Vittorio Alfieri appartiene al Settecento solo per ragioni anagrafiche. In realtà non ha nulla a che fare con questo secolo, e ne resta in disparte senza riuscire a inquadrarvisi. La sua statura di artista non è eccelsa. Ma la sua personalità sovrasta di gran lunga quella di tutti i suoi contemporanei. Fra tante comparse, è dei pochissimi che abbia stoffa di protagonista, anche se non riuscì a diventarlo.
Era nato ad Asti nel ’49 da una delle più nobili famiglie piemontesi, il cui albero genealogico affondava le radici nel 1200. Ai suoi tempi il blasone comportava grossi vantaggi, ma anche qualche inconveniente. Coloro ch’erano destinati a fregiarsene, venivano sottoposti da ragazzi a una disciplina da caserma. In casa Alfieri, non ricchissima, ma molto agiata, non mancava nulla, meno la tenerezza. Vittorio perse il padre quando era ancora in fasce, e sua madre la vide di rado. Costei, una Maillard de Tournon, aveva già avuto un marito prima di Alfieri, e dopo di lui ne ebbe un altro, cugino del morto. A Vittorio aveva dato una sorellina, Giulia, e sei fratellastri – tre del primo, tre del terzo matrimonio –, ma niente altro, o ben poco. Era molto più Contessa che madre.
Il ragazzo venne affidato a un precettore, don Ivaldi, con la raccomandazione di «non farne un dottorino» perché la cultura era considerata un attributo incompatibile con la nobiltà. Ma la raccomandazione era superflua perché don Ivaldi, che riceveva lo stesso stipendio del cocchiere, ne sapeva poco più dell’allievo. Questi concepì per quel tipo di educazione un odio che più tardi doveva scoppiare in invettive violente, e crebbe solitario e scontroso in un deserto di affetti. A otto anni tentò di suicidarsi mangiando certe erbe che gli procurarono solo un po’ di dissenteria. Ma forse nel gesto c’era più esibizionismo che disperazione. Quando, dopo una confessione, il prete gl’impose come penitenza di prosternarsi alla madre e di chiederle perdono alla presenza di tutti, vi si rifiutò, fu severamente punito, e da allora non si riconciliò più con la Chiesa.
Lo zio paterno, ch’era anche suo tutore, capì lo stato d’animo del nipote, e impose alla cognata di mandarlo all’Accademia militare di Torino. Il ragazzo ci arrivò smunto e talmente coperto di foruncoli e di eczemi che i compagni, con squisito tatto, gli appiopparono il soprannome di «carogna fradicia». Il loro dileggio stimolò il suo spirito di emulazione. A tredici anni era già iscritto all’Accademia e a quattordici raggiunse l’indipendenza economica grazie all’eredità dello zio tutore, morto improvvisamente.
La legge piemontese consentiva al minorenne di percepire le rendite, e Vittorio ne approfittò largamente. Si concesse un appartamento da scapolo, un maggiordomo – Francesco Elia – destinato a fargli per decenni da compagno, confidente e infermiere, e una scuderia. Aveva deciso di far l’ufficiale di cavalleria. Ma subito si accorse che la disciplina militare era inconciliabile con la sua dirompente smania di libertà, e preferì imbrancarsi con due suoi coetanei, un Belga e un Olandese che, guidati da un mentore inglese, stavano esplorando l’Italia. Seguito dall’erculeo, paziente, fedelissimo servitore, Vittorio cominciò a scendere con loro verso Milano, Parma, Modena, Bologna. Ma di queste città si rifiutò di visitare insieme agli altri i monumenti. Non gl’interessavano. Il viaggio per lui era soltanto una fuga: più che di arrivare, smaniava di partire. Solo Firenze lo sedusse, e Roma addirittura lo conquistò. A Napoli fu presentato a re Ferdinando, da buon aristocratico piemontese rimase sconcertato dalla ciabattoneria di quella Corte, tornò per conto proprio nell’Urbe, andò a baciar la pantofola a papa Clemente XIII, e riprese la sua forsennata corsa attraverso la Penisola. Nemmeno le donne di cui ogni tanto s’innamorava o credeva d’innamorarsi riuscivano a placare questo suo delirio psicomotorio. Da Venezia a Genova, da Genova a Marsiglia, da Marsiglia a Parigi, che gli fece l’effetto di una «fetente cloaca» forse perché re Luigi XV, cui l’ambasciatore piemontese lo presentò, non lo guardò nemmeno, e infine eccolo a Londra.
