CAPITOLO TREDICESIMO

VENEZIA: IL DECLINO POLITICO

«Noi non abbiamo più forze terrestri, non abbiamo più forze di mare, non abbiamo più alleanze, viviamo alla mercé del destino e del caso, senz’altro pensiero che la prudenza.» Sono parole di Paolo Renier, uno degli ultimi Dogi di Venezia, a conclusione di un secolo di fallimenti.

Questo secolo – il Settecento – non era cominciato male per la Serenissima. Proprio alla vigilia del Giubileo che lo inaugurava (1699), la pace di Carlowitz, una delle tante tregue dell’eterno conflitto coi Turchi, le aveva assegnato la Morea, come allora si chiamava il Peloponneso, cioè il grosso della Grecia, Egina, Santa Maura, Leucade, Zante. Questi acquisti venivano ad arrotondare un patrimonio già cospicuo: sulla terraferma, la bandiera col leone di San Marco sventolava su tutto il Veneto compresi il Friuli, Brescia, Bergamo, Belluno, e su tutta la fascia costiera dirimpettaia d’Istria, Dalmazia e Albania fino a Corfù. Sia pure ridotto, era pur sempre un impero, da cui una città di centoquarantamila abitanti, qual era allora Venezia, poteva trarre sufficiente alimento economico e politico. Purché, si capisce, la metropoli fosse riuscita a organizzarlo.

Venezia ci si provò. Forse dapprincipio ci si provò anche troppo, concentrando soprattutto i suoi sforzi sul Peloponneso. La vecchia «culla della civiltà» non era mai stata florida, ma dai lunghi secoli della dominazione ottomana emergeva in condizioni addirittura disastrose. La contrada avrebbe avuto bisogno non soltanto della buona amministrazione che Venezia tentò di darle (e in parte ci riuscì), ma anche di larghi investimenti che la strappassero alla sua condizione di area depressa. Sebbene stremata dalla precedente guerra di Creta, Venezia affrontò l’impegno. Ma proprio quando la sua opera di redenzione cominciava a dare qualche frutto, i Turchi tornarono alla riscossa. Nemmeno dopo Carlowitz le loro navi pirate avevano dato tregua a quelle veneziane. Nel 1714 la Serenissima ne catturò una, e i Turchi ne presero pretesto per dichiararle guerra.

Venezia ne aveva affrontato il rischio perché non era sola. Contro i Turchi già marciavano gli eserciti austriaci condotti dal grande Eugenio di Savoia. A questa campagna abbiamo già accennato nel capitolo sull’Alberoni, che coi Turchi trescava perché gli tenessero lontana l’Austria dall’Italia e, quando si lasciavano battere, li chiamava «bestiazze». Le occasioni per ripetere questa parola non gli mancarono perché Eugenio passò di vittoria in vittoria, e a Petervaradino riportò quella decisiva. Ma Venezia non riuscì ad approfittarne. La diplomazia turca la batté sul tempo stipulando con Vienna un armistizio che praticamente isolava la Serenissima. Questa aveva già constatato la propria impotenza. Le sue flotte invecchiate e le sue sguarnite fortezze non erano riuscite a difendere i punti-chiave di Corinto, Argo e Nauplia. I suoi residui avamposti di Creta – Suda, Spinalonga, Santa Maura – non avevano ritrovato né un Bragadin né un Morosini, ed erano caduti quasi senza resistenza.

Sebbene tuttora alleati del vincitore, i plenipotenziari di Venezia si sedettero al tavolo della pace a Passarowitz (1718) come i rappresentanti di una potenza sconfitta e senz’amici: l’Austria, ormai istallata nel cuore dei Balcani, l’aveva abbandonata, anzi già cominciava a non vedere in essa che un ostacolo alle sue ambizioni di egemonia sull’Adriatico. E quindi, invece che a rifarsi delle perdite patite, l’aiutò a subirne delle altre.

Passarowitz tolse a Venezia il Peloponneso con tutte le isole dell’Egeo e fissò in maniera definitiva i limiti del suo residuo impero. Essa ottenne qualche piccolo compenso in Albania e Dalmazia; Corfù, anche stavolta difesa con disperato impegno dall’assalto turco, divenne il suo estremo avamposto verso Sud e il Mediterraneo. La gloriosa Dominante non dominava più che l’Adriatico.

