CAPITOLO DECIMO

IL PIEMONTE DI VITTORIO AMEDEO II

Vittorio Amedeo II l’abbiamo già incontrato nell’Italia del Seicento perché al potere salì sullo scorcio di quel secolo, succedendo al padre Carlo Emanuele II. Ma non era che un ragazzo, e per di più di fragile salute, il che aggravava la già malcerta situazione dei suoi Stati. Il Piemonte aveva sempre salvato la propria indipendenza barcamenandosi fra le potenze europee che si contendevano il primato sull’Italia, e che a quei tempi erano la Francia e la Spagna. Ma a Carlo Emanuele il giuoco non era ben riuscito. Col trattato di Cherasco, i Francesi si erano istallati a Casale e Pinerolo, tenendo Torino sotto il loro ricatto. Non solo. Ma a esercitare la reggenza in nome del figlioletto finché non avesse raggiunto la maggiore età, Carlo Emanuele aveva lasciato la vedova, Giovanna Battista, ch’era una Principessa francese legatissima alla sua patria d’origine.

Secondo alcuni storici, questa donna ambiziosa e autoritaria avrebbe fatto il possibile per svogliare il ragazzo dai suoi compiti di sovrano avviandolo alla «dolce vita». Può darsi. Comunque, è certo che a conservare il potere ci teneva, e forse sognava di continuare a esercitarlo di fatto anche dopo avervi ufficialmente insediato il figlio. Questi non dava l’impressione di volersi ribellare. Pensava solo alla caccia e alle donne, e non mosse obiezioni quando sua madre decise di fidanzarlo alla Infanta del Portogallo, unica erede al trono di quel Paese. Ma di obiezioni ne mosse, e risolute, la Corte. I nobili che la componevano, quasi tutti soldati e diplomatici fedeli alla dinastia, dissero che un’unione fra il Reame del Portogallo e il Ducato di Piemonte avrebbe fatto del Piemonte una colonia del Portogallo. E il progetto sfumò.

Allora Giovanna Battista ripiegò su una Principessa francese, Anna d’Orléans, nipote di Luigi XIV, l’onnipotente Re Sole. Il relativo contratto fu stipulato nel 1684. Ma nello stesso momento in cui accettava la moglie scelta dalla madre, Vittorio Amedeo toglieva a costei i pieni poteri assumendoli di persona, e con tale inaspettata risolutezza ch’essa non riuscì mai più a ficcarci il naso. Il gracile e svagato ragazzetto, che fin allora aveva dato convincenti prove solo come segugio di pernici e di gonnelle, rivelava un piglio in cui si poteva riconoscere quello del grande avo Emanuele Filiberto.

Il primo problema che doveva risolvere era la libertà di manovra del Piemonte. Essa non era possibile finché le guarnigioni francesi restavano a Casale e a Pinerolo. Ma per cacciarle ci voleva una guerra, e la guerra con la Francia era resa difficile dal fatto che nella stessa Corte di Vittorio Amedeo c’erano ben tre partiti francesi: quello di sua madre, quello di sua moglie, e quello della sua amante, una Luynes francese anch’essa, che le malelingue accusavano di essere addirittura una spia. Forse fu questa complicata situazione domestica a cucirgli addosso quell’abito di diffidenza e segretezza che doveva restare una sua permanente caratteristica. Sollecitava il parere altrui, ma non svelava il suo nemmeno ai più fidi consiglieri.