Più che la città, lo incantò il paesaggio inglese: i grandi boschi propizi alle lunghe solitarie cavalcate, i tenui colori del loro fogliame, e i parchi così diversi dai giardini italiani, impreziositi e coartati dalla mano dell’uomo. Alfieri rimarrà sempre sordo alle pietre, ai monumenti, alle architetture, e sensibilissimo invece alla natura.
Anche dell’Olanda, dove trasmigrò subito dopo, gli piacque tutto, e per le stesse ragioni. Gli piacque anche una paffuta e languida Baronessa, il cui marito accettò di buon grado la collaborazione di questo latin lover alla pace coniugale. Alfieri visse con loro, li seguì nelle stazioni termali, e quando fu costretto a separarsene decise per la seconda volta di suicidarsi. Si fece fare un salasso da un medico, e poi si strappò le bende per morire dissanguato. Elia, che se l’aspettava, lo immobilizzò, lo ricaricò in carrozza, e attraverso Belgio, Alsazia, Lorena, lo ritrascinò dalla sorella in Piemonte, dove a quel corpo inerte e muto occorsero parecchie settimane per ritrovare la parola e un po’ di voglia di vivere.
Avendo raggiunto i vent’anni, poteva disporre di tutto il patrimonio, e si accorse ch’era molto più cospicuo di quanto il suo amministratore, per tenerlo in freno, gli avesse fatto credere. Fu sfiorato dalla tentazione di «sistemarsi», e ci si provò. Aveva tutto per diventare il protagonista della vita mondana torinese: portava un gran nome, era ricco, era bello e contento di esserlo. Indossava abiti ricercati che sottolineavano l’eleganza della sua alta e asciutta figura, sovrastata da una fulva chioma, di cui andava particolarmente fiero. Decise di sposare un’ereditiera di alto lignaggio, ma costei rifiutò. Alfieri aveva l’approccio facile con le donne, che lì per lì non resistevano mai alla furia della sua passione, vera o immaginaria che fosse. Ma non ce ne fu mai una che riuscisse a sopportarlo a lungo e gli restasse fedele. Le sue pose, il suo egocentrismo, le sue crisi isteriche che rasentavano l’epilessia, e forse lo erano, le spaventavano. Capivano che quell’amante non amava che se stesso e in loro cercava soltanto la propria esaltazione. Il personaggio era già delineato.
Per qualche settimana s’immerse nella lettura dei libri che si era portato al seguito dai suoi viaggi. Anzi, eccessivo com’era in tutto, vi sprofondò: la sua cultura sarà sempre tutta fatta di grandi indigestioni intervallate da lunghi digiuni, e si sente. Divorò gli enciclopedisti francesi (senza trarne, a quanto risulta, gran profitto), ma a entusiasmarlo fu Plutarco che suscitò in lui «un trasporto di grida, di pianti e di furori», com’era logico, visto che lì si trovava fra «eroi», lui che smaniava di diventarlo, anzi era convinto di esserlo già.
Ma si stufò presto, e ripartì, sempre seguito dal fedele Elia, per uno di quei suoi viaggi senza itinerario. Passò da Vienna, dove non volle incontrare il Metastasio perché lo vide genuflettersi davanti a Maria Teresa, proseguì per Budapest, Praga e Berlino, che gli parve una detestabile caserma (qual era), ma dove si fece presentare a Federico II, attraversò la Danimarca, e passò in Svezia. Questo paese disabitato e silente, coi suoi «lagoni crostati» e le sue «cupe selvone», lo incantò. Nell’amore per questi sfondi funerei, egli già riecheggiava Ossian (senz’averlo ancora letto) e anticipava Foscolo. Si appassionò alla slitta «con furore» (questa è la parola che più spesso ricorre nella sua autobiografia, e sempre pronunciata in tono di compiacimento), a bordo di una di esse risalì verso la Lapponia, passò in Finlandia che gli piacque ancora di più, attraversò la Carelia, e si spinse in Russia fino a Pietroburgo. Il Ministro piemontese gli offrì di presentarlo alla grande Caterina. Rifiutò. Detestava quella «Clitennestra filosofessa» e la Russia gli fece l’effetto di un «asiatico accampamento di allineate trabacche»: gli andarono a genio solo le criniere dei cavalli e le barbe degli uomini. Riprese la strada dell’Occidente per Danzica, Colonia e Spa. La nostalgia della Baronessa lo richiamò in Olanda. Ma la Baronessa non c’era. C’era invece ancora il vecchio amico d’Acunha, ambasciatore del Portogallo, uno dei pochi che riuscivano a sopportare gli sbalzi del suo umore.