Poteva anch’essere un benefico ridimensionamento. Da quando la potenza ottomana si era affermata nel Mediterraneo orientale chiudendone tutti gli sbocchi, e le grandi correnti del traffico marittimo si erano spostate verso l’Atlantico e il Mare del Nord (i due avvenimenti erano stati quasi contemporanei e risalivano alla seconda metà del Quattrocento), il grande Impero veneziano era diventato una pura finzione, che la Serenissima aveva tenuto in piedi con uno sforzo logorante. Da oltre due secoli essa viveva al di sopra dei suoi mezzi. E in questo accanimento c’era, sì, un ammirevole orgoglio, ma anche una certa cecità. Ora che il sogno si era definitivamente dileguato, Venezia poteva affrontare realisticamente la nuova situazione e adeguarvisi. In fondo, non era una situazione disperata. Davanti, Venezia aveva ancora un mare tutto suo, l’Adriatico; e alle spalle una vasta provincia, il Veneto, fra le più floride, almeno potenzialmente, d’Italia.

Ma sarebbe occorsa una classe dirigente nuova perché quella vecchia, legata a tutt’altra esperienza, non era in grado di affrontare i problemi che ora si presentavano. Per farlo, non le mancavano soltanto gl’istituti. Gliene mancava anche la mentalità. Osserviamo un po’ meglio questo fenomeno in cui si compendia la crisi di Venezia.

Il patriziato veneziano non era uniforme. Era anzi diviso in varie categorie, differenziate per blasone e censo. Però in comune esse avevano l’origine e la vocazione. Il patrizio veneziano non era uomo di terra e d’industria come quello fiorentino e lombardo, anzi teneva queste attività in gran dispregio. Era uomo di nave e di «fondaco», marinaio e mercante, due qualità che quasi sempre si cumulavano nella stessa persona. Molti, come si suol dire, «non nascevano». Diventavano nobili grazie ai successi riportati prima come capitani di navi altrui, poi di quelle proprie, e infine come armatori di flotte, di cui erano essi stessi gli ammiragli sia in pace che in guerra, anche perché fra questa e quella non c’erano nette differenze: anche quando non c’era guerra guerreggiata, c’era sempre quella di corsa, che teneva comandanti ed equipaggi in perpetuo allenamento militare. Ecco perché la marineria veneziana fu, fino al Morosini, invincibile: perché era tutta da guerra, anche quella mercantile, e composta di uomini che passavano con la più grande disinvoltura dal pallottoliere al cannone e viceversa.

I profitti di questo commercio armato, naturalmente, erano proporzionati ai rischi. Chi riusciva a sopravvivervi, si costruiva un palazzo e si dava alla politica, che rappresentava il premio del suo coraggio, della sua accortezza e anche, si capisce, della sua fortuna. Quali conseguenze ne derivassero, è facile capire.

Anzitutto, una relativa onestà. La classe dirigente veneziana non rubava perché era composta di uomini che di arricchirsi non avevano bisogno: vi avevano già provveduto prima. Secondo, la praticità. I suoi esponenti portavano nella politica il frutto di un’esperienza intensamente vissuta, ed era questo che dava al governo e all’amministrazione veneziana quel carattere concreto e pragmatico che ne fece un modello di efficienza, cui s’ispirarono gli stessi Inglesi. Terzo, la coralità. Il potere era talmente ambito che, per evitare pericolose frustrazioni, bisognava assicurarne un bocconcino a tutti.

Per «tutti» naturalmente s’intende i nobili, perché la Costituzione era di marca dichiaratamente e oseremmo dire spudoratamente oligarchica, e solo ai nobili riconosceva la qualifica di «cittadini». Gli altri erano «sudditi», e quindi esclusi dai diritti politici. Ebbene, da un censimento del 1769 risulta che di nobili qualificati a cariche pubbliche ce n’erano 962; e di queste cariche, fra grandi e piccole, 824. Come si vede, la macchina statale di Venezia era congegnata in modo da fornire qualche posto di comando a tutti coloro che avevano i requisiti per aspirarvi. Ma tali requisiti restavano monopolio di una sola categoria, che per di più si veniva deteriorando.

