CAPITOLO TRENTACINQUESIMO

LA FINE DI UN MONDO

Nonostante il crescere e il moltiplicarsi dei giornali, alla fine del secolo la circolazione delle notizie era ancora lenta e malcerta anche fra i vari Stati europei. Degli avvenimenti d’oltre Atlantico non arrivavano che confuse voci. Così non c’è da meravigliarsi che quasi nessuno, nemmeno delle classi dirigenti, comprendesse il senso e la portata della rivoluzione americana.

Il Nord-America era ancora un paese lontanissimo, e a cui nessuno riconosceva una qualifica di protagonista. Sebbene territorialmente sterminato, non aveva nemmeno due milioni di abitanti, ai quali mancava, come oggi si direbbe, ogni potere decisionale perché non erano «cittadini», ma «coloni», sottoposti alla sovranità del Re d’Inghilterra. A essa non avevano mai pensato di ribellarsi anche perché avevano bisogno della flotta e dell’esercito inglesi. Dovevano infatti difendersi non soltanto dagl’Indiani con cui la partita era ancora aperta nell’interno delle praterie, ma anche dai Francesi solidamente impiantati nel Canada, e dagli Spagnoli tuttora arroccati non soltanto nel Messico, ma anche in Florida.

Ciò che rovinò l’Inghilterra furono, in un certo senso, le sue vittorie. Come abbiamo detto nella prima parte di questo libro, la diplomazia inglese si servì, lungo tutto il Settecento, delle guerre europee che si susseguirono quasi senza interruzione sino alla fine di quella dei Sette anni nel ’63, per rinsaldare i suoi domini d’oltremare, e specialmente d’America. C’era riuscita in pieno: anche il Canada francese e la Florida spagnola avevano dovuto rassegnarsi a diventare colonie inglesi. Ma con l’attenuarsi di questa doppia minaccia, aumentava nei coloni il desiderio d’indipendenza anche dalla madrepatria.

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La sua tutela infatti essi erano costretti a ripagarla con tributi che ostacolavano il loro sviluppo. Non potevano impiantare fabbriche che potessero far concorrenza a quelle inglesi, dovevano riservare le loro materie prime all’Inghilterra e avviarvele su navi inglesi. Questo aveva già provocato parecchi attriti. Ma, finché c’era stato il pericolo di aggressioni franco-spagnole, la paura era bastata a comporli. A precipitare la rottura fu il più trascurabile di tutti quelli fin allora scoppiati: l’imposizione di una tassa sul tè il cui gettito non avrebbe superato le sedicimila sterline l’anno: una cifra, anche per quei tempi, men che modesta.

Ma qui insorgeva una questione di principio. Quasi tutti di origine inglese, i coloni avevano importato dalla madrepatria una certa mentalità che li rendeva allergici a tasse che non fossero state approvate dai loro rappresentanti. In Inghilterra il parlamento era nato proprio da questa esigenza, affermatasi in una lotta secolare contro l’arbitrio del Re. I coloni avevano già fatto valere questo loro diritto nel ’65 quando gl’Inglesi avevano preteso addossargli almeno una parte delle spese sostenute nelle guerre contro Francesi e Spagnoli, cui i coloni dovevano la propria sicurezza. Ma non c’era stato niente da fare. I coloni avevano dato il loro sangue arruolandosi, ma i soldi si erano rifiutati di scucirli perché «senza rappresentanza, niente tasse».

Il governo inglese non aveva fatto tesoro di questa lezione. E così, per sedicimila sterline, provocò il disastro. All’imposizione, un pugno di coloni travestiti da Indiani risposero assaltando nel porto di Boston un carico di tè e rovesciandolo in mare. Era la fine del ’73. Gl’Inglesi reagirono bloccando la città e deferendo i responsabili a un tribunale di guerra. I coloni del Massachusetts, di cui Boston era la capitale, lanciarono un appello ai confratelli delle altre dodici province in cui il territorio era allora diviso. E i loro delegati s’incontrarono l’anno dopo a Filadelfia, dove fu steso un patto di reciproco aiuto e assistenza.