Rimase con lui due mesi. Poi rieccolo a Londra. Già nel precedente viaggio vi aveva conosciuto una dama di alto lignaggio, Penelope Pitt, figlia del grande statista e moglie di Lord Ligonier. La ricercò, la sottopose a uno dei suoi soliti «furiosi» corteggiamenti che la disponibilità della signora rendeva assolutamente superfluo, ma stavolta dovette vedersela con un marito non altrettanto arrendevole. Penelope fu esiliata in campagna a sedici miglia da Londra, ma la distanza era troppo modesta per scoraggiare un cavalcatore della resistenza di Alfieri, cui anzi le galoppate notturne nel bosco, il rischio, l’intrigo, facevano da catalizzatore. Più che la donna forse gli piaceva proprio la difficoltà dell’approccio, il rischio, il segreto, che gli davano l’impressione di vivere un romanzo di cappa e spada. Una volta, nel saltare una staccionata, si ruppe una spalla. Raggiunse ugualmente l’amante, trascorse con lei la notte spasimando insieme di piacere e di dolore; e l’indomani sera, col braccio al collo, andò a teatro. Durante la rappresentazione un inserviente venne a chiamarlo. Uscì dal palco e si trovò a faccia a faccia con Lord Ligonier, che lo invitò a seguirlo in Hyde Park; ma poi, vedendolo minorato, rinunciò a battersi con lui. Non vi rinunciò invece Alfieri, sebbene fosse anche un pessimo spadaccino. Con molta cavalleria Ligonier si limitò a toccargli il braccio di striscio, e se ne andò. Alfieri corse da una parente di Penelope per sentire cos’era successo. Ci trovò lei stessa, cacciata di casa dal marito. Le chiese di sposarlo, ma lei rifiutò. L’indomani lesse sul giornale una cronaca che riportava «le funeste e risibili cause di divorzio tra Lord Ligonier e Penelope Pitt con le confessioni del lacché che da tre anni gode i favori della padrona». Penelope se lo vide ricomparir davanti stravolto, urlante e in preda a vere e proprie convulsioni. La scenata continuò senza pause tre giorni e tre notti. Poi insieme partirono per una lunga luna di miele che tuttavia non dette i frutti sperati. A Rochester si separarono. Lei trasmigrò in Francia, lui in Olanda e di lì a Parigi dove si rifiutò d’incontrare Rousseau per timore di esserne accolto con superbia.
Proseguì per la Spagna col fido Elia e con una raccolta dei versi di Ossian. Finalmente aveva scoperto il «suo» poeta, e quando seppe abbastanza di spagnolo per leggere il Don Chisciotte, scoprì anche il suo progenitore, ma forse non lo riconobbe. Eppure, quella che attraversava la drammatica e solenne meseta castigliana era proprio una coppia da Cervantes: lui in sella a un puledro andaluso, Elia trotticchiante al suo fianco a bordo d’un muletto. In una locanda di Madrid scoppiò fra i due una mezza tragedia perché Elia, nel pettinarlo, gli tirò una ciocca. Furibondo, Alfieri gli spaccò la testa con un candeliere d’argento. Il servo saltò addosso al padrone che snudò la spada. Li divisero i camerieri accorsi allo strepito. L’indomani ripresero la strada come se nulla fosse avvenuto, salvo il buco sulla testa di Elia coperta di garze. Alfieri ebbe il suo castigo a Cadice dove, in attesa d’imbarcarsi per Genova, conobbe una ragazza che gli attaccò la blenorragia: un male di cui allora era difficile guarire.