Fu con un colpo a sorpresa che, rovesciando la politica persecutoria di suo padre e di sua madre, richiamò i valdesi nelle loro avite valli savoiarde. Il Papa andò su tutte le furie, ma la mossa del Duca aveva il suo perché. Contro Luigi XIV si stava formando una coalizione, la Lega di Augusta, capeggiata da Inghilterra e Olanda, potenze protestanti. La clemenza verso i valdesi era il miglior passaporto per entrarvi. Fu una guerra dura. I Francesi batterono ripetutamente i Piemontesi, ma Vittorio Amedeo non disarmò e seguitò a tenerli impegnati fin quando il Re Sole, incalzato su tutti i fronti dalle forze alleate, capì che era meglio negoziare con quell’avversario non irresistibile, ma cocciuto. Vittorio Amedeo trattò con lui all’insaputa dei propri alleati, ed ebbe quel che voleva: la restituzione di Casale e Pinerolo. La contropartita fu modesta: la mano di sua figlia Maria Adelaide per il nipote del gran Re. Ma il Piemonte non aveva riconquistato solo due città. Aveva riconquistato la propria libertà d’iniziativa. Una clausola del trattato impegnava esplicitamente la Francia ad astenersi da qualsiasi interferenza negli affari interni del Piemonte, e quando il nuovo ambasciatore francese venne a presentargli le credenziali, il Duca gli disse: «Dite al vostro Re che ci lasci in pace nelle nostre case, con le nostre madri, le nostre mogli e le nostre amanti». Non si può dire che Vittorio Amedeo parlasse per coperte allusioni. La Luynes afferrò senza sforzo quella che la riguardava, e fuggì.

Il trattato di Ryswick del 1697 riconobbe quelli di Torino e di Vigevano che avevano sanzionato l’indipendenza piemontese, e il Duca se ne fece forte per orientare come meglio gli conveniva la sua politica nella nuova guerra che si profilava per la successione al trono di Spagna. Abbiamo già detto che a occasionarla fu la morte dell’ultimo Asburgo della linea spagnola, Carlo II. Costui aveva finito per testare in favore di un Principe della dinastia francese dei Borbone, Filippo, contro un Arciduca Asburgo della linea austriaca che accampava la continuità dinastica. Il Duca trattava secondo il solito segretamente con l’una e con l’altra parte per vedere chi gli prometteva di più. Ma i Francesi se n’accorsero, e con un colpo a sorpresa disarmarono e internarono la guarnigione piemontese di San Benedetto Po. Quel precipitoso gesto spinse il Duca fra le braccia degli Austriaci che gli promisero il Monferrato, una bella striscia della Lombardia, la Lomellina, la Valsesia, Vigevano e un pezzo della provincia di Novara.

Per Amedeo, che non aveva avuto il tempo di prepararvisi, fu un’altra guerra disgraziata. Tre eserciti francesi conversero su Torino rovesciando le resistenze di Susa, Vercelli e Ivrea. Nella capitale assediata, dopo averne fatto partire madre, moglie e figli, il Duca resistette brevemente. Poi, lasciato il comando ai suoi Generali, evase per andare incontro a Eugenio di Savoia che accorreva in suo aiuto alla testa delle forze imperiali. Sebbene sottoposta a violenti bombardamenti, la popolazione reagì con disperato coraggio, tentò anche delle sortite, e in una di esse un giovane minatore, Pietro Micca, penetrato in una galleria, fece scoppiare una mina sotto i piedi dei Francesi saltando in aria insieme a essi come un kamikaze.

Dopo centodiciassette giorni di sangue e di fame, quando la città ormai era allo stremo, i due Savoia arrivarono. Non avevano che trentamila uomini contro i quarantasettemila Francesi. Ma la differenza era ampiamente colmata dal superiore genio tattico e strategico di Eugenio. Fu una battaglia-capolavoro che si risolse in poche ore con la completa rotta degli assedianti. Vittorio Amedeo ed Eugenio entrarono in città accolti da una lunga ovazione che li accompagnò fino al Duomo, dove fu officiato un Te Deum di ringraziamento.