La guerra avrebbe ancora potuto essere evitata perché il sentimento di fedeltà era tuttavia forte verso l’Inghilterra, se questa non avesse commesso il marchiano errore di sollecitare l’aiuto degl’Indiani. I coloni lo considerarono un tradimento (qual era) e reciprocarono appellandosi a Francia e Spagna che furono ben liete di accorrere con le loro flotte non per dare man forte agl’insorti, ma per prendersi una rivincita contro l’Inghilterra e toglierle la supremazia sui mari.

Per gl’Inglesi fu un brutto momento. Quella ch’essi avevano considerato una piccola rivolta coloniale, un litigio in famiglia, era diventata guerra europea, anzi mondiale, perché la si combatteva dappertutto. Mentre gli Spagnoli in Mediterraneo gli strappavano Minorca e i Francesi li sloggiavano da parecchie isole dei Caraibi, gli Olandesi li attaccavano a Ceylon e a Sumatra. Fu la necessità di far fronte a tutte queste minacce che impedì all’Inghilterra di domare i coloni. Costoro non erano riusciti a mettere insieme più di ventimila armati, e armati male. Ma in compenso avevano trovato un geniale condottiero in Giorgio Washington che, sottoponendoli a una disciplina di ferro, riuscì a trasformare i «figli della Libertà», come si chiamavano quelle sgangherate bande di volontari, in un vero esercito.

Nel ’77 le forze inglesi dovettero capitolare a Saratoga. La lotta, anche se continuò fino al 1782, era ormai decisa. Ma il grande avvenimento americano non fu la vittoria militare. Fu la Dichiarazione d’indipendenza redatta fin dal 1776 da Jefferson che traduceva in articoli di legge una concezione politica considerata fin allora un sogno di utopisti. Essa diceva che tutti gli uomini nascono uguali e con un certo patrimonio di diritti che niente e nessuno può contestare: il diritto alla vita, il diritto alla libertà e il diritto alla «ricerca della felicità». Ogni uomo può scegliere il proprio destino e l’organizzazione politica ch’egli crede più adatta a favorirlo. Egli cioè è sovrano in quanto è lui che col suo voto designerà al potere dei «delegati», i quali in nessun caso potranno servirsene per coartare i suoi inalienabili diritti, compresa la revoca della delega. Naturalmente egli si sottometterà alle decisioni di una maggioranza, che tuttavia sarà tenuta al più assoluto rispetto delle minoranze e del singolo. Fra i cittadini non ci saranno altre differenze che quelle create dal merito, e quindi non potranno mai diventare ereditarie né qualificare a privilegi. Come i diritti, i doveri saranno uguali per tutti: nessuno, qualunque posto occupi, potrà esserne esentato. Solo la legge, espressione della volontà collettiva, è sovrana.

È pressappoco quello che aveva scritto Rousseau nel suo Contratto sociale. Se fosse stato lui a suggerire queste idee agli americani o gli americani a suggerirle a lui, è un problema complesso e che in questa sede non trova posto. Chi voglia approfondirlo non ha che da leggere il magistrale studio di Tocqueville sulle origini della democrazia americana. Un fatto comunque è certo: che la democrazia, anche se frutto sul piano dottrinario di un lungo travaglio del pensiero europeo iniziatosi con la Riforma di Calvino, furono gl’insorti americani a tradurla in un regime politico che innalzava l’uomo alla dignità di cittadino, lo rendeva uguale a tutti gli altri cittadini, pienamente libero e pienamente responsabile di fronte alla società. Molto più dell’aiuto della Francia e della Spagna, molto più del genio strategico di Washington, fu la coscienza di questa grande conquista che condusse i coloni alla vittoria. Ed è questa stessa coscienza che da duecento anni consente alla democrazia americana, malgrado tutte le sue imperfezioni, di superare qualunque crisi senza rinnegarsi. Gli uomini che nella piccola città quacchera di Filadelfia ne redassero lo Statuto s’ispirarono alla Bibbia, dando così ai suoi princìpi di libertà e di uguaglianza un fondamento religioso, che nessuna contingenza politica ha più potuto scalfire.