Aprì di nuovo casa a Torino, pieno di buoni propositi sedentari, e naturalmente provvide subito a equipaggiarsi di cavalli e di un’amante. Ma ci doveva essere in lui qualche deficienza di alcova perché anche la marchesa Turinetti, sebbene avesse una diecina d’anni più di lui, cominciò subito a tradirlo. Anch’essa ebbe il suo castigo quando si ammalò di un male «di cui forse» dice Alfieri «poteva esser stato io la cagione», ipotesi più che verosimile. Fu mentre la curava con trepida abnegazione ch’egli avrebbe concepito, ispirandosi agli arazzi egiziani che tappezzavano la casa, il suo primo componimento: la tragedia Cleopatra.
Quando la fece leggere a un amico prete, questi vi trovò parecchi errori di grammatica e di sintassi, ma ciò non impedì a un capocomico di rappresentare il lavoro al Carignano, dove ottenne un modesto successo. Ma ad Alfieri sembrò un trionfo. Convinto di aver trovato la propria vocazione, disse addio al mondo, compresa la signora Martin che aveva rimpiazzato la Marchesa e, rifugiatosi in campagna, sprofondò nella letteratura. Per non distrarsene, racconta, si faceva legare alla sedia da Elia, e ci crediamo senz’altro perché questi gesti facevano parte del suo repertorio, e anche le parole che dice di aver pronunciato – «volli, sempre volli, fortissimamente volli» – vi s’intonano alla perfezione. Ma per scrivere Filippo e Polinice, dovette ricorrere al francese perché si accorse di non conoscere abbastanza bene l’italiano. E allora decise di andare in Toscana a impararlo. Passando per Modena, s’innamorò di Bianchina Tari Jacopi; a Pisa, di Sandrina Gnolari. Ma il grande e decisivo incontro lo fece a Firenze.
Luisa Stolberg era una gentildonna austriaca di grande famiglia imparentata anche agli Asburgo, ma di pochi mezzi. Non avendo dote, era stata destinata al convento, quando cadde sotto gli occhi di Carlo Stuart, Conte d’Albany, ultimo epigono della dinastia che per quattro generazioni aveva regnato in Inghilterra e tuttora pretendente al trono di Londra. Carlo aveva trentadue anni più di lei, ma portava un gran nome, riceveva dal governo francese un cospicuo appannaggio, e insomma era molto meglio del convento. Si sposarono.
Alfieri era in uno dei suoi momenti di maggior felicità creativa. Non badava all’originalità degli spunti. Li prendeva dove li trovava: da Tito Livio derivò il soggetto di Virginia, da Seneca quelli di Agamennone e Oreste, da Machiavelli l’ispirazione (e lo stile) per il saggio sulla Tirannide. Questo però non gl’impediva di tenere una scuderia con otto cavalli e di seguitare a condurre una vita da gran signore. Sebbene spasimoso di gloria letteraria, coi letterati se la faceva poco, condivideva nei loro confronti i pregiudizi della sua casta, non si dimenticava mai di essere il Conte Alfieri. Insomma, era uno snob.
Egli dice di essere rimasto conquistato non solo «dagli occhi nerissimi con candidissima pelle e biondi capelli» della Contessa, ma anche dalla sua intelligenza e cultura. Ci pare difficile. Di lineamenti pesanti e piuttosto volgari, Luisa non era bella, aveva poca testa e cattivo carattere. Ma era una Stolberg, moglie di uno Stuart. Per starle vicino, Alfieri cedette tutto il suo patrimonio alla sorella in cambio di un cospicuo vitalizio annuo, che poi fu occasione d’infiniti dissapori fra i due. Alfieri era generoso solo con se stesso e coi cavalli. Con tutti gli altri era avaro, trattava malissimo i servi, evadeva il fisco con mille sotterfugi, e ora aveva più che mai bisogno di denaro per far fronte a una «relazione» con una donna di esigenze pari al suo rango, avida, frivola e vanitosa.
Per due anni lo Stuart non se n’accorse, o finse di non accorgersene. I costumi del tempo ammettevano il «cavalier servente», e Alfieri cercò di farlo nel miglior modo possibile, sebbene la parte gli fosse poco congeniale. Come garçonnière i due amanti avevano un convento, dove Luisa diceva di andare a prender lezioni di ricamo. Poi tra marito e moglie scoppiò una scenata, lui cercò di strangolarla, e lei fuggì a Roma mettendosi sotto la protezione del cognato, il Cardinale di York, che odiava il fratello. Anche il Papa e il granduca Leopoldo di Toscana considerarono Luisa la calunniata vittima di uno sposo brutale.