Questo fenomeno era il frutto della sclerosi sociale e professionale. Finché Venezia era stata un Impero in espansione, la sua élite era rimasta aperta. Essa assorbiva, facendoli nobili, tutti coloro che si distinguevano nella conquista militare e commerciale e che, come abbiamo detto, dopo aver fatto dei traffici il loro mestiere, facevano del potere politico il loro premio di consolazione. Ma da quando era cominciata la crisi, ed essi avevano perso le flotte, i noli e i mercati, la politica era diventata non più il loro premio, ma la loro professione e industria. Ecco perché si accanivano tanto a difenderne l’esclusiva, come succedeva in tutto il resto d’Italia. Se essi riuscirono a mantenerla più a lungo, fu perché avevano validi motivi per giustificarla: la difesa della laguna.

Come abbiamo già spiegato nell’Italia del Seicento (ma lo ripetiamo perché il problema è più che mai attuale), la laguna è una distesa d’acqua mezzo dolce, mezzo salata, racchiusa fra la terraferma e il mare, da cui la separano alcuni tenui lidi di terra. Essa riposa su un equilibrio precario che, abbandonato a se stesso, non regge: o è la terra che se l’appropria col limo dei fiumi che vi sboccano, o se la fagocita il mare rompendo gli sbarramenti dei lidi. Abbiamo già detto come Venezia si salvò dal primo di questi due pericoli dirottando i tre fiumi – il Brenta, il Piave e il Sile – che sboccavano in laguna: faraonica impresa che destò la meraviglia del mondo; e più tardi diremo come nel Settecento si salvò dalla seconda. Ma una cosa risulta chiara: che Venezia, da quando è nata, ha sempre dovuto dare il primo posto, nella lista dei suoi problemi, a quello della sopravvivenza. Esso richiede un costante intervento correttivo dell’uomo sul suo ambiente che, come abbiamo detto, abbandonato alla propria naturale evoluzione, sarebbe presto sovvertito. Di qui la necessità di anteporre l’efficienza a qualsiasi altra esigenza e il prevalere, sugli strumenti politici, di quelli tecnocratici. Venezia è un esempio di «pianificazione» avanti lettera. Nulla era abbandonato al caso o al capriccio degli uomini. Più che in mano al Doge, figura puramente rappresentativa, e ai suoi Consigli che si occupavano quasi esclusivamente di politica estera e militare, la vita della città era regolata dai «Savi», cioè dai tecnici, fra i quali primeggiava quello «alle acque». Era insomma la laguna che condizionava la politica interna veneziana, imponendole un regime stabile e autoritario, capace d’intervenire con la massima prontezza a difesa del suo delicato ambiente, e in cui l’idraulico contava più dell’ideologo.

Bisogna riconoscere che a questi compiti operativi la classe dirigente veneziana fu pari anche in questo secolo di decadenza. Quando essa si accorse che, dopo la minaccia della terra sventata col dirottamento dei tre fiumi, si profilava quella del mare, l’affrontò senza lasciarsi sgomentare da costi e difficoltà. La laguna deve difendersi dal mare, ma non può farne a meno. Se esso non venisse a spazzarla con le sue quotidiane maree, le acque lagunari imputridirebbero e diventerebbero un focolaio d’infezione. Venezia non poteva quindi divorziarne sbarrando le tre bocche di porto che all’Adriatico collegano la laguna fra lido e lido. Doveva soltanto fare in modo che l’onda marina arrivasse in laguna senza carica esplosiva.

Ma col passare del tempo i lidi si erano indeboliti, e nei giorni di tempesta l’ondata li scavalcava scompaginandoli. I Savi decisero di metterli al riparo di un antemurale che facesse da frangiflutti: i cosiddetti «murazzi». Era un’opera colossale perché si estendeva per quasi sei chilometri. Ma a stupirci non sono tanto le sue dimensioni, quanto la tecnica con cui venne eseguita. I Savi si resero conto che neanche il murazzo avrebbe resistito se si fosse lasciato investire frontalmente, e perciò lo costruirono a scalini digradanti sotto la superficie dell’acqua in modo che l’onda arrivasse sulla parte emergente solo dopo essersi rotta sui suoi gradini. Non solo. Ma ricorsero anche a un materiale speciale, la pietra d’Istria, perché l’esperienza gli aveva insegnato che solo quella resisteva alla salsedine. L’impresa, iniziata nel 1744, fu portata a termine nel 1782. E ad essa deve la sua sopravvivenza, non soltanto Venezia, ma anche la sua classe dirigente: la quale anche in quel periodo di declino seppe fare più e meglio di quanto sappia fare oggi lo Stato italiano.