Di tutto questo, l’Europa non si rese conto che molto più tardi. Lì per lì essa non vide nella rivolta americana che l’occasione per sovvertire l’equilibrio delle forze che l’Inghilterra aveva costruito a proprio vantaggio, strappandole il dominio sui mari. E l’esempio di questa incomprensione lo dette la Francia. La sua flotta riportò brillanti successi contro quella inglese. Ma le sue finanze, pessimamente amministrate, uscirono stremate dallo sforzo. Questo non era un danno irreparabile per un Paese che, quanto a risorse, seguitava a essere il più ricco d’Europa. Irreparabile fu il contagio ideologico. I soldati francesi che, al comando di Lafayette, sbarcarono in America per dar mano agl’insorti, non solo lessero lo Statuto dei coloni di Filadelfia, ma ne constatarono anche la pratica funzionalità. Essi videro quali energie sprigionava quella nuova società di uomini liberi, ne assorbirono il fremito democratico e lo riportarono in patria. Nessun seme poteva attecchire più facilmente in un Paese già arato dalla predicazione di Rousseau e dove il vecchio regime era rimasto più vecchio che dappertutto altrove e chiuso all’esigenze del mondo moderno. Re Luigi e i suoi cortigiani credevano di aver rinsaldato il prestigio della monarchia colando a picco qualche nave inglese. E invece l’avevano irreparabilmente condannata.

Le prime a venire al pettine furono le difficoltà economiche. Era un male endemico di cui il ministro Turgot aveva benissimo indicato i motivi e i rimedi. Bastava liberalizzare gli scambi smantellando la pesante bardatura dei vincoli, monopoli e privilegi che li rendevano sclerotici. Ma questa bardatura era la greppia delle caste dominanti, le cui resistenze avevano avuto la meglio sull’animo indeciso del Re e lo costrinsero a liquidare il Ministro.

Luigi ricorse ai miracoli di Necker, un banchiere ginevrino che passava per il mago della finanza. E il miracolo egli lo avrebbe compiuto, anche senza ricorrere alla magia, se la Corte (che nel regime assolutistico si confondeva con lo Stato e con esso faceva cassa comune) avesse accettato di ridurre le sue folli spese, e le classi privilegiate di pagare le tasse. Ma queste classi erano talmente ottuse che la proposta fu scartata e il Necker liquidato come un pericoloso sovversivo.

Uno dopo l’altro, i suoi successori subirono la medesima sorte. L’ultimo, Calonne, scrisse: «La Francia è un Paese composto di tanti Stati separati, ciascuno con una sua particolare amministrazione, dove ogni provincia ignora ciò che accade nell’altra, dove i ricchi non pagano tasse, e dove il privilegio impedisce qualsiasi giustizia: un Paese insomma impossibile da governare». Ma nel 1788 il passivo del bilancio toccò tali vertici, che il Re richiamò il Necker e convocò per l’anno seguente gli Stati Generali.

Gli Stati Generali erano il parlamento della Francia. Ma, a differenza degli altri parlamenti, esso era diviso in tre diversi ordini secondo le classi che vi erano rappresentate: il Clero, la nobiltà e la borghesia cittadina. Siccome ognuno di essi si riuniva e deliberava per conto proprio, è facile capire che i primi due, solidali nella difesa del privilegio, soverchiavano il terzo. Cioè lo avrebbero soverchiato se il parlamento avesse funzionato. In realtà esso non era stato più convocato dal 1614, cioè da oltre un secolo e mezzo. E fu per questo che l’annunzio suscitò un’enorme impressione fatta di attesa, di timore, di sospetti e di speranze.