Ma a disingannarli fu lo stesso Alfieri che la raggiunse poco dopo. Lungi dal salvare le apparenze, egli ostentò i suoi rapporti con lei. Il Papa, il Granduca e il Cardinale, che frattanto si era riconciliato con Carlo, si sentirono corbellati, e Alfieri dovette sloggiare. Partendo, lanciò un sonetto di dileggio al Papa, e un giovane poeta di nome Vincenzo Monti ne approfittò per guadagnarsi dei meriti agli occhi della Chiesa rispondendogli – è il caso di dirlo – per le rime.
Fu per Alfieri un brutto momento. Con Luisa, tutto sembrava finito. I primi due volumi delle sue tragedie erano stati accolti freddamente: i pochi che ne avevano parlato, meno il Calzabigi, lo avevano fatto in termini dispregiativi. Alfieri si era trasferito a Siena dal suo vecchio amico Gori Gandellini. Proseguì per Padova, Venezia e Torino. Tornò a Firenze solo per ricorreggere le sue opere. Poi riprese a vagabondare per Francia e Inghilterra, e al ritorno fece sosta a Torino per visitare la madre che non vedeva da anni e per farsi presentare al nuovo Re, Vittorio Amedeo II, che lo accolse come un figliol prodigo tornato all’ovile.
Ma quell’ovile non era per lui. Quando seppe che Luisa aveva finalmente ottenuto la separazione dal marito e il permesso di recarsi a Baden, rifece precipitosamente le valigie, ma non per incontrare lei. Nel frattempo si era innamorato di una signora veneziana conosciuta a Pisa, Alba Vendramin Correr, e fu da lei che tornò. Luisa la raggiunse più tardi, a Baden, e dopo sedici mesi di separazione fu un’altra luna di miele. Mentre lei «passava le acque», lui componeva di getto la sua tragedia migliore, il Saul, e buttava giù il canovaccio della Mirra, della Sofonisba e dell’Agide. Unica nota di mestizia in quel felice intermezzo, la notizia della morte di Gori, alla cui memoria egli dedicò un dialogo su La virtù sconosciuta.
Poi i due decisero di prendersi una vacanza. Lei andò a Parigi, lui tornò a Pisa dalla Vendramin. Non c’è da rinfacciargli questa infedeltà perché Luisa gliela ricambiava con gl’interessi, e da sempre. Per sorvegliarla, egli le aveva messo alle costole Elia. Ed Elia un giorno era tornato a dirgli che la Contessa lo aveva licenziato perché lui l’aveva sorpresa a letto con un altro. Per tutto ringraziamento, anche Alfieri lo licenziò, sia pure con una buona pensione, ingiungendogli di tornare a Torino e di tener la bocca chiusa. Il devoto e paziente servitore non l’aprì nemmeno quando il suo ex padrone smise di passargli l’assegno. La strana coppia si tenne unita a furia di tenersi slegata, ognuno vagabondando per proprio conto e ritrovandosi solo a lunghi intervalli. Anche quando decisero di stabilirsi a Parigi, presero casa in quartieri diversi e lontani. Con la scusa di farsi dare lezioni di disegno, lei si prese per amante il pittore Fabre, ma cercò ugualmente di aiutare Alfieri aprendo un salotto letterario, dove si riunivano Giuseppe Chénier, il fratello di Andrea, lo scultore David, Ippolito Pindemonte, e qualche volta Giuseppina Beauharnais, la futura moglie di Napoleone. Lo frequentava anche Madame de Staël, che considerava Alfieri un talento mediocre e Luisa una testolina vuota, ma bravissima come agente pubblicitaria del suo Vittorio sul cui piedestallo sperava d’innalzare anche se stessa.
La speranza andò per il momento delusa. Stampate in francese dall’editore Didot, le tragedie di Alfieri non suscitarono, nella patria di Corneille e di Racine, che sorrisetti di compatimento. Ma la seconda edizione andò meglio: non solo perché purgata degli svarioni sintattici che costellavano la prima, ma anche perché i tempi erano cambiati. Il popolo parigino era sceso per le strade, aveva incendiato la Bastiglia, teneva prigioniero il Re, in aria si respirava odor di sangue, e a quel clima corrusco le tragedie alfieriane s’intonavano bene.
