Uno dei primi Lorenesi che vennero a prender possesso di Firenze in nome del nuovo Granduca Francesco fu un certo Castelmur, che in realtà era Svizzero, ma siccome parlava tedesco, passava per Lorenese anche lui. Non aveva nulla a che fare con la politica. Si occupava di caffè, una bevanda ancora quasi sconosciuta in Italia. E per introdurvela, aprì un locale in via Calzaioli, che subito diventò il punto di raccolta dei partigiani dei Lorena.
Figuriamoci se i Fiorentini potevano rinunciare a quella bella occasione di dividersi in due fazioni. Molti rimpiangevano che l’eredità granducale non fosse toccata a Carlo di Borbone un po’ perché costui, quand’era venuto in visita da Gian Gastone, aveva suscitato molte simpatie; un po’ perché portava il nome di una dinastia che sembrava fornire ai timorati benpensanti maggiori garanzie di rispetto dello status quo. A questa categoria apparteneva soprattutto la vecchia nobiltà, spaventata dal vento di riforme che soffiava da Vienna. Ma siccome quelli loro non erano che sterili rimpianti, gli avversari li chiamavano per dileggio «gli orsi» dal proverbio popolare secondo cui «gli orsi sognano le pere».
Gli orsi reciprocavano la corbellatura dando di «lupi» ai pro-lorenesi, e ne avevano di che. I nuovi padroni infatti non facevano complimenti. Non solo si erano subito appropriate le cariche più remunerative, ma trattavano la città come una preda bellica, mettendo spicciativamente all’asta i mobili, gli arazzi, i quadri di palazzo Pitti, e le stoviglie e suppellettili delle ville medicee. Tutto fu venduto, dice un cronista, «a rotta di collo», e ai difensori del nuovo regime non rimase altro argomento che il caffè di Castelmur. Questa fu l’unica loro vittoria. Il caffè piacque moltissimo ai Fiorentini, le cui case cominciarono a riempirsi di cuccume e chicchere. Solo gli orsi si rifiutarono di convertircisi, considerandolo una delle tante diavolerie moderniste degli aborriti Lorena. Da allora l’uso del caffè diventò una dichiarazione di fede ideologica.
Francesco non si era degnato di venire a dare un’occhiata al suo Granducato, e non aveva voluto nemmeno adottarne l’ordine dinastico. Come Granduca di Toscana infatti avrebbe dovuto assumere il nome di Francesco II. Ma preferì restare Francesco III come gli sarebbe toccato in Lorena, sebbene a questo Ducato avesse ormai dovuto rinunciare in favore del Leczynski. I Fiorentini non conobbero il suo volto che dall’effigie incisa sulle monete. Ognuna di esse valeva il doppio di quelle locali, i «paoli», secondo un cambio fissato arbitrariamente a tutto vantaggio dei nuovi venuti. Attorno ai tavoli di Castelmur, i lupi – quasi tutti appartenenti alla borghesia e alle professioni liberali – avevano un bel magnificare le riforme austriache. La gente li guardava come collaborazionisti degli occupanti e complici delle loro rapine.
Solo oltre due anni dopo l’investitura, Francesco si decise a render visita alla città insieme alla moglie Maria Teresa. Gli augusti ospiti non fecero, lì per lì, cattiva impressione. Anzi, suscitarono parecchie simpatie con la loro affabilità. Visitarono i monumenti come semplici turisti, e i benpensanti furono gradevolmente sorpresi nello scoprire che Francesco, fin allora ritenuto massone e mangiapreti, conosceva molto bene la musica sacra e «cantava a cappella» in coro coi frati. La regale coppia andò anche, via Arno, a Pisa e a Livorno per raccoglierne l’omaggio, e rinunziò ai festeggiamenti programmati per il ritorno quando seppe che Ludovica era caduta ammalata. Anche questo fece buona impressione. E più ancora ne fece l’offerta, che Francesco rivolse alla vecchia elettrice Palatina, di assumere la reggenza del Granducato in suo nome. L’offerta fu declinata, ma parve a tutti generosa e cavalleresca.
Tutto si guastò al momento della partenza, quando i Fiorentini videro incolonnarsi lungo la via Bolognese un interminabile corteo di barrocci tirati da muli e buoi, e carichi del tesoro di casa Medici, che non aveva forse l’eguale in Europa. È vero che di quel tesoro il Lorena era l’erede. Ma i Fiorentini ritenevano sottinteso che fosse da considerare connesso al titolo, e quindi inamovibile. Quel brutale saccheggio li riempì di sdegno. I carri continuarono a sfilare per dieci giorni. Li seguiva soltanto Maria Teresa perché Francesco era tornato a Livorno, dove avrebbe dovuto imbarcarsi per Trieste e raggiungere l’armata imperiale in marcia nei Balcani contro i Turchi. Una libecciata gliel’impedì, obbligandolo a prendere anche lui la via Bolognese.