La sessione fu aperta da un breve discorso del Re che riconobbe con franchezza la gravità della crisi finanziaria, chiese che venissero adottate delle riforme, ma raccomandando che non ci si lasciasse prendere la mano «da un esagerato desiderio d’innovazione», e lasciò la parola a Necker, che per tre ore alluvionò di cifre e statistiche i parlamentari. Costoro, che dal ministro si aspettavano qualche proposta programmatica, rimasero delusi e disorientati. Ma per quel giorno (5 maggio) non successe nulla.

La battaglia cominciò l’indomani, quando i rappresentanti della nobiltà e quelli del Clero si riunirono per conto loro per prendere le proprie decisioni. I borghesi, comprendendo che se si votava come per il passato, e cioè per Stati, quello loro sarebbe stato sopraffatto dagli altri due, mandarono a dire che il voto doveva essere dato in seduta plenaria e a titolo individuale. I nobili rifiutarono perché questo metodo, dissero, non era previsto. Ma il vero motivo era che i rappresentanti del Terzo stato ammontavano alla somma degli altri due, e quindi formavano maggioranza perché quelli del Clero – fra i quali ce n’erano parecchi di origine plebea – erano divisi, e infatti non presero posizione.

Si giunse a una situazione di stallo che durò tutto il mese, ma che si ripercosse nel Paese creandovi una febbrile tensione. Il 10 giugno il Terzo stato rinnovò la sua richiesta in tono ultimativo. Alcuni giorni dopo esso fu rinforzato da alcuni rappresentanti del Clero che disertarono quello loro. Il suo presidente dichiarò che siccome il Terzo stato rappresentava il novantasei per cento della popolazione aveva il diritto di costituirsi in Assemblea Nazionale facendo a meno degli altri due.

Non era ancora la rivoluzione. La maggioranza di quegli uomini era monarchica. Per trarre il Re dalla loro parte essi decretarono che, finché l’Assemblea rimaneva in carica, tutti i cittadini dovessero pagare le tasse, ma vi si rifiutassero se essa veniva sciolta. Il Re adunò i suoi Ministri. Necker lo supplicò di aderire alle richieste dell’Assemblea accettando il suo sistema di votazione. Ma gli altri lo convinsero che in tal modo sarebbe rimasto prigioniero dei suoi nemici. Egli fissò al 23 la convocazione degli Stati Generali per informarli delle sue decisioni. E a questo punto entrò in giuoco anche il caso.

La sala dove la riunione doveva svolgersi, nel palazzo reale di Versailles, doveva essere ingrandita e riattata. Quando i deputati del Terzo stato vi si presentarono, trovarono le porte chiuse e l’interno occupato dagli operai. Sospettando che si trattasse di un pretesto per impedirgli di entrare, si trasferirono in un attiguo campo di tennis, che allora si chiamava pallacorda, proclamarono che dovunque la loro Assemblea si riunisse, lì era il popolo francese, e giurarono di non sciogliersi prima di aver dato alla Francia una nuova Costituzione. Cioè dissero in sostanza che l’unico potere legittimo erano loro.

A Parigi la notizia creò grande entusiasmo, e cortei di folla mossero su Versailles per montare buona guardia intorno all’Assemblea. Gli umori della città erano tali che alcuni nobili e quasi la metà dei rappresentanti del Clero si unirono al Terzo stato, rendendone schiacciante la supremazia.

Il Re si presentò alla sessione coi suoi Ministri, fra i quali non c’era Necker che si era rifiutato d’intervenire. Pronunziò alcune parole di circostanza, e poi fece leggere il suo responso da un segretario. Riconobbe al parlamento piena competenza in fatto di finanze e di tasse e il diritto di proporre riforme. Ma ribadì il sistema di votazione per Stati e respinse la pretesa del Terzo di costituirsi in Assemblea Nazionale e di prenderne il nome. «Il vero rappresentante del popolo sono io,» concludeva la dichiarazione «e come tale vi ordino di sciogliervi per riunirvi domani e prendere separatamente le vostre decisioni.»