Come Goldoni, neanche Alfieri s’era accorto della rivoluzione. Cominciò a capirla solo il giorno in cui, al termine di una delle sue solite scenate, il segretario Polidori si licenziò urlandogli: «È finita l’epoca dei tiranni!». Contro i tiranni, Alfieri aveva scritto un trattato. Ma la tirannia ch’egli denunziava era quella degli altri. Ne aveva salutato la fine con un’ode a Parigi sbastigliata. Ma nel vedere contestata la sua, mutò atteggiamento. Probabilmente v’influirono anche motivi d’interesse. Fra i beni che lo zio gli aveva lasciato ce n’erano anche di francesi che gli fruttavano una buona rendita. Il governo rivoluzionario glieli confiscò nello stesso momento in cui aboliva la pensione che fin allora la Corte aveva passato a Luisa come moglie dello Stuart. Alfieri era ancora ricco, ma lo era meno di prima, e questo non lo lasciava indifferente. Tuttavia in nessun caso avrebbe potuto simpatizzare con una rivoluzione che «puzzava di stalla» e che fra i suoi traguardi poneva quello dell’uguaglianza. Alfieri non voleva essere uguale a nessuno e non accettava che qualcuno si considerasse uguale ad Alfieri.
Nel ’93, dopo che la ghigliottina si era abbattuta sulla testa del Re e della Regina, decisero di lasciare Parigi. Sebbene entrambi stranieri, incontrarono parecchie difficoltà a ottenere i passaporti. Alfieri dice che addirittura «volevano arrestare la Contessa perché ricca, nobile e illibata». L’illibatezza di Luisa, che si era presa al seguito anche il Fabre, la conosciamo. Quanto all’arresto, non ne fu mai minacciata.
Dopo una sosta a Bruxelles, si stabilirono a Firenze. La città accolse bene Alfieri, applaudì il Saul, il Bruto e il Filippo che vi furono rappresentati, ma tenne il broncio a Luisa che vi aveva lasciato cattivi ricordi. La chiamavano «la comare» per i suoi intrighi, e D’Azeglio, Brofferio, Capponi, e Foscolo concordano nel considerarla volgare e infida.
Alfieri lavorava alla sua autobiografia, che aveva cominciato a scrivere tre anni prima a Parigi. Un po’ la presenza di Fabre, un po’ la declinante salute, un po’ i fastidi che gli procurava l’incerta sorte delle sue rendite piemontesi ora che a Torino era arrivato Napoleone e vi aveva instaurato un regime che ricalcava quello parigino, incupivano il suo già scontroso carattere. Cercò consolazione in una nuova amante di cui non conosciamo il nome, ma a cui dedicò alcuni sonetti. Nel ’99, quando i Francesi arrivarono anche a Firenze, egli preferì non farcisi trovare, e si trasferì con Luisa (e il solito Fabre) in campagna.
L’ultimo anno fu un tormento. Non riusciva più a scrivere, che da un pezzo ormai era diventata la sua unica occupazione e consolazione. Sentiva di essere a malapena sopportato da Luisa, di cui tuttavia, un po’ per cavalleria, un po’ per orgoglio, seguitò a difendere il buon nome nelle lettere agli amici e nelle sue memorie, vantandone la purezza e la devozione. Nell’ottobre del 1803 la morte lo colse nel sonno per un attacco d’uricemia. E Luisa, che per testamento ne ereditò tutte le sostanze, dimostrò al morto un attaccamento che da vivo gli aveva lesinato. Fece celebrare cento messe in suffragio della sua anima, commissionò un monumento al Canova, e curò con molto impegno l’edizione di tutte le sue opere. Nello stesso tempo tuttavia cercò di farsi ridare dalla Francia la pensione in cambio di tutti i manoscritti «dell’immortale Vittorio Alfieri», che il defunto aveva lasciato al Comune di Asti, e che alla fine furono ereditati dal Fabre, il quale a sua volta li lasciò al museo di Montpellier. Sino alla morte, Luisa seguiterà a far la vestale della gloria di Alfieri. Ma solo perché la considerava una parte della propria eredità.
