CAPITOLO QUATTORDICESIMO

VENEZIA: FASTO E FESTE

Quanto più stringeva i freni del suo controllo politico, tanto più questo regime poliziesco li allentava in fatto di costumi. Il fenomeno è tipico degli autoritarismi che nascono nel puritanismo e muoiono nella dissolutezza, e del resto ha la sua logica: i piaceri compensano l’oppressione e contribuiscono a sopportarla. La casta dominante veneziana ne fu un’eccellente dispensatrice e regista. «Tutto in questa città» scriveva Goudar «è spettacolo, divertimento e voluttà.» Neanche la Roma di Petronio e la Bisanzio della decadenza avevano avuto un’agonia così festosa e fastosa.

Il calendario veneziano era gremito di «ricorrenze», ognuna delle quali aveva il suo rituale: mai si era assistito a una così massiccia mobilitazione di Santi e di anniversari. Si cominciava a Capodanno, quando il Doge andava in San Marco ad adorare il Santissimo, e non si sapeva chi dei due più guazzasse nei monili. Il 3 c’era la grande parata nella piazza, col Doge che incedeva in paramenti di seta e di velluto, preceduto dai trombettieri con le chiarine d’argento, protetto da un parasole d’oro, e seguito dal Clero e dalla nobiltà in alta uniforme. Le sue apparizioni si ripetevano per l’Epifania, per San Pietro Orseolo, per la traslazione di San Marco, per l’Annunciazione, e così via. Vesti, gesti, passi, movimenti: tutto era fatto per la platea che del resto rispondeva con corale entusiasmo. Le chiese non erano più chiese, ma teatri. Ognuna di esse aveva il suo Santo, ogni Santo il suo anniversario, e ogni anniversario la sua processione, cui non soltanto i parrocchiani, ma tutta la città si sentiva tenuta a intervenire.

Ma lo spettacolo più grandioso era lo Sposalizio del mare, che la Signoria inscenava il giorno dell’Ascensione, la Sensa. Celebrazione allegorica della potenza marinara della Serenissima, essa aveva acquistato in sfarzo tutto ciò che aveva perso in contenuto. Stivata sulle gondole, tutta Venezia seguiva il favoloso Bucintoro con cui il Doge attraversava la laguna e, giunto all’imboccatura del porto di San Niccolò di Lido, versava in mare un secchio di acqua benedetta dal Patriarca e pronunciava le fatidiche parole: «Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio». Il dominio non c’era più. Era rimasta la festa.

«In tutti i Paesi d’Europa» scriveva ancora Goudar «la follia del Carnevale dura pochi giorni; qui se ne gode le stravaganze sei mesi all’anno.» Con quali accorgimenti di calendario i Veneziani riuscissero a prolungarlo tanto, non sappiamo. Ma che ci riuscissero è un fatto. Il Carnevale cominciava la prima domenica d’ottobre. Faceva pausa, o per meglio dire cedeva il passo alle ricorrenze intercalate fra il Natale e l’Epifania. Riprendeva fino alla Quaresima. Dopo questa pausa imposta più dall’esaurimento fisico che dalla devozione, tornava a impazzare per la Fiera. E ogni pretesto, compresa l’elezione di qualche magistrato, era buono per ravvivarlo.

Più che una festa, era una tregua che le autorità civili e religiose accordavano al popolo per fargli meno sentire l’oppressione e le ingiustizie di cui era vittima. Ne avevano bisogno anche i nobili, che un ipocrita conformismo obbligava tuttora a una certa austerità. Essi non potevano per esempio frequentare locali pubblici, né mostrarsi con donne, così come le loro signore non potevano andare in giro senz’accompagnamento di cavalier serventi e di valletti. Il carnevale liberava tutti da queste pastoie. Il «tabarro» – nera cappa, lunga fino ai piedi – e la «bautta» – fitto velo che di sotto il tricorno ricadeva sulla faccia coprendola – parificavano ceti e sessi. Che bastassero a nascondere l’identità, ne dubitiamo. Ma era regola, da tutti scrupolosamente osservata, che nessuno riconoscesse nessuno.