Altrettanto però non può dirsi della sua sagacia e lungimiranza politica. Abituata ad amministrare un Impero, essa seguitava a considerare i possedimenti di terraferma come altrettante colonie. Non riusciva a concepirli come qualcosa di organico che facesse corpo con la città. Per i governanti veneziani, la Repubblica di Venezia era soltanto Venezia. Il resto, sebbene inglobasse città vivaci, economicamente e culturalmente progredite come Padova, Treviso, Vicenza, Brescia, Bergamo, Udine, non erano che terre di conquista, proconsolati. Nemmeno col patrizio di terraferma, il patrizio veneziano si sentiva solidale. Lo trattava dall’alto in basso come un parente povero, anzi come un bastardo entrato per disgrazia in famiglia, e non gli riconosceva diritto di ammissione nel suo Libro d’oro, l’albo della categoria nobiliare, riservato alle grandi casate cittadine. Ci volle la falcidie della guerra di Creta, dove i patrizi veneziani caddero a grappoli, per consentire a quelli di terraferma d’iscrivervi il loro nome. Furono in centotrentadue a beneficiare di questo alto onore. Ma ognuno di essi dovette guadagnarselo a suon di centomila ducati, una cifra che portò alcuni di loro al fallimento. Facciamo un salto di cento anni, e veniamo al 1775. Altri quaranta patrizi di terraferma sono ammessi al Libro d’oro. La tariffa si è dimezzata. Ma dieci soli accettano di pagarla. Il Libro d’oro ha perso il suo fascino nella stessa misura in cui Venezia sta perdendo il suo peso.

Il motivo fondamentale è quello economico. «A Venezia non arrivano» scrive di questi tempi Montesquieu «che una ventina di vascelli francesi, e la maggior parte sono a nolo. Si trasporta a Venezia un po’ di zucchero dalle isole e se n’esporta un po’ di frumento. Questo pressappoco è tutto il commercio che vi si fa.» Montesquieu esagerava: la realtà era un po’ meno catastrofica di come lui la descriveva. Ma di catastrofe si trattava. Non era tanto il numero dei vascelli ch’era diminuito, quanto la destinazione dei loro carichi ch’era mutata. Un tempo essi si fermavano a Venezia, che ne rappresentava il grande «mercato» dove affluivano trafficanti di tutte le nazioni. Ora i carichi, appena sbarcati, prendevano immediatamente la via di Padova, di Verona, di Vicenza. Solo il «Fondaco dei Tedeschi» vi manteneva i suoi magazzini e uffici: tutti gli altri erano emigrati. Venezia era diventata soltanto il porto, lo sbocco al mare del suo territorio. E lo dicevano i censimenti. Nel 1760 la città contava ancora centocinquantamila abitanti. Trent’anni dopo erano ridotti a centotrentacinquemila. Emigravano per disoccupazione.

I «Savi alla Mercanzia», istituiti apposta per parare a questo salasso, facevano quel che potevano, anzi si può dire che, dopo quella della laguna, la difesa del commercio fu il maggiore assillo dei governanti veneziani, com’era logico visto ch’erano tutti di origine mercantile. Ridussero quasi a zero le tariffe doganali, un tempo fra i maggiori introiti dello Stato. Scesero ad accordi umilianti coi Bey di Tunisi e di Algeri per mettere le loro navi al riparo dagli attacchi dei pirati e renderle così più appetitose ai noleggiatori forestieri. Aprirono agenzie a Cadice e a Lisbona. Offrirono fondachi gratuiti all’Inghilterra, alla Danimarca, alla Russia. Si gettarono nella dispendiosissima costruzione di una carrozzabile per il Tirolo e di un’altra per i Grigioni. Ma era un’azione impostata più sui rimpianti che sulla realtà. Venezia non era più né più poteva ridiventare il centro di un grande Impero coloniale, qual era stata: l’Austria che le incombeva addosso da tutte le parti di terra, e i Turchi che le sbarravano il Mediterraneo, gliel’impedivano. Poteva essere solo la capitale di uno Stato veneto. Ma ci voleva lo Stato. E Venezia non seppe crearlo perché la sua classe dirigente non vedeva e non capiva che Venezia.