La fine di Alfieri non fu considerata un avvenimento. Un po’ perché di avvenimenti ce n’erano, in quel convulso infuriare di guerre, di ben più grossi. E un po’ perché di Alfieri i contemporanei si erano poco accorti. Non era stato un illuminista perché non si era mai interessato ai problemi della società, né aveva mai creduto al potere demiurgico delle monarchie assolute di perseguire il progresso nelle riforme. E non era mai stato nemmeno un rivoluzionario perché non credeva nel popolo e nella sua capacità di autogovernarsi. Questa era una problematica che lo lasciava del tutto indifferente, e perciò era rimasto estraneo a un secolo che invece vi si era profondamente appassionato. Non ebbe relazioni con gl’intellettuali del suo tempo, non frequentò i loro cenacoli, e dopo che l’Arcadia di Roma l’ebbe invitato a leggere il Saul, egli la definì (non senza qualche ragione) «un branco d’idioti».
Alfieri fu riscoperto dai romantici dell’Ottocento, che lo esaltarono come il loro caposcuola. Ma anche questa era un’illusione ottica. Coi romantici Alfieri ebbe in comune qualcosa: il senso della natura e la smania dell’elsewhere, dell’altrove, ma non i grandi ideali. Non condivise con loro nemmeno quello della libertà, perché l’unica libertà che lo interessava era la sua. Alfieri era soltanto un ribelle. E pur da morto seguita a restarlo a tutto, anche all’etichette che via via hanno cercato di appioppargli.
L’unica che caso mai gli convenga è quella di «decadente», che poi ha avuto i suoi continuatori nei Foscolo, nei Byron, nei D’Annunzio, e giù giù – malgrado certe contrarie apparenze – fino agli Hemingway e ai Malraux: tutte incarnazioni dello stesso eroe. Egli inaugura un nuovo personaggio letterario: il «poeta-vate». Questo, Alfieri volle essere, e in un certo senso riuscì a diventare nella sua autobiografia, la sua opera meglio riuscita, che ci dà il ritratto non dell’uomo qual era, ma del modello a cui s’ispirava. Vernon Lee ha ragione di chiamarlo «un posatore». I personaggi di questa pasta lo sono tutti. La loro verità umana sta proprio nella posa che assumono di solitari Prometei in rivolta contro l’ordine costituito nel nome non di qualche definito ideale, ma solo della propria personalità.
Alfieri era un egocentrico che, prima ancora di scriverle, volle vivere le sue tragedie, i cui protagonisti infatti si somigliano tutti perché tutti somigliano a lui, e anche per questo non valgono molto. Alcuni critici puntigliosi dicono ch’egli non conosceva nemmeno la storia in cui andava a pescarli. Ma questo non vorrebbe dir nulla: nemmeno Schiller conosceva bene la storia di Filippo II, eppure nel suo Don Carlos ne scolpì un ritratto icastico, anche se del tutto arbitrario. Le pecche di Alfieri sono altre. Sono la monotonia dei suoi personaggi, che si riducono quasi sempre al protagonista e all’antagonista, e la sommarietà e rozzezza dei loro contrasti. Non uomini con le loro sfumature e ambiguità, ma incarnazioni del Bene e del Male, essi si affrontano sempre nel momento in cui le loro passioni toccano il parossismo, sono «urlatori» che si battono a monologhi filosofeggianti senza darsi tregua né darne all’ascoltatore. Tutti i vizi di Alfieri vi sono facilmente riconoscibili: la sua cultura a singhiozzo, la sua scarsa padronanza della lingua, la sua «furia» declamatoria. Alfieri è il più grande drammaturgo italiano per la stessa ragione per cui Goldoni è il più grande commediografo: cioè perché l’Italia non ne aveva altri.
Per parlarci con sincerità, ci sembra che del suo teatro, come delle sue satire e dei suoi saggi ideologici, non rimanga nulla di vivo. Rimane solo la sua autobiografia perché rimane il personaggio. Alfieri fu un grande carattere: costruito, contraddittorio, prepotente, insolente, esibizionista, prevaricatore, ossessivo, gigione, non privo di miserie morali; ma affascinante perché macroscopico in tutto, anche nei difetti. In un’Italia meschina come quella del Settecento, sembra addirittura un gigante.