Facciamo pure una tara alle descrizioni che di questa grande moratoria ci sono pervenute attraverso il teatro, la letteratura, il memorialismo, naturalmente sollecitati a lavorar di fantasia. Ma che il generale anonimato si prestasse a ogni sorta di tresche e di licenze, non c’è dubbio. Il palazzo patrizio non poteva impedire l’accesso a chi si presentasse mascherato, e figuriamoci se i plebei non ne approfittavano per irrompervi. Sotto il coperto della bautta, la monaca poteva uscire dal chiostro e la grande dama entrare in una taverna; e figuriamoci se vi rinunciavano. «Si vedono» scriveva Pietro Giannone «donne d’ogni ceto e condizione, sposate, nubili o vedove, frammischiarsi alle cortigiane, poiché la maschera rende tutti uguali, e non si danno impudicizie alle quali esse non si abbandonino con chi le desideri, giovani o vecchi.»

In queste folle promiscue passavano saltellando i personaggi della «commedia dell’arte» nei loro tradizionali costumi: il «Mattacino» dal cappello piumato che lanciava gusci d’uovo pieni d’acque odorose, il «Brighella» con le sue brache bianche a bande verdi, il «dottor Balanzone» con la sua toga nera, il sentenzioso «Magnifico» in zimarra e corsetto rosso, il variopinto e gesticoloso «Arlecchino». Ognuno poteva essere quel che voleva: un pastore, una ninfa, un guerriero tartaro. Casanova ne approfittava per essere tutto in una volta: suonatore di violino, maestro di scherma, alchimista intento a pratiche di magia, corruttore di minorenni e redentore di prostitute. Anche lui avrà lavorato di fantasia nel resoconto di queste avventure. Ma un fondo di verità c’è di certo.

L’immaginativa dei cattivi romanzieri presta a questa Venezia settecentesca una cronaca nera folta di delitti. È falso. Nonostante la maschera e la pessima illuminazione che di notte rendeva le strette e tortuose calli propizie agli agguati, la criminalità di Venezia, a detta dei visitatori stranieri, era la più bassa d’Italia. «Questa gente» scriveva Lalande «non è irrequieta né feroce, bensì gaia, mite, pacifica e facile da trattare.» Secondo De Brosses, in media non si lamentavano più di quattro omicidi l’anno.

Per le autorità, l’unica vera preoccupazione era il giuoco. Tutti erano contaminati da questo démone, che non si scatenava soltanto di Carnevale. Secondo alcuni storici, esso era nel sangue dei Veneziani per via della loro vecchia abitudine al rischio. L’armatore-mercante che, alla barra della nave, partiva col suo carico affrontando rotte infestate dai pirati e di cui non conosceva o conosceva male il tracciato, giuocava d’azzardo e ne aveva contratto il vizio. Ora che i mari gli erano preclusi, lo sfogava al tavolo del casinò.

Ce n’erano dovunque. Ma il più celebre era il Ridotto. Il governo lo teneva in vita perché era la sua più ricca fonte d’introiti. Ma alla fine si rese conto che, inghiottendo i patrimoni della nobiltà, esso la indeboliva anche politicamente, e nel 1774 ne decretò la soppressione. Il rimedio si rivelò peggiore del male. «Tutti i Veneziani» scrisse Goudar «sono caduti in una crisi d’ipocondria. I mercanti non riescono a vendere più nulla, i fabbricanti di maschere sono alla fame, e i nobili Barnabotti, che maneggiavano le carte dieci ore al giorno, hanno le mani atrofizzate. I vizi sono assolutamente necessari alla vita dello Stato.»

I rimedi furono presto trovati. Visto che il Ridotto era abolito, tutto si trasformò in Ridotto: i salotti, i circoli, i caffè, le case delle cortigiane. Il Ballarino così li descrive: «Vi si vedono mescolati dame delle maggiori famiglie e miserabili d’infima estrazione. Il procuratore Morosini e molti altri nobili signori vi si affiancano a una turba infame. In ogni angolo si giuoca al “panfilo”. Qualche donna rimasta a corto di denaro, per poter continuare a giuocare e a divertirsi, si presta apertamente al piacere di chi la vuole».

Un giuoco era diventato anche l’amore, o per meglio dire il sesso. A sentire certi memorialisti, specie nelle classi alte non c’era più un matrimonio degno di questo nome. Prendiamola pure con beneficio d’inventario. Ma è indubbio che, a leggere le cronache dell’epoca, risulta che certe parole come «fedeltà», «onore», «virtù», sono scomparse dal vocabolario, come sempre succede quando l’amore diventa galanteria.