Ce n’era di che. In conseguenza di quel trionfo che aveva privato il Re Sole di una delle sue più forti armate, sette anni dopo, a Utrecht, Vittorio Amedeo si annetteva tutti i possedimenti che la Francia ancora deteneva sul versante italiano delle Alpi da Fenestrelle a Bardonecchia, le terre che aveva già negoziato con l’Austria e – coronamento di un sogno carezzato per secoli da tutti i Savoia – il titolo di Re di Sicilia. Lontana dai suoi Stati e già ridotta in condizioni di «area depressa», quell’isola rappresentava per lui più un peso che un vantaggio. Ma la corona reale costituiva, in quell’epoca dominata dai problemi del rango e delle «precedenze», una promozione d’incalcolabile valore. L’Italia ora aveva un Re che, pur non essendo il Re d’Italia, era fatalmente tentato di diventarlo. Fra i potentati laici della Penisola, a lui spettava il posto di vertice.

Vittorio Amedeo andò a prendere possesso del suo Regno, facendosi solennemente incoronare nella cattedrale di Palermo sulla fine del 1713. Non conservò questo trono che per sette anni. Poi, come abbiamo già visto nella prima parte di questo libro, la diplomazia europea dovette far fronte all’aggressivo ritorno dell’imperialismo spagnolo fomentato dall’Alberoni, e per imbrigliarlo ebbe bisogno anche dell’Austria, che naturalmente chiese i suoi bravi compensi. Abituato a cogliere tutti di sorpresa, stavolta fu Vittorio Amedeo a esserne colto dal trattato dell’Aja (1720) con cui le quattro grandi potenze stabilirono di togliergli la Sicilia che con Napoli e Milano sarebbe andata all’Austria, compensandolo con la Sardegna su cui gli veniva riconfermato il titolo di Re. Vittorio Amedeo cercò con ogni mezzo di sottrarsi a questo baratto. Arrivò perfino a proporre la rinunzia al Piemonte, se in cambio gli davano la Sicilia e Napoli, e ciò basti a dire quanto poco contasse, nel giuoco politico di allora, unicamente imperniato sugl’interessi dinastici, la sorte dei popoli. Sebbene piemontese fino al midollo, Vittorio Amedeo era pronto ad abbandonare la sua terra, la sua gente, la sua casa pur di assicurarsi un Reame che, nella gerarchia di allora, era considerato più importante del suo. Né la cosa faceva scandalo in quell’epoca di «monarchie nomadi» che, considerando i troni alla stregua di semplici beni di famiglia, se li scambiavano con la massima disinvoltura. Presto vedremo il Duca di Lorena cedere alla Francia il suo Ducato, da ben settecento anni appannaggio della sua dinastia, facendosene compensare col Granducato di Toscana, paese che non aveva mai visitato neanche da turista.

Andati a monte i suoi tentativi, Vittorio Amedeo rinfoderò la spada, e si mise a organizzare i suoi Stati, vecchi e nuovi. Non era facile richiamarli sotto una stessa legge e fonderli in organica unità. Infatti non ci si provò nemmeno. La Savoia, sua terra d’origine, ne fu lasciata fuori. Più che al Piemonte, essa era legata da un vincolo di fedeltà, collaudata nei secoli, alla persona del sovrano, che le consentì di conservare le sue autonome istituzioni, il suo Senato, la sua magistratura, i suoi regolamenti. Era una specie di sua «fattoria» privata. La Sardegna fu abbandonata a se stessa. Arretrata e di difficile accesso per uno Stato privo di flotta come quello piemontese, Amedeo badò soltanto a mantenervi l’ordine con le sue guarnigioni e a mietervi reclute per il suo esercito. Povera com’era, altro non c’era da spremerne.