Questo limite si rivelò nel fallimento delle riforme economiche. Venezia non s’intendeva d’industrie perché di suo ne aveva sempre avute poche, e queste poche non erano che artigianato di lusso come i vetri di Murano. Ma nel Veneto uno sviluppo industriale c’era stato. I tessuti di Vicenza, di Padova, di Belluno, così come le armi di Brescia, ora che avevano perso i mercati orientali, avrebbero potuto cercarne degli altri in Austria, in Germania, in Svizzera. Ma questo avrebbe necessitato due cose: anzitutto una liberalizzazione degli scambi che Venezia, fermamente ancorata ai princìpi mercantilisti, rifiutava; eppoi lo smantellamento delle bardature corporative che rarefacevano la manodopera tenendone alti i salari e impedivano l’assunzione di tecnici stranieri più aggiornati. E questo, Venezia non poteva consentirlo perché la corporazione serviva alla sua classe dirigente per contentare quelle lavoratrici garantendo loro l’esclusiva del «mestiere» e svogliarle da ogni rivendicazione politica che mettesse in pericolo il suo monopolio. I Savi fecero qualche timido tentativo di liberare l’industria dai controlli che l’inceppavano. Ma non ebbero il coraggio di condurlo a termine, e così finirono per rovinare anche coloro che volevano proteggere. Già al principio del secolo Murano era in crisi: Venezia non aveva più quella cosmopolita clientela ch’era stata la maggiore acquirente dei suoi preziosi vetri. E molti artigiani, rimasti senza lavoro, emigravano in Francia e in Inghilterra che così s’impadronivano dei loro segreti. Anche la Toscana ne ospitò qualcuno e diede avvìo a una sua propria produzione.

Ma forse la bocciatura più clamorosa il patriziato veneziano la subì nel campo dell’agricoltura. Da quando i traffici si erano contratti, i nobili della Serenissima avevano cominciato a investire i loro capitali in terre dell’interno. Ma senza portarvi nessuno spirito imprenditoriale perché di terra non si erano mai intesi. Le ville che vi si costruirono erano splendide. Ma non avevano né la ronzante operosità della cascina lombarda, già diventata una piccola industria di trasformazione, né la severità amministrativa della fattoria toscana coi suoi magazzini e cantine. Erano ville e basta. Nei loro viali decorati di statue e allietati da fontane, il patrizio veneziano passeggiava coi suoi pari parlando non di fieno e di concimi o di latte e di formaggi, ma di Stato, di Gran Consiglio, di Senato, di diplomazia. Di terra non s’interessava. L’aveva comprata perché altro non gli restava in cui investire i suoi soldi, veniva a passarci qualche mese l’anno, ma non si occupava della sua gestione. La dava in appalto a degli affittuari che gli garantivano un certo cànone, e che se ne rivalevano sui salari dei braccianti.

Questo fenomeno di conversione sbagliata alla terra non era di piccole proporzioni. Nel 1740 risultava che il patriziato veneziano si era accaparrato il cinquanta per cento delle proprietà di terraferma. E cosa potesse risultare da una miscela di proprietari assenteisti, di fittavoli rapaci e di braccianti sfruttati, ci vuol poco a capirlo: un’agricoltura di rapina, refrattaria a bonifiche di fondo e a migliorie a lunga scadenza. Trasferitosi sulla terra, l’antico mercante-ammiraglio veneziano, che aveva sbalordito il mondo col suo coraggio, con la sua iniziativa, con la sua intraprendenza, si era trasformato in un pigro e assenteista redditiero.

Naturalmente, più le sue rendite diminuivano (e con quei criteri amministrativi dovevano diminuire a vista d’occhio), più cresceva la sua cupidigia di posti di potere politico e la tentazione di sfruttarli come licenze di saccheggio del pubblico denaro. La classe dirigente si corrompeva. La corruzione andava a scapito del suo prestigio. E la situazione interna ne risentiva.

Il malcontento cominciò a fermentare, e di converso s’irrigidirono le resistenze dell’autorità. Come tutte le oligarchie, quella veneziana aveva sempre avuto una polizia efficientissima. Essa faceva capo a uno speciale Consiglio, il «Consiglio dei Dieci» istituito fin dal 1310, al cui spionaggio non sfuggiva nulla. Finché la Serenissima era stata una grande potenza, quest’organo aveva assolto i compiti di un servizio d’informazioni per la sicurezza dello Stato vagliando i rapporti dei suoi agenti all’estero e tenendo sotto controllo gli stranieri e i cittadini che con essi avevano contatto. Ma da quando il rango di Venezia era scaduto, lo spionaggio era diventato solo lo strumento di difesa della casta dominante. Spregiudicato e ciaccione, violava il domicilio dei cittadini, corrompeva i servitori, apriva la corrispondenza, seguiva persino le tresche amorose (Dio sa che archivi doveva avere) per ricattarne all’occorrenza i protagonisti. Ma il suo fiscalismo si esercitava soprattutto sugl’intellettuali, come al solito i più sensibili alle nuove idee in circolazione nel mondo e pronti a diventarne il veicolo. La casta dominante capiva che, per il suo monopolio del potere, quelle idee erano dinamite.