Qualcuno dice che fu colpa delle scarpe. Fino a quasi tutto il Seicento, le dame veneziane non avevano conosciuto altra calzatura che gli zoccoli: sandali di legno che fermavano il piede con una striscia di cuoio, e le cui suole poggiavano su due supporti alti anche quindici o venti centimetri. Erano stati inventati al tempo in cui le calli, non ancora lastricate, erano piene di mota e di pozzanghere che solo su quei trampoli si potevano attraversare senza sporcarsi. Ma anche dopo la pavimentazione, le donne erano rimaste fedeli a quella moda per i ghiribizzi e le fantasie che consentiva. Al museo civico se ne conservano due esemplari, uno di quarantatré, l’altro di cinquantun centimetri: segno che, di fronte agl’imperativi e alle bizze della moda, la donna è sempre stata quell’animale conformista e senza cervello che conosciamo anche oggi. Naturalmente, arrampicate su quei trespoli non potevano uscire senz’accompagnamento di qualche famiglio che ve le sorreggesse. E questo toglieva loro ogni libertà di movimenti, e quindi anche di avventure. Ma sulla fine del secolo adottarono la scarpetta di marocchino, o di laminato d’argento, o di broccato d’oro, che, affrancandole dal seguito, le liberava anche dalla sorveglianza. E dalla libertà dei piedi nacque la libertà dei costumi.

Come paradosso, possiamo accettarlo, ma solo come paradosso. La licenza era un frutto non delle scarpe, ma della corruzione che sempre accompagna le società in decadenza. Ne erano contaminati anche i conventi che, a dire il vero, avevano smesso da un pezzo di essere le cittadelle della virtù. La società feudale rinata dalla Controriforma non tollerava la suddivisione dei patrimoni. Secondo il diritto di maggiorascato, l’intera eredità toccava al primogenito, continuatore del nome. Le femmine, rimaste senza dote, se non trovavano marito, dovevano farsi monache. Non sorrette dalla vocazione, naturalmente esse si piegavano malvolentieri al sacrificio, e molte ottenevano che le regole conventuali fossero per loro attenuate. Secondo un libello del tempo, esse ricevevano in parlatorio i loro ganzi, di Carnevale uscivano mascherate e scollate, e si servivano delle converse come mezzane delle loro tresche. De Brosses racconta che nel ’37 scoppiò una rissa fra tre monasteri che si contendevano l’onore di fornire un’amante al nuovo nunzio pontificio. Un tempo assolute padrone del mercato erotico, le cortigiane ora si lamentavano della sleale concorrenza e parecchie di esse cambiarono mestiere. «Venezia» scriveva un visitatore francese «non ha bordelli. Lo è.»

Un riflesso di questi allentati costumi lo si coglie anche nella pittura. Essa ha acquistato in grazia tutto ciò che ha perso in grandezza. Non ha più il tocco, il piglio, il respiro dei Bellini, dei Carpaccio, dei Giorgione, dei Tiziano, dei Veronese, dei Tintoretto. Pur conservandone l’eccellenza tecnica, si è adeguata alle più modeste dimensioni di una società provinciale, che ha perso il senso degli alti motivi e il gusto dei vasti orizzonti. Il Canaletto, il Guardi, il Longhi, sono anch’essi grandi maestri, ma di formato dialettale, che con minuziosa e affettuosa precisione si limitano a registrare gli aspetti più minuti e vernacoli della loro città.

Il più rappresentativo fu il Tiepolo che, per bravura di pennello e ricchezza di fantasia, può stare alla pari del Tintoretto. Ma non per il nerbo. La pittura per lui non fu mai né un problema né un tormento. Si sente che ci si dedicava con una gioia tanto più grande quanto più vaste erano le superfici che gli davano da decorare. Le sue figure, che siano donne o Madonne, Santi o guerrieri, briganti o cherubini, sprizzano buona salute. Perfino i Cristi in croce trasudano gioia di vivere. La sensualità gli faceva vedere tutto turgido, butirroso e dorato. Anche i negri, sotto il suo pennello, sembrano dei biondi passati all’hennè. Era proprio il pittore di quella Venezia gaudente che, nel presentimento del naufragio, dava fondo alle sue cambuse. Felice in tutto, nella famiglia, negli adulteri, nella salute, nella carriera, Tiepolo ne fu il perfetto interprete. E fra le altre venture, ebbe anche quella di non veder la fine di quel suo voluttuoso mondo perché morì nel 1770, onorato da tutti, grandi e piccoli.