I Fiorentini facevano l’elenco degli oggetti scomparsi e cominciavano a guardare con simpatia Ludovica, ultima erede di una casata, da cui Firenze era sempre stata arricchita, non depredata. Fin allora essa non era mai stata molto popolare. La gente rivedeva in lei suo padre Cosimo, cui nel carattere somigliava, e aveva parteggiato per Gian Gastone quando questi l’aveva confinata nella villa di Lappeggi. Ora era tornata a palazzo Pitti e, sebbene vi conducesse una vita molto appartata, restava all’altezza del nome che portava. Riceveva i visitatori sotto un grande baldacchino nero, a lutto per l’estinta dinastia, trattandoli come se fossero ancora i suoi sudditi. Invecchiando, era diventata ancora più dura e arcigna, ma il suo tratto era rimasto regale. L’accusavano di avarizia perché non faceva mai elemosine. Ma in compenso spendeva a piene mani per condurre a compimento le opere iniziate dai suoi antenati, come la facciata di San Lorenzo disegnata da Michelangelo. Su una carrozza tirata da quattro pariglie di cavalli, andava a rovistare le botteghe di antiquariato per arricchire le collezioni di famiglia. Da buona Medici, aveva il gusto degli oggetti d’arte, e sapeva riconoscerli a prima vista.
Era per orgoglio e per non essere costretta ad avallare le ruberie lorenesi che aveva rifiutato la reggenza offertale da Francesco. Voleva che dell’ultima Medici i Fiorentini conservassero un ricordo degno del nome, e ci riuscì. Questa vecchia signora vestita di nero che discuteva da intenditrice con pittori, scultori e architetti e insieme a essi riordinava le gallerie di Pitti e degli Uffizi, faceva contrasto con la pacchianeria dei Lorenesi che valutavano i quadri solo in base alle loro dimensioni, e la metteva in risalto. Non perdeva occasione per confonderli e mortificarli con battute taglienti che facevano il giro della città suscitandovi divertiti consensi. Ma lo schiaffo più grosso ai saccheggiatori di Firenze lo dette col suo testamento, con cui lasciava alla città l’intero immenso patrimonio di famiglia: le Gallerie Pitti e Uffizi, il gabinetto delle gemme, le collezioni delle statue, dei bronzetti, delle medaglie e dei cammei, la Sacrestia Nuova di Michelangelo, le Biblioteche Laurenziana e Palatina, i reliquiari sacri. A patto che niente venisse asportato da Firenze.
Morì a settantacinque anni, nel 1743. E tutti i Fiorentini seguirono il suo feretro, compresi i lupi pro-lorenesi, compresi i mendicanti cui essa aveva rifiutato le sue elemosine. Tutti sentivano che con questa vecchia signora autoritaria e cipigliosa scompariva l’ultimo vestigio della grandezza fiorentina e si concludeva il ciclo di una cultura e di una civiltà.
Due anni dopo, il Granduca di Toscana saliva sul trono imperiale. Per la precisione, a salirci era sua moglie Maria Teresa, succeduta nel 1740 a suo padre Carlo VI grazie alla Prammatica Sanzione. Abbiamo già accennato alla complicata controversia che ne era derivata e alle difficoltà che la nuova Imperatrice aveva dovuto sormontare per essere riconosciuta come tale. Il marito diventava Imperatore di riflesso a lei, come «coadiutore degli Stati». E i Fiorentini sperarono che, così salito di rango, il loro Granduca avrebbe smesso di spolparli come aveva seguitato a fare.
Ma subito dovettero accorgersi che si trattava di pura illusione. Francesco era un parsimonioso amministratore del patrimonio di famiglia, cui aveva dovuto dar fondo per far valere i diritti suoi e di sua moglie. E ora, per colmarne le falle, appesantiva il suo fiscalismo.
Sotto gli ultimi Medici, la Toscana aveva goduto di un’amministrazione più bonaria che buona. Il fisco era ingiusto in quanto colpiva più severamente le classi povere di quelle ricche, ma non esoso. Il suo gettito era quasi tutto assorbito dagli stipendi dei funzionari che lo rimettevano in circolo. Allo Stato restavano le briciole, e al Granduca, ricco di suo, quasi nulla. Con questi criteri, la Toscana aveva progredito poco per mancanza di spirito imprenditoriale e di capitali da investire in grandi opere pubbliche, ma il suo modesto benessere era abbastanza diffuso e garantito da una burocrazia mal pagata e piuttosto inefficiente, ma accomodante e soccorrevole.