Quando si alzò per uscire, quasi tutti i nobili ma solo una piccola aliquota del Clero lo seguirono. Quelli del Terzo stato rimasero. Il Gran Ciambellano rinnovò l’ingiunzione di sgombrare la sala. Mirabeau gli rispose che solo le baionette potevano indurveli. Quando il Re ne fu informato, brontolò: «Be’, se vogliono restare, restino, e che il diavolo se li porti». Non aveva capito che quel rifiuto di obbedienza era la fine del suo potere, o almeno del suo potere assoluto.

A Parigi il subbuglio cresceva. Le autorità mobilitarono la gendarmeria, ma scoprirono che in parecchi reparti c’erano delle «cellule» che s’erano impegnate a obbedire soltanto all’Assemblea. Lo stesso giorno quarantasette nobili, capeggiati dal Duca d’Orléans, cugino del Re, si unirono al Terzo stato. Il fronte della resistenza si sgretolava sempre più. Il Re si arrese alle pretese dell’Assemblea di votazione collegiale, ma fece convergere sulla città dieci reggimenti, composti in maggioranza di Svizzeri e Tedeschi perché dei Francesi capiva che non c’era più da fidarsi. L’Assemblea temette di essere dispersa con la forza, o finse di temerlo per suscitare la reazione del popolo, e trasformò il proprio nome in quello di «Costituente» per rendere irrevocabile la propria qualifica alla creazione di un nuovo regime. Non aveva ancora rotto e non voleva rompere i ponti con la monarchia. Voleva soltanto indurla ad accettare una forma costituzionale sul modello di quella inglese, e Mirabeau lo disse esplicitamente mettendo in guardia il Re dai suoi cattivi consiglieri.

Fra costoro c’era la regina Maria Antonietta, strettamente legata ai cortigiani più retrivi. Capricciosa, prepotente, sventata, non era mai stata popolare. Ora aveva perso anche la sua pàtina di frivola gaiezza un po’ perché non ne aveva più l’età, un po’ perché proprio in questa emergenza la sorte l’aveva duramente colpita portandole via il primogenito, erede al trono. Bruscamente richiamata da quella sventura alla realtà, vi reagiva con puntigliosa acredine. Fu anche lei a spingere il Re ad appesantire la mano congedando Necker e sostituendolo con un suo favorito. Parigi rispose porgendo un trionfale saluto al Ministro licenziato. Un giovane ex gesuita che ora faceva l’avvocato, Desmoulins, in un comizio definì il licenziamento di Necker un tradimento, invitò il popolo a impugnare le armi e ne diede l’esempio agitando una pistola. Una folla minacciosa si ammassò, fu dispersa dai soldati, ma tornò ad ammassarsi l’indomani, 13 luglio, per assaltare depositi di armi e impadronirsene.

Il 14 ci fu un attacco agl’Invalidi che fruttò migliaia di fucili e una dozzina di cannoni. A un tratto una voce gridò: «Alla Bastiglia!». La Bastiglia era una prigione, ma ormai in disarmo. Anzi, da un pezzo era riservata a ospiti di lusso e degni di riguardo, tra i quali c’era stato a ripetizione anche Voltaire. Attualmente non contava che sette inquilini, trattati in guanti gialli. Ma la sua sagomatura di fortezza medievale, le sue mura massicce, i ponti levatoi, ne facevano il simbolo dell’assolutismo. E il suo comandante, De Launay, uomo in realtà mitissimo, passava per un torturatore.