Venezia era diventata la mecca della pittura perché il governo accordava a quest’arte una particolare protezione. Esso aveva capito l’importanza del patrimonio artistico, e fin dal secolo precedente lo aveva in certo qual modo nazionalizzato vietandone anche ai privati la vendita all’estero. Essi dovevano considerarsi i depositari, non i proprietari delle loro gallerie e pinacoteche. Non era una norma codificata. Ma i domenicani di San Giovanni e Paolo furono minacciati di morte se non rimborsavano i diciottomila ducati al mercante che da essi aveva comprato il San Pietro Martire del Tiziano. E quando – racconta il Molmenti – i Grimani si accingevano a impaccare la statua di Marco Agrippa venduta sotto banco a un collezionista forestiero, ricevettero la visita di un inquisitore che gli disse: «Il supremo tribunale, avendo appreso che il signor Marco sta per lasciare questa città, m’invia ad augurargli buon viaggio, così come a Sua Eccellenza Grimani». L’Eccellenza capì e annullò il contratto.

Nel Settecento questa pratica protezionista si tradusse in legge, e così il patrimonio artistico veneziano fu salvo. Ma il governo volle anche arricchirlo, e per questo fece condizioni di favore agli artisti aprendo per loro pubbliche accademie e incoraggiando i privati a fare altrettanto. Si dipingeva dovunque, al chiuso e all’aperto, e dovunque si esponeva: al Ponte di Rialto, in Campo San Rocco, sulle Mercerie. Il Guardi teneva le sue «personali» sotto le Procuratìe.

Un’altra attività molto incoraggiata era la musica, considerata una specie di servizio di Stato come la beneficenza. Quattro grandi conservatori infatti nacquero come «dipendenze» dei quattro grandi ospedali cittadini. I violinisti, i clavicembalisti e i cantanti che ne ottenevano il diploma erano scritturati a scatola chiusa dai grandi teatri di Francia, Inghilterra e Germania, tale era il credito di cui queste scuole godevano in tutto il mondo. A Venezia venivano a farsi consacrare «maestri» i Tartini, i Porpora, gli Scarlatti. «Fra tutte le ouvertures che ho ascoltato» scriveva il Goudar «trovo che solo un certo Vivaldi, veneziano, ha saputo esprimere qualcosa di sinfonico.» E De Brosses: «A Venezia la musica è un’incredibile passione».

Ne erano partecipi tutti: non soltanto i patrizi, che profondevano in concerti le loro ultime risorse, ma anche il popolino. Come dappertutto si dipingeva e si esponeva, così dappertutto si suonava e si cantava: motivi d’opera, oratori, canzoni popolari, sentimentali o ribalde. «Si canta nelle piazze,» scrisse Goldoni «nelle vie e sui canali; i bottegai mentre vendono la loro mercanzia, gli operai mentre lavorano, i gondolieri mentre aspettano i clienti.» Forse gli unici luoghi in cui suonare e cantare non si sentiva erano i teatri per via del baccano che facevano gli spettatori, intenti ad apostrofarsi da platea a loggione, la moglie col cicisbeo, il marito con la cortigiana, il barcaiolo con la sartina, in un volteggiare di vassoi coi sorbetti, le paste e i gotti di vino. La moglie di un ambasciatore veneziano a Parigi scriveva a una sua amica: «I teatri di qui sono molto differenti dai nostri. Figuràtevi che ci si va per stare zitti e ascoltare…».

Dell’altro teatro, quello di prosa, che fa parte di un rinnovamento culturale non soltanto veneziano, diremo a proposito di Goldoni e di Gozzi. Ma questa Venezia del Settecento doveva essere davvero una città incantevole. E, pur con tutti i loro difetti, bisogna ammirarne i governanti che, non potendo più mantenerla capitale di un Impero, riuscivano ancora a farne la capitale del piacere.