I Lorenesi istaurarono altri metodi, di rapina. Essi liquidarono tutto l’apparato amministrativo dandone i servizi in appalto ai privati. Cominciarono con le dogane e le gabelle, poi le poste, poi la zecca, poi la magona. Alla fine appaltarono anche la produzione e la distribuzione del ghiaccio, e perfino il mantenimento delle ville e i giardini medicei. Con questo sistema, eliminarono il gravame degli stipendi e dei salari. L’appalto era messo all’incanto. L’otteneva chi s’impegnava a pagarlo di più. Naturalmente il vincitore si rifaceva dell’esborso torchiando sia gl’impiegati che gli utenti. Erano costoro, in definitiva, a fare le spese di un sistema che mirava ad assicurare il più largo margine di utile a due soli beneficiari: l’appaltatore e lo Stato, cioè il Granduca: un Granduca che a Firenze non si era fatto più vedere e ne risucchiava tutte le rendite a Vienna. Secondo alcuni economisti, era il sessanta per cento del reddito lordo toscano che prendeva quella strada: un salasso da mettere in ginocchio anche l’economia di un Paese florido, quale la Toscana non era.
A regolare questo predatorio meccanismo, Francesco aveva designato un «reggente» che dapprincipio fu il Principe di Craon. Non aveva altro merito che quello di essere stato precettore del Lorena e di avergli combinato il matrimonio con Maria Teresa. I Fiorentini l’odiavano considerandolo il responsabile del saccheggio. In realtà era un buon diavolo che, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto disobbedire agli ordini del suo avido sovrano. E gli stessi suoi denigratori furono costretti a rimpiangerlo, quando il suo posto fu preso prima dal Richecourt e poi dal Botta-Adorno.
Pur di origine italiana, costui aveva fatto tutta la sua carriera, fino al grado di Maresciallo, nell’esercito imperiale. Anzi, era stato lui il comandante di quel corpo di spedizione austriaco che i Genovesi, guidati da Balilla, avevano scacciato a sassate dalla loro città. La situazione che trovò a Firenze non era delle più invitanti. Se il Craon si era limitato a soddisfare l’appetito del Granduca, il Richecourt vi aveva aggiunto il suo facendo tale man bassa che, calato in Toscana «coi buchi nelle calze», ne era ripartito con un patrimonio di oltre cinquecentomila ducati. La città non ne poteva più di questi salassi, il malcontento dilagava, ma il Botta-Adorno non era uomo da preoccuparsene. A differenza del suo predecessore, non era ladro. Ma era un ottuso esecutore di ordini, un uomo di caserma, senza intuito politico né capacità amministrative. Quando la Toscana fu investita dalla carestia del ’64, non seppe inventare nulla per farvi fronte. L’unica sua preoccupazione fu l’ordine pubblico. La gente morisse pure di fame, ma non calpestasse le aiuole. E quando il Granduca gli chiese, oltre quello di soldi, un tributo di uomini da arruolare nei suoi eserciti, egli non esitò a requisirli provocando una massiccia fuga di contadini nei vicini Stati pontifici. «Per lui» scrisse un cronista «i Toscani contano per un di più.» Non solo li voleva docili. Ma pretendeva anche che si associassero ai fasti e ai nefasti della famiglia regnante, condividendo la gioia delle culle che la rallegravano e il dolore delle bare che l’attristavano.
Solo nel ’65 i Fiorentini soddisfecero questa sua pretesa: quando da Vienna giunse l’annunzio che il Granducato avrebbe avuto non più un reggente, ma un vero e proprio titolare. Questi, secondo l’impegno della «secondogenitura» contratto anche dall’Austria ad Aquisgrana, avrebbe dovuto essere Carlo Giuseppe, ch’era appunto il secondogenito della dinastia. Ma il giovane Principe era morto, e quindi la Toscana sarebbe toccata al terzogenito Pietro Leopoldo, che altrimenti avrebbe dovuto contentarsi del Ducato di Modena e Massa.
Sebbene non avesse che diciassette anni, si provvide subito ad accasarlo con l’Infanta di Spagna, Maria Luisa. Come quasi sempre capitava in questi matrimoni reali, i due giovani non si conoscevano. Si videro per la prima volta quando s’incontrarono a Innsbruck per le nozze, e a quanto pare si piacquero, sebbene la loro luna di miele cominciasse male assai: prima con una colite da parte di lui, che l’obbligò a disertare il letto coniugale; poi per l’improvvisa morte dell’imperatore Francesco, stroncato da un infarto mentre tornava da teatro.
Per quest’ultimo lugubre evento, il Botta-Adorno avrebbe voluto che i Fiorentini prendessero il lutto. Essi invece non nascosero la loro contentezza un po’ perché di Francesco avevano poco da rimpiangere, un po’ perché la sua scomparsa affrettava e rendeva più radicale il gran cambiamento. Vivo suo padre, Pietro Leopoldo avrebbe dovuto contentarsi del titolo di governatore generale. Ora invece poteva assumere senz’altro quello di Nono Granduca e assoluto Signore di Toscana.
I Fiorentini non sapevano nulla di lui. Ma speravano che un Granduca residente in Toscana e senz’altro titolo che quello di Toscana, avrebbe finito per sentirsi solidale con la Toscana e per farne gl’interessi.