Gli assalitori mandarono una delegazione a chiedergli di ritirare i cannoni che, postati sulla città, vi facevano pesare la loro minaccia. De Launay assentì e trattenne i delegati a colazione. Ma dal di fuori alcune teste calde penetrarono nell’interno e abbassarono i ponti levatoi che consentirono agli assedianti d’irrompere in massa. De Launay che, da soldato d’onore, intendeva ritirarsi, ma non arrendersi, intimò di sgombrare, non fu obbedito, e ordinò alle sue sessanta guardie di aprire il fuoco. Gli assalitori risposero coi loro archibugi e poi coi cannoni razziati agl’Invalidi. Dopo quattr’ore di battaglia un centinaio di morti lastricavano il cortile. Piuttosto che continuare la carneficina, De Launay mandò la chiave dell’ingresso principale agli assalitori confidando nella loro cavalleria. Gli assalitori si precipitarono nella cittadella, trucidarono alcune guardie, s’impadronirono del comandante e lo istradarono verso il municipio per sottoporlo a un sommario processo. Ma per strada alcuni scalmanati gli saltarono addosso, lo massacrarono, lo decapitarono e sfilarono per le strade di Parigi con la sua testa infilata su una picca.

Il Re era impegnato in una partita di caccia. Quando rientrò, scrisse nel suo diario: «14 luglio: nulla». Un cortigiano, che arrivava trafelato da Parigi, gli raccontò l’accaduto. «Ma questa» disse il Re «è una rivolta!» «No,» rispose l’altro «è la rivoluzione.» L’indomani si presentò all’Assemblea, di fronte a cui prese solenne impegno di ordinare il ritiro delle truppe sia da Versailles che da Parigi. Licenziò i Ministri chiamati in carica pochi giorni prima, richiamò per la terza volta Necker, il 17 si presentò in municipio dove si era costituita una giunta di borghesi e popolani. E di fronte a tutti attaccò sul proprio cappello la coccarda blu, bianca e rossa: i colori che la Francia rivoluzionaria aveva scelto come propria bandiera al posto di quella bianca dei Borboni. Un gesto che, compiuto qualche giorno prima, forse gli avrebbe salvato la testa e anche il trono. Ormai era tardivo.

Neanche di questi avvenimenti l’opinione pubblica europea ebbe un’esatta informazione e una chiara visione. E quelle che li capirono meno di tutti furono le altre monarchie assolute cui una secolare deformazione mentale impediva di concepire, financo in via d’ipotesi, che un popolo potesse rivendicare il diritto di decidere il proprio destino. Alle Corti di Vienna, di Berlino, di Pietroburgo, di Madrid, i fatti di Parigi sembrarono una manifestazione di demenza collettiva, destinata a sfociare soltanto nel caos. Ci volle del tempo prima che l’Europa si rendesse conto di cosa succedeva.

Per come si era svolta, la presa della Bastiglia non era stato un episodio glorioso. Ma è giusto che i Francesi abbiano fatto del 14 luglio la loro festa nazionale perché la partita fu giuocata e vinta proprio lì. Tutto il vecchio regime cadde senza opporre più resistenza di quell’antica fortezza che lo simboleggiava. Con semplici tratti di penna la Costituente ne liquidò tutti i residuati. Ai nobili che si erano ostinati a difenderlo, non restò altro scampo che la fuga oltre frontiera, dove si dettero a tramare contro il loro Paese. Come tutti i fuoriuscitismi, anche questo fu fatale alla causa che intendeva servire. Furono gl’intrighi di questi uomini, intesi a fomentare rivolte all’interno e a creare all’estero uno spirito di crociata contro la Francia, a immergere il nuovo regime in una psicosi di sospetti e di paure che fatalmente doveva sboccare nel terrore.

Il primo a farne le spese fu il Re. Sebbene prigioniero dell’Assemblea e ridotto a ratificarne i decreti, egli respinse il consiglio di suo fratello, il Conte d’Artois, che gli suggeriva un colpo di forza militare. Il Conte allora raggiunse gli altri fuoriusciti, offrendo così buoni argomenti a chi accusava il Re di doppio giuoco. Resa furibonda anche da una carestia di pane, la folla lo costrinse a lasciare Versailles e a trasferirsi a Parigi per controllarne meglio le mosse. Il palazzo reale delle Tuileries diventò la sua Bastiglia. Di lì egli vide lievitare una rivoluzione che ormai era sfuggita di mano alla stessa Assemblea. Quella che comandava era la piazza, della cui violenza era interprete un gruppo d’intellettuali estremisti, i giacobini.