Quello che si prestava a diventare uno Stato vero anche per la sua compattezza territoriale era il Piemonte, e soprattutto a esso Vittorio Amedeo consacrò le sue energie. Egli seguì il modello di tutte le monarchie assolutiste: un governo fortemente centralizzato, una burocrazia puntigliosa e autoritaria, e guerra a oltranza ai particolarismi e alle autonomie locali. La prima vittima fu naturalmente l’aristocrazia che, arroccata nei suoi castelli, aveva fin lì mantenuto le sue prerogative. Approfittando delle crisi dinastiche, nell’ultimo secolo essa si era impadronita di molti feudi. Vittorio Amedeo ne disconobbe la legittimità, li tolse ai titolari e li vendette, coi relativi blasoni, a gente di estrazione borghese che si fosse distinta nei servizi di Stato: magistrati, medici, mercanti. Così prese due piccioni a una fava: rimpolpò le pubbliche finanze e creò una nuova nobiltà, legata alla dinastia da vincoli di gratitudine, per contrapporla a quella vecchia e scontenta.

Le riforme economiche non furono altrettanto fortunate. Il sogno di Vittorio Amedeo, come di tutti i capi di Stato contemporanei, era l’autarchia, cioè la capacità di bastare a se stesso. Ma l’agricoltura del Piemonte, in gran parte collinare e di montagna, non bastava al fabbisogno, e l’industria era tuttora allo stadio artigianale. Il Re fece del suo meglio per razionalizzare la produzione sottoponendo le «corporazioni», cioè le associazioni sindacali di categoria, a un rigido regolamento. Ma presto si accorse che il grande ostacolo era la mancanza di qualificazione professionale. I braccianti che, scacciati dalla povertà delle terre, si trasferivano in città a cercarvi lavoro non possedevano alcuna nozione. E le botteghe artigiane non riuscivano a svilupparsi in fabbriche perché mancavano tecnici e capitali.

Vittorio Amedeo non aveva mai sentito il bisogno d’istruirsi. Ma ebbe il buon senso di capire che, per creare uno Stato efficiente, c’era bisogno di gente istruita. I suoi rozzi e incolti predecessori non ci avevano pensato, e avevano lasciato decadere l’Università di Torino, che negli ultimi tempi si era ridotta a tredici professori mal pagati e senza prestigio. Vittorio Amedeo la riordinò, ne moltiplicò le facoltà e soprattutto ne laicizzò l’insegnamento sottraendolo ai gesuiti. Con lui la scuola diventò organo dello Stato, e basta. Le regalò anche la propria biblioteca che contava ben diecimila volumi. Crediamo che il gesto non dovette costargli gran sacrificio: probabilmente quei volumi erano intonsi.

Pensò anche ad ammodernare la città per renderla degna del suo nuovo rango di capitale di un Regno. Fra gli altri architetti vi chiamò lo Juvara che fuse in una sintesi abbastanza felice i due stili che avevano dato a Torino il suo carattere: quello classicheggiante e quello barocco. A lui sono dovuti il Castello, o palazzo Madama, la palazzina di caccia di Stupinigi, e Superga. «Torino mi sembra la più bella città d’Italia» scrisse De Brosses che ci capitò in quegli anni «e forse d’Europa. È vero che non vi si trova, o per lo meno è raro, quel grande stile architettonico che domina in alcuni monumenti delle altre città; ma non vi è neppure il fastidio di vedere delle capanne a fianco dei palazzi.»