Ma la rivolta contro il regime poliziesco ormai incubava. Verso il 1780 due patrizi, Pisani e Contarini, denunziarono pubblicamente il sistema poliziesco. Forse all’origine del loro atto d’accusa c’erano anche dei motivi personali. Essi appartenevano ai «Barnabotti», come si chiamavano quei nobili decaduti e impoveriti cui lo Stato concedeva gratuitamente un alloggio nel quartiere di San Barnaba. Ma questo non toglie nulla al loro coraggio e alla nobiltà del loro impegno novatore. Essi proposero una serie di radicali riforme intese alla revisione in senso democratico delle istituzioni, a misure fiscali che attenuassero le sperequazioni economiche e alla riduzione del potere dei Dieci. Costoro esitarono parecchio prima di reagire: la pubblica opinione aveva accolto con entusiasmo le proposte dei due ribelli, e nei sestieri popolari si respirava aria di sommossa. Ma quando la polizia, di sorpresa, fece sparire il Pisani nelle carceri di Verona e il Contarini in quelle di Càttaro, nessuno si mosse. E quell’inerzia dimostrò che, a furia di essere tenuta ai margini della vita politica, la popolazione veneziana vi aveva perso ogni interesse, ed era pronta a subire qualsiasi sopraffazione.

D’altronde, non poteva essere diversamente, vista la mancanza di una classe media in grado di fornire dei quadri a un movimento rivoluzionario, o anche semplicemente riformista. Quel po’ di borghesia che si era formata, era composta quasi esclusivamente di «statali», legatissimi alla classe dominante, di cui copiavano il costume e gli atteggiamenti. Anch’essi avevano un «libro», il Libro d’argento, in cui potevano essere iscritti solo i cittadini nati a Venezia, e proprietari di beni stabili. Formavano la media e alta burocrazia, di cui difendevano il monopolio con lo stesso spirito di casta con cui i patrizi difendevano quello politico. L’altra borghesia, quella del commercio e delle professioni liberali, composta in buona parte di Ebrei, era scaduta di numero, aveva perso il potere economico col declinare di Venezia come centro mercantile, ed era tenuta dai Dieci sotto rigoroso controllo.

I censimenti, anche se imprecisi, parlano chiaro. Verso la fine del secolo, su una popolazione di centotrentacinquemila abitanti, si contavano oltre ventitremila mendicanti e tredicimila servi. Il De Brosses vi aggiunge cervelloticamente sessantamila gondolieri, che invece erano circa quattromila. Ma è chiaro che tutto questo proletariato formava, con le famiglie, almeno i quattro quinti della cittadinanza. E il brandello di classe media che ne avanzava non trovava in esso nessuna eco alla sua ansia di riforme.

Ecco a quale mummificazione della società aveva condotto il regime oligarchico da quando, finita la grande avventura imperiale di cui era stato senza dubbio il brillante artefice e protagonista, non aveva più badato che a difendere i privilegi della casta. Esso non aveva scavato soltanto un irreparabile solco nella popolazione dividendola in due categorie – i dominanti e i dominati, i padroni e i servi – senza ceti intermedi né interessi in comune. Aveva anche contribuito a estraniare sempre più Venezia dalle altre province della Repubblica, dove invece il potere economico stava lentamente passando nelle mani di una borghesia più numerosa, attiva e sensibile alle idee di riforma. Questa classe non poteva intendersi col patriziato veneziano, che la considerava focolare e veicolo di pericolose ideologie. E anche questo impedì a Venezia di diventare un vero e proprio Stato. Ammalata di rimpianti, essa seguitò a considerarsi «la Dominante» e a trattare la terraferma come una colonia. Gli effetti si vedranno alla fine del secolo, quando questa colonia spalancherà le porte agli eserciti francesi e lascerà che la Repubblica della Serenissima venga cancellata con un tratto di penna e ridotta a sua volta a colonia, prima della Francia, poi dell’Austria.