La sorte del Re era probabilmente segnata. Ma a precipitarla fu un piccolo episodio marginale. Nel ’91, dopo un anno e mezzo d’isolamento, il Re e la Regina vollero prendere la comunione in vista dell’imminente Pasqua. Ma rifiutarono di farsela impartire da uno di quei sacerdoti che avevano accettato l’investitura popolare facendosi eleggere dai fedeli invece che nominare dalla Gerarchia. Perciò i due sovrani decisero di andare a Saint Cloud, dove officiavano dei preti tuttora fedeli alla Chiesa di Roma. Ma la folla li bloccò per strada, obbligandoli a tornare indietro. L’affronto li decise a tentare la fuga. Prima di avventurarvisi, il Re redasse un proclama con cui invalidava tutti i decreti ch’era stato obbligato a firmare. Ma il colpo andò a vuoto. Riconosciuti per strada, furono riportati di forza alle Tuileries, più prigionieri di prima. Il proclama era la riprova della loro «intelligenza col nemico».

Redatta la nuova Costituzione che s’ispirava ai tre grandi princìpi di Libertà, Eguaglianza e Fraternità, l’Assemblea si era sciolta per cedere il posto a un’altra eletta a suffragio popolare, che traducesse in pratica queste nobili aspirazioni. Ma non ce ne fu il tempo. Le monarchie assolute d’Austria e di Prussia avevano finalmente capito che quello della Francia non era un fatto di demenza collettiva, ma il primo guizzo di un incendio che minacciava d’incenerire tutti i valori e istituti sui quali esse si reggevano. E si erano coalizzate per spegnerlo con una spedizione punitiva, cui subito dopo si associò anche l’Inghilterra.

I contraccolpi in Francia furono immediati. Da quel momento rivoluzione e patria fecero tutt’uno. Chiunque patteggiasse per ragioni ideologiche con gli esponenti del vecchio regime, ormai al servizio degli aggressori, era un traditore. Inoltre l’emergenza esigeva il ricorso agli uomini più risoluti, che naturalmente erano anche i più estremisti. I grandi ideali di libertà e di fraternità non furono rinnegati, ma vennero accantonati. Per essi non c’era posto in un momento in cui gli eserciti nemici incalzavano da ogni parte. Ci volevano il pugno di ferro, i plotoni di esecuzione, insomma il terrore sia contro la minaccia esterna che contro la dissidenza interna. E chi poteva essere più dissidente di un Re per la cui causa gli altri Re si erano coalizzati, e di una Regina, di cui si sapeva che non aveva cessato di rivolgersi per aiuto al fratello Leopoldo, Imperatore d’Austria, e poi al nipote che gli era succeduto? Del loro tradimento non c’era bisogno di prove. Il comandante dell’armata prussiana in marcia su Parigi aveva lanciato un proclama in cui si minacciava la distruzione della città se si fosse torto un capello alla famiglia reale.

La Francia raccolse la sfida. Guidata da Danton, il più grande tribuno della rivoluzione, e forse anche il suo solo uomo di Stato, la folla assalì le Tuileries, fece a pezzi i coraggiosi Svizzeri della Guardia, e trascinò i due sovrani prima in prigione, poi in tribunale, e infine sul patibolo.

L’Europa allibita non colse sul momento che l’aspetto sanguinario dell’episodio, e ne inorridì. Anche le menti più progressiste, quelle che si raccoglievano sotto il segno dell’Illuminismo, e che dapprincipio avevano simpatizzato col regime assembleare di Parigi e con le sue riforme, furono sconvolte dal doppio regicidio e lo deplorarono. Forse il solo a capire fu Goethe, quando disse che quella non era la fine del mondo, come tutti pensavano, ma soltanto di un mondo.

Era vero. Il 1789 non chiude, con undici anni d’anticipo, il secolo; ma un’èra.