È una testimonianza importante perché va oltre i valori estetici. La mancanza di contrasti architettonici era la plastica riprova della mancanza, o almeno dell’affievolimento dei contrasti sociali. I signori erano meno signori, e la plebe meno plebe che altrove. Evidentemente, lo sforzo di livellamento compiuto da Vittorio Amedeo cominciava a dare i suoi frutti: fra privilegiati e diseredati si stava formando una classe media abbastanza forte da dare la sua impronta al Paese. Il Re lavorava sodo e sovrintendeva a tutto. Il regime cui teneva sottoposta la sua capitale sapeva di caserma. Per meglio controllarla l’aveva amministrativamente divisa in sessanta «cantoni» e centodiciannove «isole», ciascuna col suo responsabile. Quando il campanone della torre suonava l’Ave Maria, le porte della città venivano chiuse, e nessuno era autorizzato a entrare o a uscire se non munito di speciale permesso. Vittorio Amedeo ispezionava di persona le strade, aggirandovisi senza scorta rinfagottato in un cappotto di panno turchino e con un cappellaccio calato sugli occhi. Attaccava discorso coi passanti, e spesso si fermava a far colazione nella bottega d’un farmacista suo amico. Con gli anni il suo tratto ruvido e brusco si era fatto ancora più spigoloso forse per via delle sventure domestiche che lo avevano colpito. Il primogenito, che si chiamava come lui e che prometteva bene, gli era morto a sedici anni. Le due figlie, Adelaide andata a sposa al Duca di Borgogna, e Luisa a Filippo V di Spagna, erano scomparse giovanissime. A queste perdite non trovava compensi in altri affetti perché non ne aveva e non ne ispirava. Trattava con rudezza, le rare volte che le trattava, anche la moglie e le amanti. Non si apriva alla confidenza nemmeno coi suoi collaboratori più intimi, quali l’Ormea e il Bogino. Dei suoi piani, non rivelava mai nulla a nessuno prima di averli messi in opera. Diceva soltanto che «l’Italia era come un carciofo: da mangiare foglia a foglia». E fu la regola di tutti i Savoia che gli successero sul trono, fino a Vittorio Emanuele II.

Abituato a fare tutto di sorpresa, di sorpresa prese anche la decisione di abdicare in favore del figlio Carlo Emanuele, nel 1730. E, appena datone l’annuncio, partì per Chambéry in Savoia con la seconda moglie, la Contessa di San Sebastiano, che un mese prima aveva sposato morganaticamente, senza nemmeno assistere alle cerimonie dell’incoronazione del figlio. Aveva settant’anni e voleva, disse, trascorrere in pace il poco che gli avanzava. Ma qualche mese bastò a tramutargli la pace in noia. Non si sa, forse nemmeno lui sapeva, se disapprovasse realmente la politica del successore, o se nella disapprovazione cercasse un pretesto per rimangiarsi l’abdicazione. Fatto sta che un bel giorno prese la via di Torino. Sulla vetta del Cenisio chiese consiglio alla moglie. Glielo chiese tre volte, e tre volte essa tacque. Proseguì il viaggio con lei, e nel castello di Moncalieri, senza che nessuno sapesse della sua presenza, dettò l’annuncio del suo ritorno sul trono a un segretario che riteneva fedele. Era forse la prima volta che accordava a qualcuno la sua fiducia, e ne fu mal ripagato.

La notizia giunse immediatamente nella capitale, dove l’Ormea riunì il Consiglio di Stato. Contro la volontà del Re che voleva restituire il trono al padre, contro le sue suppliche e lacrime, egli sostenne e fece trionfare la tesi che, dopo l’abdicazione, Vittorio Amedeo non era più che un suddito come gli altri e il suo gesto punibile come un atto di fellonia. Due reggimenti circondarono Moncalieri, l’ex sovrano fu arrestato come un delinquente e condotto a Rivoli sotto scorta, mentre sua moglie fu addirittura gettata nella prigione di Ceva. La liberarono solo dopo molti mesi per riaccompagnarla a Chambéry dove Vittorio Amedeo era stato confinato e messo sotto sorveglianza.

Il vecchio Re non si riprese più dal colpo. In punto di morte chiese di riabbracciare il figlio, che a sua volta non chiedeva di meglio. L’Ormea glielo impedì. Contro il Ministro furono mosse molte critiche per la sua durezza e inumanità. Forse egli ne aveva sfoggiata tanta anche perché un ritorno sul trono di Vittorio Amedeo avrebbe messo in pericolo il suo «posto», se non addirittura la sua pelle. Ma quali che fossero i moventi del suo veto, l’episodio dimostra che il Piemonte ormai era uno Stato con cui anche i suoi Re, per quanto assoluti, dovevano fare i conti.