto al massimo grado. Non aveva visto, o aveva sottovalutato gli ostacoli, e aveva troppo anticipato i suoi tempi. Gli uomini di Stato miopi sono rovinosi per i loro popoli, e quelli presbiti per se stessi. Giuseppe aveva avuto il peggior nemico nel proprio carattere impaziente e dispotico, inaccessibile ad altre voci che non fossero quelle di dentro. Come tutti i grandi «pianificatori» aveva della società un’idea astratta e libresca, ma assoluta e refrattaria a qualsiasi compromesso. La cieca fede in ciò che faceva lo rendeva intollerante, e perfino brutale, con chi non la condivideva. Perciò aveva saputo più comandare che dirigere. E perciò si era fatto sorprendere da una realtà di cui non aveva mai voluto prendere atto.
Ma ciò non toglie nulla alla generosità e nobiltà dei suoi intenti. Di tutti i despoti di quest’epoca di despoti, egli fu certamente il più «illuminato». Le sue riforme anticiparono troppo l’età moderna, ma l’anticiparono. E del resto egli stesso ne ebbe il presentimento, quando scrisse nella sua lettera di addio a Kaunitz: «Spero che la posterità, più imparziale e quindi più giusta dei contemporanei, riconoscerà l’onestà e giustezza delle mie intenzioni».
Aveva visto chiaro. La posterità ha preso atto del suo fallimento, ma lo considera più meritevole di tanti successi. L’Austria impiegò due secoli a realizzare le riforme che Giuseppe aveva preteso di realizzare in dieci anni. Ma dovette realizzarle. Dopo la morte dell’autore esse furono frettolosamente revocate. Ma il loro spirito rimase, si travasò anche all’estero, specialmente in Italia, e provocò un fermento d’idee che nessuno poté più arrestare. I riformatori del Settecento, soprattutto in Lombardia e Toscana dove l’influenza austriaca era più diretta e palpabile, ne furono ispirati e pervasi. Quel po’ di nuovo che nel campo dell’organizzazione politica e amministrativa si realizzò sullo scorcio del secolo nel nostro Paese, fu in gran parte sollecitato dall’esempio di Giuseppe. La sua opera cadde. Il suo seme fruttò.